Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino
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Il
passaggio da “figli di Israele”, un clan tribale, un circolo
comunitario, a popolo dei figli di Israele, collettività responsabile,
non avviene attraverso una presa di coscienza, un momento di
consapevolezza nazionale. Gli ebrei si rendono conto di essere
diventati un popolo perché il Faraone in Esodo 1, 9, per la prima
volta, li definisce un popolo. Una definizione che è negativa,
persecutoria, ma allo stesso tempo vera. Dovremmo aspettare Moshè e
l’orizzonte di liberazione per vedere un popolo, il nostro, che
prenderà coscienza di sé. Perché un popolo è forte, quando conosce la
propria forza e i propri limiti, i propri orizzonti e i propri confini
senza avere bisogno di nessuna voce esterna che gli ricordi che lui è
ormai divenuto “forte e numeroso”.
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Gadi
Luzzatto
Voghera,
storico
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Educare
le giovani generazioni è un imperativo della tradizione ebraica. Nella
liturgia dello Shemà (la preghiera fondamentale che si ripete
quotidianamente) che si fa comandamento religioso, la trasmissione ai
propri figli diviene elemento fondamentale e ineludibile. Cosa si deve
insegnare? Di principio si insegna l’Amore per il “tuo” Dio (la
personalizzazione qui è decisiva). Il mezzo per educare a questo amore
è complesso: attraverso la ripetizione ai figli (veshinantam leVanecha)
(la Mishnah, la ripetizione, diventa elemento costitutivo di questo
processo). Attraverso l’atto concreto di ricordo con degli oggetti (i
Tefillin e la Mezuzà). Attraverso la Profezia e il suo studio: tutto il
secondo brano dello Shemà (tratto da Devarim-Deuteronomio 11, 13-21) è
di fatto una Profezia: se seguirai questo amore, Dio benedirà il lavoro
dell’uomo; ma se seguirai altri idoli allora “l’ira dell’Eterno si
accenderà contro di voi” (di nuovo un rapporto molto diretto, ad
personam) e si impedirà alla terra di dare i suoi frutti. E alla fine
del terzo brano (Bemidbar-Numeri15, 37-41) l’Eterno ribadisce a Moshè
queste indicazioni, aggiungendo un concetto che è evidentemente
storico: “Io sono l’Eterno vostro Dio, che vi ho fatti uscire dalla
terra d’Egitto per essere per voi Dio.” Vi ho tratti dalla schiavitù,
ho fatto di voi uomini liberi per due motivi: perché voi mi amiate e
perché Io voglio essere proprio il vostro Dio. Voi avete bisogno di me,
e Io ho bisogno di voi.
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DOPO IL BOICOTTAGGIO DEGLI ATLETI ISRAELIANI La Gazzetta con Pagine Ebraiche:
"Inaccettabili i silenzi di Croce" Fronte
sempre più ampio contro il vergognoso silenzio del presidente della
International Sailing Federation, il genovese Carlo Croce, davanti al
boicottaggio degli atleti israeliani ai mondiali juniores di vela in
svolgimento Malesia. A rilanciare l’intervento pubblicato ieri sul nostro notiziario quotidiano è, tra gli altri, la Gazzetta dello Sport.
Proprio la Gazzetta ricorda in queste ore come le condizioni imposte
dal governo malese fossero “ingiuste” e “immorali”. E come il silenzio
di Croce pesi più di tanti altri.
