JCiak – Dall’altra parte della Storia

”Non lo so. Non lo so se sono felice”. Eppure ne avrebbe motivo Leonid Prudovsky, che risponde guardandosi intorno quasi stranito. Dopo la presentazione alla stampa, anche la prima mondiale di My Neighbor Adolf al Festival del Cinema di Locarno, in quella Piazza Grande che è la più grande sala cinematografica all’aperto al mondo, è stata un successo.
“Forse non ne sono capace, forse semplicemente non so essere felice. È una possibilità. Potrebbe essere una caratteristica ebraica… Però nella famiglia di mia madre tutti sono sempre felici. Non lo so. In Piazza Grande mi guardavo intorno, erano entusiasti, hanno davvero amato il film. È stato devastante”.
Prudovsky dice devastating, che sarebbe da rendere con “sconvolgente”, ma in un colloquio che definire pirotecnico è poco, in cui anche solo portare a termine un argomento nella stessa lingua in cui lo si era iniziato è impossibile, qualche dubbio su cosa intendesse davvero questo regista nato nel 1978 a San Pietroburgo resta. “Già la reazione alla prima proiezione, in Israele, era andata meglio di quanto mi aspettassi… dajenu! Sarebbe bastato, davvero. Lì era la prima volta che guardavo il mio film in mezzo a un pubblico, ero tesissimo, scrutavo ogni minima reazione. Penso sia normale: ho dedicato dieci anni alla scrittura di questa storia, e sono un perfezionista, continuavo a vedere cose che avrei potuto fare meglio. E la risposta degli israeliani per me non era affatto ovvia”.
L’ebraico e lo yiddish li aveva studiati un poco alla scuola ebraica, a Leningrado, prima di fare l’alyà a tredici anni e trasferirsi con la sua famiglia in Israele, dove si è laureato in cinema e televisione. Il cortometraggio con cui si è diplomato, Dark Night, ha vinto numerosi premi, tra cui una menzione speciale a Venezia nel 2005, dove è stato scelto come miglior cortometraggio. Ha scritto e diretto film per le televisione – Like a Fish out of Water, la serie Troyka – mentre il suo primo lungometraggio, Hamesh Shaot me’Pariz, Five Hours from Paris, è stato selezionato dal Toronto Film Festival nel 2009. “Nei dieci anni che abbiamo impiegato a scrivere questo film Dmitry Malinsky e io siamo invecchiati. Siamo cresciuti, forse. E abbiamo cercato di dare alla storia più livelli di lettura, per arrivare a persone anche molto diverse tra di loro. È stato un processo così lungo che è strano ora pensare sia tuto finito”. È soprattutto molto felice di non poter più cambiare nulla. Il titolo, invece, ha accettato di modificarlo, anche se decisamente malvolentieri: “Avrei voluto si intitolasse My neighbour Hitler, ma me l’hanno sconsigliato con una tale veemenza e con una tale decisione che ho ceduto”.
Ambientato in un generico paese dell’America Latina negli anni Sessanta – è una coproduzione di Israele, Polonia e Colombia – il film racconta la storia di un incontro: Marek Polsky – interpretato dallo scozzese David Hayman – è un sopravvissuto alla Shoah, vive in una casa sperduta nel nulla e la sua unica consolazione pare essere una pianta di rose nere che cura con meticolosa ossessione, ricordando la famiglia scomparsa in Europa. A turbare la sua routine arriva prima una donna (tedesca): il feroce avvocato di quello che diventerà il suo nuovo vicino di casa, un altrettanto anziano tedesco molto distinto dallo sguardo azzurrofreddo e penetrante. E inquietante. Helmut Herzog, questo il nome del vicino, interpretato da Udo Kier, viene a turbare la scontrosa solitudine in cui vive Polsky che, disturbato e turbato dalla nuova presenza, inizia a osservare il nuovo arrivato.
“Ai miei attori ho lasciato una grande libertà, anche rispetto alle battute. Ho voluto nei personaggi mettessero se stessi. Non ho chiesto che utilizzassero esattamente le parole che avevo scritto, era più importante che cogliessero l’intenzione, l’emozione che stavo cercando di trasmettere. C’è voluto molto tempo prima che riuscissero a fidarsi di me e non è stato facile. Soprattutto con David Hayman, che all’inizio era teso, preoccupato. Ho poi scoperto che ha vissuto in Israele… ed è davvero un grande attore. E una splendida persona”.
Nel film, in un bislacco crescendo di tensione, Polsky dal fastidio iniziale passa alla frustrazione, poi alla rabbia, e all’angoscia più nera quando si convince di avere per vicino di casa Hitler in persona. Quegli occhi li conosce. Quello sguardo di ghiaccio è certo di averlo già incontrato quando, ancora ragazzino, aveva partecipato a un torneo di scacchi. Il nuovo vicino di casa diventa una ossessione tale da condizionargli la vita, in ogni momento. Ma, come ha scritto il regista: “In equilibrio tra il dolore e un senso amaro del ridicolo, questa parabola vorrebbe esplorare la natura dell’animosità. Cosa succederebbe se io iniziassi a vedere l’umanità del mio peggior nemico?”.
Non un dramma, non un film comico, il racconto si sviluppa in maniera sorprendente, costringendo gli spettatori ad alternare la tensione a qualche risata, preoccupazione e irritazione profonda per lo svolgersi di un film solo apparentemente leggero. Fra i sospetti reciproci e le inevitabili discussioni i due iniziano a conoscersi e la tensione sale fino a quando Herzog, sorridendo in maniera sinistra, arriva a dire a un terrorizzato Polsky, dopo avergli svuotato una bottiglia di vodka e apprezzato i suoi cetrioli sott’aceto: “Lei è ebreo, l’ho capito, ma è un buon vicino”.
“Ma”, appunto.

Ada Treves

(Nelle immagini: Udo Kier e David Hayman nei panni di Helmut Herzog e Marek Polsky)

(29 settembre 2022)