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SEGNALIBRO - WRITING FOR JUSTICE Scrivere per la giustizia
Nel nome di Edgardo
“Le
arti e la letteratura, insieme alla stampa, si confermano come grandi
strumenti di conoscenza e di dibattito, come già avvenuto all’epoca del
caso Mortara a metà dell’800 ed è per questo che il mio nuovo studio,
che parte dall’esplorazione di contesti artistico-letterari
internazionali legati al caso, potrà gettare nuova luce su queste
vicende, facendone comprendere aspetti assai importanti finora poco
noti”. Elèna Mortara lo aveva annunciato a Daniela Gross nella grande
intervista che Pagine Ebraiche le ha dedicato nell’estate del 2014 e
ora Writing for Justice, la grande ricerca cui aveva fatto cenno allora, è finalmente stata pubblicata da Dartmouth College Press, uno dei più
prestigiosi editori universitari statunitensi. Emerge la figura di uno
scrittore e polemista d’eccezione come Victor Séjour (1817-1874), ma
attraverso il suo impegno artistico e civile attorno al dramma di
Edgardo Mortara, il bambino ebreo di sei anni rapito dalle guardie
pontificie e quindi recluso in Vaticano, appaiono a cavallo fra le due
sponde dell’Atlantico Hugo, Hatwhorne, Twain, Napoleone III, Lincoln e
Garibaldi (nell’illustrazione di George Housman Thomas riprodotta nella
pagina a fianco e apparsa sull’Illustrated
London News nel 1849 lo si vede con il suo mitico aiutante in campo, il
moro Andres Aguiar e con Nino Bixio). Emergono le grandi tensioni
ideali e le lacerazioni che portarono al Risorgimento e
all’unificazione nazionale italiana. Fu proprio Séjour (nell’immagine
in questa pagina ritratto da un caricaturista dell’epoca), creolo di
New Orleans espatriato a Parigi, a condurre una dura battaglia nel nome
del bambino rapito e a denunciare di fronte all’opinione pubblica internazionale
la mostruosità dello Stato della Chiesa. Il nuovo libro contribuisce a
ravvivare l’interesse per il caso Mortara in attesa che il regista
Steven Spielberg cominci la lavorazione della coproduzione coproduzione
DreamWorks-Weinstein dedicata alla drammatica vicenda del bambino
strappato alla famiglia e convertito al cattolicesimo. Il lavoro, come
già annunciato da Pagine Ebraiche, sarà basato sulla sceneggiatura di
Tony Kushner, già autore di Lincoln e Munich.
Nelle immagini una
illustrazione di George Housman Thomas con protagonista Giuseppe
Garibaldi con il suo mitico aiutante in campo, il moro Andres Aguiar e
con Nino Bixio; la copertina di Writing for Justice ed Elèna Mortara.
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SEGNALIBRO - WRITING FOR JUSTICE
Il doppio segno del caso Mortara
Un
libro, questo di Elèna Mortara, che si può leggere su due livelli: è
una monografia su Victor Séjour, scrittore e drammaturgo vissuto nel
cuore dell’età delle emancipazioni, ma è anche una riflessione,
fortemente motivata da ovvie considerazioni autobiografiche, sul
caso-Mortara, qui esplorato – una volta tanto – non come episodio
giuridico, ma come fonte di rappresentazione narrativa: prima che la
scandalosa ingiustizia nella storia della libertà religiosa, la vicenda
è restituita al mondo della fantasia creativa.
L’autrice ha preferito frapporre tra sé (la storia della sua famiglia)
e la materia trattata un doppio filtro: quello della studiosa di
letteratura americana e quello della intellettuale sensibile ai
problemi dell’eguaglianza e della libertà.
Non poteva trovare figura-simbolo più rappresentativo. L’autore preso
in esame si presenta come un modello ideale di quel binomio “esodo e
rivoluzione” immortalato anni fa in un famoso saggio di Michel Walzer:
non c’è in gioco, nella biografia di Victor Sèjour, soltanto
l’emancipazione ebraica degli ebrei d’Europa, vista da oltreoceano, ma
si affrontano nelle sue opere tutte le emancipazioni dell’epoca: delle
donne, degli uomini creoli cone Séjour, scrittore nato in Louisiana,
cresciuto in una famiglia francofona, poi emigrato e maturato nella
Parigi del secondo Ottocento. “Trasgressore” per antonomasia, il
Séjour, a suo agio solo quando era chiamato a “passare oltre i
confini”. Crossing border, dice la Mortara con formula icastica.
Il caso-Mortara viene così sollevato di peso e tolto dall’alveo un po’
ristretto e puramente recriminatorio della letteratura giuridica e
della storia dell’antigiudaismo ottocentesco. Il libro della Mortara si
apprezza infine per la varietà dei registri stilistici, per l’agilità
con la quale induce il lettore ad esaminare fonti diverse: testi
narrativi, opere teatrali, stampe e incisioni d’epoca, soprattutto
raffigurazioni satiriche e caricaturali, secondo il gusto francese fin
de siècle. Il libro si apprezza dunque come un caso-studio, analizzato
nelle sue diverse forme, anche figurative, e tanto più si ammira quanto
più si riflette sul suo assunto di fondo: l’apologia della
multiculturalità, la natura contagiosa del libero pensiero che
agevolmente nell’Ottocento induceva gli scrittori a farsi paladini di
tutte le forme di liberazione.
Un esercizio ginnico terminato nel Novecento nei rigori dei sistemi
totalitari, che hanno anchilosato gli scrittori e i pittori portandoli
a farsi tutti difensori della propria parte, esclusivisti e non
inclusivi, privi cioè di quella solidarietà degli esclusi e degli
oppressi che era la parte migliore della cultura occidentale andata
mostruosamente a naufragare lungo gli scogli della Grande Guerra.
Alberto Cavaglion, storico
Pagine Ebraiche gennaio 2016
Nell’immagine il quadro "Il rapimento di Edgardo Mortara", realizzato da Moritz Oppenheim (Hanau 1800, Francoforte 1882)
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SEGNALIBRO - WRITING FOR JUSTICE
La battaglia di Victor Séjour
Il
22 dicembre 1859, a Parigi, la prima rappresentazione della pièce
teatrale dello scrittore Victor Séjour, La tireuse de cartes, suscitò
viva curiosità e una vasta affluenza di pubblico. Alla prima
assistettero anche l’Imperatore Napoleone III con l’imperatrice
Eugenia, mentre girava la voce che a scrivere la pièce avesse dato mano
anche il capogabinetto dell’Imperatore, Jean-François Constant
Mocquard. Victor Séjour era uno scrittore teatrale assai noto nella
Francia dell’epoca. Mulatto, nato ad Orléans da genitori liberi e
forniti di mezzi, si era trasferito a Parigi giovanissimo e lì aveva
intrapreso la sua carriera letteraria. Un suo racconto intitolato Il mulatto,
un duro atto d’accusa contro la schiavitù, aveva avuto grande successo
a Parigi nel 1837 ed era stata la prima opera composta da uno scrittore
“di sangue misto” sulla questione della schiavitù. Nella Parigi di
quegli anni, il colore della pelle non rappresentava un problema, basti
pensare al successo di un altro scrittore di sangue misto come
Alexandre Dumas e al dibattito vivace sulla questione della schiavitù
in America, che aveva cominciato a divenire urgente alla metà degli
anni Cinquanta e che proprio nel 1861 avrebbe dato vita alla terribile
guerra di secessione. La pièce rappresentata in quell’occasione non
prendeva però spunto come la precedente dalla questione della
schiavitù, ma da una vicenda recente, accaduta in Italia, nella Bologna
del 1858, il rapimento “legale” del bambino ebreo Edgardo Mortara da
parte dell’Inquisizione romana in seguito al suo presunto battesimo.
Séjour si schierava ancora una volta, come già precedentemente, sul
fronte del teatro “impegnato”, prendendo questa volta l’iniziativa di
una battaglia non in favore della libertà degli schiavi ma di quella
dei diritti degli ebrei oppressi dalla politica del papato. L’opera di
Séjour fu la prima opera letteraria a porre al suo centro la questione
del piccolo Edgardo Mortara, un caso che suscitò in quegli anni
l’attenzione dell’intera Europa ed ebbe non poca parte nello schierare
contro la Chiesa l’opinione pubblica illuminata europea, facilitando la
caduta del potere temporale dei papi. Tradotta in molte lingue, fu
rappresentata anche in Italia e nella stessa Roma, ancora sotto il
dominio della Chiesa, al teatro Quirino, dove dette occasione a
manifestazioni di protesta antipapali tanto da essere sospesa.
Figlio di una famiglia ebraica bolognese di estrazione borghese,
Edgardo Mortara fu sottratto ai suoi cari a sei anni dalle guardie
pontificie, dopo che una domestica della casa, già licenziata, aveva
denunciato all’Inquisitore Feletti di aver battezzato di nascosto il
piccolo quando questi aveva due anni credendolo in pericolo di vita.
Nonostante le vivaci proteste della famiglia, il bambino fu portato a
Roma alla Casa dei Catecumeni. Di lui si interessò personalmente il
papa Pio IX, che lo considerò come una sorta di figlio spirituale. La
città di Bologna faceva ancora parte, nel 1858, dello Stato pontificio.
Sarebbe entrata a far parte dello Stato italiano solo nel 1860, con la
seconda guerra d’Indipendenza e il plebiscito che univa
l’Emilia-Romagna al Regno di Sardegna, divenuto nel 1861 Regno
d’Italia. In quegli anni, dunque, la Francia napoleonica e i Savoia
erano alleati nell’opera di unificazione dello Stato italiano, anche se
poi sarebbe stato proprio Napoleone III a trasformarsi in garante
dell’esistenza dello Stato Pontificio e ad impedire fino al 1870,
quando fu deposto in seguito alla guerra franco-prussiana, la caduta
del potere temporale dei papi. Non appare quindi strano che l’opinione
pubblica liberale della Francia del 1859 appoggiasse la campagna
internazionale di denuncia del ratto del piccolo Edgardo e che
l’Imperatore suggellasse fortemente, con la sua presenza alla prima
della pièce di Séjour, questa scelta politica.
Ma perché il piccolo era stato sottratto alla famiglia? Secondo il
diritto canonico vigente nello Stato Pontificio, un battesimo
clandestino compiuto invitis parentibus, cioè contro la volontà dei
genitori, era dal punto di vista penale un atto illegale, meritevole di
punizione, ma dal punto di vista canonico era tuttavia un sacramento
valido. Di qui la scelta di sottrarre il bambino, considerato
cristiano, all’influenza dei famigliari ebrei e di porlo in un luogo in
cui potesse essere allevato nella religione cristiana, Quest’ultima era
tuttavia solo una scelta della Chiesa, giustificata dalle circostanze,
non una prescrizione del diritto canonico. In molti altri casi, prima
del piccolo Mortara, ai bambini fatti cristiani in tal modo era stato
concesso di restare in famiglia, a patto che fosse osservata la loro
educazione cristiana, una missione difficile ma non impossibile. Tale
non fu la scelta nel caso Mortara. Il piccolo restò a Roma, dove fu
avviato agli studi religiosi, Successivamente, entrò nell’Ordine dei
Canonici Regolari. Dopo la presa di Roma, nel 1870, fu nascosto e
inviato all’estero. Svolse un’intensa attività conversionistica e passò
gli ultimi anni della sua vita in un monastero del suo Ordine, presso
Liegi. Rivide solo molti anni dopo la sua famiglia, con cui intrattenne
rapporti pur restando fermissimo nella religione cattolica e tentando
anzi di convertire i suoi parenti. Morì nel suo convento belga nel
1940, pochi mesi prima della conquista nazista del Belgio. È
interessante notare che per i nazisti era un ebreo. Se fosse vissuto
avrebbe forse condiviso la sorte di Edith Stein, cioè la deportazione
ad Auschwitz.
Intanto, subito dopo la sua sottrazione alla famiglia, il suo caso fece
un grande scalpore. Il mondo liberale tutto si schierò contro la Chiesa
romana, che rapiva bambini in spregio ai diritti naturali della
famiglia. I Mortara si batterono con coraggio, chiedendo l’aiuto degli
ebrei europei e del mondo liberale. Il caso divenne un simbolo del
conflitto tra l’oppressione degli ebrei attuata dalla Chiesa di Roma,
con i suoi ghetti ancora in vigore, e le libertà individuali e civili.
Allo scalpore suscitati dal caso Mortara non è estranea la nascita, nel
1860 a Parigi, dell’Alliance Israélite, un’associazione internazionale
nata per difendere i diritti conculcati degli ebrei. I governi europei
si schierarono a favore della famiglia Mortara e chiesero invano a Pio
IX la liberazione del bambino. Sir Moses Montefiore, il filantropo che
fu per quarant’anni il maggior leader delle comunità ebraiche inglesi,
cercò invano nel 1859 di ottenere udienza a Roma dal Papa per perorare
la causa del piccolo Mortara. Pio IX rifiutava di discutere la
questione e respingeva perfino i memoriali dei canonisti, richiesti
come d’uso di un parere da parte della Comunità ebraica romana, che gli
prospettavano i precedenti giuridici della possibilità di affidare il
bambino alla famiglia d’origine.
Il libro di Elèna Mortara, studiosa di letteratura angloamericana e
docente all’Università di Tor Vergata, apparso in inglese sotto il
titolo Writing for justice. Victor Séjour, the kidnapping of Edgardo Mortara, and the age of transatlantic Emancipations
(Dartmouth College Press, 2015) affronta questa vicenda analizzando in
particolare il percorso letterario e di impegno civile di Séjour
attraverso un’accurata analisi critica, storica e letteraria, delle sue
opere. In realtà, pur partendo dall’analisi di La tireuse de cartes,
cioè volendo porre al centro del suo discorso il caso Mortara e
l’immagine che del caso ebbe la cultura europea del tempo, lo studio
della Mortara offre una visione d’insieme particolarmente interessante
dell’età dell’emancipazione, cioè dell’età, intorno alla metà del
secolo XIX, in cui il problema dell’emancipazione dalle catene della
schiavitù, della subordinazione, del disprezzo si presentò urgente per
gli schiavi neri delle Americhe, per gli ebrei d’Europa, per le donne.
Per tutti loro, il progetto di emancipazione rappresentò un momento
importante di consapevolezza e di rinnovamento, un impegno civile a cui
chiamare intorno a sé a raccolta i liberali di tutta Europa (tranne che
nel caso delle donne, dove la questione si rivelò più difficile, come
la storia dei primi movimenti emancipazionisti ci insegna). Elèna
Mortara coglie in Séjour, mulatto americano di cultura francese e
scrittore di successo, colui che ha saputo esprimere nelle sue opere
l’anelito alla libertà degli ebrei e dei neri insieme, e fors’anche un
poco delle donne, a stare all’interessante analisi che l’autrice fa dei
cambiamenti di genere attuati da Séjour nella pièce, per cui il piccolo
Edgardo cambia sesso e diviene una bambina, mentre anche il ruolo
dominante che nella realtà storica ha avuto il padre di Edgardo nel
battersi per riavere indietro il figlio è assunto in teatro dalla
madre. Ciò nonostante, la scelta finale di Séjour resta insoddisfacente
per Elèna Mortara. Cattolico, sia pur cattolico liberale, Séjour
condanna il ratto del piccolo Mortara ma lascia cattolica, sia pur in
seno alla famiglia d’origine, la protagonista della sua pièce. Forse
per motivi di censura o di autocensura, forse per convinzione, Séjour
non porta fino alle sue logiche conseguenze la sua battaglia e la
condanna del ratto del bambino non diventa ritorno alla religione
conculcata degli ebrei.
Elèna Mortara non parla solo come studiosa. Parla infatti anche di sé e
della sua famiglia, dal momento che Edgardo Mortara era il fratello
della sua bisnonna. Una storia di famiglia quindi, da lei succhiata col
latte materno, che ha lasciato tracce profonde nella sua formazione,
per poi trovare la strada della catarsi non semplicemente in
un’ennesima storia del caso Mortara, ma in uno studio di ampio respiro,
in cui le sue memorie famigliari si saldano al suo percorso di studiosa
e in cui il caso Mortara trova il suo posto in quell’era tormentata e
nonostante tutto ancor felice dell’Europa, prima che la cultura della
razza ne trasformasse l’anima e prima che le guerre e il nazismo ne
devastassero gli spazi fisici e mentali. Una visione insomma di ampio
respiro, che ci offre una prospettiva inusuale e innovativa del caso
Mortara e che ci proietta in un’età in cui si poteva battersi per la
libertà dalla schiavitù ed insieme per l’emancipazione degli ebrei. In
cui la lotta per la libertà riguardava tutti gli oppressi, tutti coloro
che erano ridotti in schiavitù, tutti coloro a cui le leggi negavano i
diritti fondamentali di ogni essere umano.
Anna Foa, storica
Pagine Ebraiche gennaio 2016
Nell'immagine Victor Séjour in una caricatura dell'epoca
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Per Israele
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Chi
ama Israele per quello che è oggi – un Paese democratico, che consente
alle organizzazioni non governative e in favore dei diritti umani di
operare liberamente – non può fare a meno di adoperarsi perché questo
stato di cose non cambi. In questa ottica si colloca la decisione presa
dallo scrittore Amos Oz – da lui stesso definita dolorosa – di non
partecipare a iniziative in suo onore nelle ambasciate israeliane. Una
decisione, come da lui dichiarato esplicitamente, a favore di B’Tselem,
il “Centro di Informazione Israeliano per i Diritti Umani nei Territori
Occupati”, organizzazione fondata nel 1989 da un gruppo di accademici,
avvocati, giornalisti e membri della Knesset che si occupa di
documentare le violazioni dei diritti umani nei territori occupati e
informare il pubblico e i politici israeliani. Il nome (letteralmente
“a immagine di”) deriva dal verso della Genesi (1, 27) sulla creazione
dell’uomo ed è sinonimo di dignità umana. La decisione di Amos Oz deve
essere letta nel contesto della politica israeliana di questi ultimi
giorni: molti, infatti, hanno interpretato il provvedimento approvato
dal governo israeliano sull’obbligo delle ong di dichiarare i propri
finanziatori come un mezzo per delegittimarle e un tentativo di
imbavagliarle, anche perché c’è chi denuncia una mancanza di simmetria
nel provvedimento, che discriminerebbe alcune ong rispetto ad altre
(quelle che sono finanziate dall’estero da privati). Non spetta a me
trattare la questione in modo esauriente, e certo non ho la competenza
per dire quanto questi timori siano fondati, ma vorrei sottolineare che
la decisione di Amos Oz si inserisce in questo contesto. Dunque, non
una decisione contro ma una decisione a favore. Non contro Israele, ma
per Israele come è oggi e come è stato finora, perché non diventi una
cosa diversa. C’è chi ritiene che le preoccupazioni di Oz siano
infondate, ma c’è anche – e forse talvolta tendiamo a dimenticarlo –
chi realmente auspica una cosa diversa, uno Stato non democratico e i
cui cittadini non siano tutti uguali. Posizioni minoritarie? Io credo
di sì, ma spetta a tutti noi che amiamo e sosteniamo Israele come Stato
ebraico e democratico fare in modo che restino tali.
Anna Segre, insegnante
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Trilussa e il gatto
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“Ciavevo
un gatto e lo chiamavo Ajò; / ma, dato ch’era un nome un po’ giudio, /
agnedi da un prefetto amico mio / po’ domannaje se potevo o no: /
volevo sta’ tranquillo, tantoppiù / ch’ero disposto de chiamallo Ajù. /
Bisognerà studià — disse er prefetto — / la vera provenienza de la
madre… / Dico: — La madre è un’àngora, ma er padre / era siamese e
bazzicava er Ghetto; / er gatto mio, però, sarebbe nato / tre mesi
doppo a casa der Curato. / Se veramente ciai ‘ste prove in mano, / me
rispose l’amico — se fa presto. / La posizzione è chiara.:— E detto
questo / firmò una carta e me lo fece ariano. / Però — me disse — pe’
tranquillità, / è forse mejo che lo chiami Ajà.”
Questa poesia di Trilussa (Carlo Alberto Salustri 1871-1950), dal
titolo “L’Affare de la razza”, era tanto cara a mio nonno Z”l forse
anche perché ha come soggetto un gatto – da sempre animale onnipresente
nella nostra famiglia -. Fu scritta nel 1940 e mette in mostra con
ironia l’idiozia delle leggi razziste del 1938 e dell’invenzione della
razza cosiddetta ariana. Come ricorda Mario Avagliano nel libro Di pura
razza ariana (Baldini & Castoldi, 2013) venne pubblicata da alcuni
fogli clandestini degli antifascisti all’estero, tra cui la “Voce
d’Italia” del 1 Giugno 1941. Trilussa più che un antifascista si
definiva un non fascista, eppure anche la satira e l’uso del dialetto
romanesco all’interno di un regime omologante e totalizzante come il
fascismo, possono considerarsi in qualche modo una sorta di resistenza.
Proprio perché queste forme riescono più di altre ad evidenziare il
ridicolo e il grottesco insiti nel potere e nella sua apparente
normalità.
Francesco Moises Bassano, studente
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