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1 Gennaio 2016 - 20 Tevet 5776
PAGINE EBRAICHE 24

ALEF / TAV DAVAR PILPUL

alef/tav

Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino
Il passaggio da “figli di Israele”, un clan tribale, un circolo comunitario, a popolo dei figli di Israele, collettività responsabile, non avviene attraverso una presa di coscienza, un momento di consapevolezza nazionale. Gli ebrei si rendono conto di essere diventati un popolo perché il Faraone in Esodo 1, 9, per la prima volta, li definisce un popolo. Una definizione che è negativa, persecutoria, ma allo stesso tempo vera. Dovremmo aspettare Moshè e l’orizzonte di liberazione per vedere un popolo, il nostro, che prenderà coscienza di sé. Perché un popolo è forte, quando conosce la propria forza e i propri limiti, i propri orizzonti e i propri confini senza avere bisogno di nessuna voce esterna che gli ricordi che lui è ormai divenuto “forte e numeroso”.
 
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Gadi
Luzzatto
Voghera,
storico
Educare le giovani generazioni è un imperativo della tradizione ebraica. Nella liturgia dello Shemà (la preghiera fondamentale che si ripete quotidianamente) che si fa comandamento religioso, la trasmissione ai propri figli diviene elemento fondamentale e ineludibile. Cosa si deve insegnare? Di principio si insegna l’Amore per il “tuo” Dio (la personalizzazione qui è decisiva). Il mezzo per educare a questo amore è complesso: attraverso la ripetizione ai figli (veshinantam leVanecha) (la Mishnah, la ripetizione, diventa elemento costitutivo di questo processo). Attraverso l’atto concreto di ricordo con degli oggetti (i Tefillin e la Mezuzà). Attraverso la Profezia e il suo studio: tutto il secondo brano dello Shemà (tratto da Devarim-Deuteronomio 11, 13-21) è di fatto una Profezia: se seguirai questo amore, Dio benedirà il lavoro dell’uomo; ma se seguirai altri idoli allora “l’ira dell’Eterno si accenderà contro di voi” (di nuovo un rapporto molto diretto, ad personam) e si impedirà alla terra di dare i suoi frutti. E alla fine del terzo brano (Bemidbar-Numeri15, 37-41) l’Eterno ribadisce a Moshè queste indicazioni, aggiungendo un concetto che è evidentemente storico: “Io sono l’Eterno vostro Dio, che vi ho fatti uscire dalla terra d’Egitto per essere per voi Dio.” Vi ho tratti dalla schiavitù, ho fatto di voi uomini liberi per due motivi: perché voi mi amiate e perché Io voglio essere proprio il vostro Dio. Voi avete bisogno di me, e Io ho bisogno di voi.
 
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  davar
aggressione nella CENTRALISSIMA DIZENGOFF
Tel Aviv, il nuovo anno inizia

con l'incubo del terrorismo
Inizia un nuovo anno civile, ma il copione è sempre lo stesso. Il 2016 di Israele si apre infatti con una nuova azione terroristica palestinese, avvenuta attorno a ora di pranzo nel quartiere del commercio e della movida di Tel Aviv. E precisamente la strada Dizengoff, uno dei cuori pulsanti della Città Bianca, dove un terrorista ha aperto il fuoco nei pressi di un locale e a pochi metri dal popolare e affollato Dizengoff Center Mall.
Due al momento le vittime accertate.

(Nell'immagine i primi soccorsi prestati sul luogo)
DOPO IL BOICOTTAGGIO DEGLI ATLETI ISRAELIANI
La Gazzetta con Pagine Ebraiche:

"Inaccettabili i silenzi di Croce"
Fronte sempre più ampio contro il vergognoso silenzio del presidente della International Sailing Federation, il genovese Carlo Croce, davanti al boicottaggio degli atleti israeliani ai mondiali juniores di vela in svolgimento Malesia. A rilanciare l’intervento pubblicato ieri sul nostro notiziario quotidiano è, tra gli altri, la Gazzetta dello Sport. Proprio la Gazzetta ricorda in queste ore come le condizioni imposte dal governo malese fossero “ingiuste” e “immorali”. E come il silenzio di Croce pesi più di tanti altri.
SEGNALIBRO - WRITING FOR JUSTICE
Scrivere per la giustizia
Nel nome di Edgardo
“Le arti e la letteratura, insieme alla stampa, si confermano come grandi strumenti di conoscenza e di dibattito, come già avvenuto all’epoca del caso Mortara a metà dell’800 ed è per questo che il mio nuovo studio, che parte dall’esplorazione di contesti artistico-letterari internazionali legati al caso, potrà gettare nuova luce su queste vicende, facendone comprendere aspetti assai importanti finora poco noti”. Elèna Mortara lo aveva annunciato a Daniela Gross nella grande intervista che Pagine Ebraiche le ha dedicato nell’estate del 2014 e ora Writing for Justice, la grande ricerca cui aveva fatto cenno allora, è finalmente stata pubblicata da Dartmouth College Press, uno dei più prestigiosi editori universitari statunitensi. Emerge la figura di uno scrittore e polemista d’eccezione come Victor Séjour (1817-1874), ma attraverso il suo impegno artistico e civile attorno al dramma di Edgardo Mortara, il bambino ebreo di sei anni rapito dalle guardie pontificie e quindi recluso in Vaticano, appaiono a cavallo fra le due sponde dell’Atlantico Hugo, Hatwhorne, Twain, Napoleone III, Lincoln e Garibaldi (nell’illustrazione di George Housman Thomas riprodotta nella pagina a fianco e apparsa sull’Illustrated London News nel 1849 lo si vede con il suo mitico aiutante in campo, il moro Andres Aguiar e con Nino Bixio). Emergono le grandi tensioni ideali e le lacerazioni che portarono al Risorgimento e all’unificazione nazionale italiana. Fu proprio Séjour (nell’immagine in questa pagina ritratto da un caricaturista dell’epoca), creolo di New Orleans espatriato a Parigi, a condurre una dura battaglia nel nome del bambino rapito e a denunciare di fronte all’opinione pubblica internazionale la mostruosità dello Stato della Chiesa. Il nuovo libro contribuisce a ravvivare l’interesse per il caso Mortara in attesa che il regista Steven Spielberg cominci la lavorazione della coproduzione coproduzione DreamWorks-Weinstein dedicata alla drammatica vicenda del bambino strappato alla famiglia e convertito al cattolicesimo. Il lavoro, come già annunciato da Pagine Ebraiche, sarà basato sulla sceneggiatura di Tony Kushner, già autore di Lincoln e Munich.

Nelle immagini una illustrazione di George Housman Thomas con protagonista Giuseppe Garibaldi con il suo mitico aiutante in campo, il moro Andres Aguiar e con Nino Bixio; la copertina di Writing for Justice ed Elèna Mortara.
SEGNALIBRO - WRITING FOR JUSTICE
Il doppio segno del caso Mortara
Un libro, questo di Elèna Mortara, che si può leggere su due livelli: è una monografia su Victor Séjour, scrittore e drammaturgo vissuto nel cuore dell’età delle emancipazioni, ma è anche una riflessione, fortemente motivata da ovvie considerazioni autobiografiche, sul caso-Mortara, qui esplorato – una volta tanto – non come episodio giuridico, ma come fonte di rappresentazione narrativa: prima che la scandalosa ingiustizia nella storia della libertà religiosa, la vicenda è restituita al mondo della fantasia creativa.
L’autrice ha preferito frapporre tra sé (la storia della sua famiglia) e la materia trattata un doppio filtro: quello della studiosa di letteratura americana e quello della intellettuale sensibile ai problemi dell’eguaglianza e della libertà.
Non poteva trovare figura-simbolo più rappresentativo. L’autore preso in esame si presenta come un modello ideale di quel binomio “esodo e rivoluzione” immortalato anni fa in un famoso saggio di Michel Walzer: non c’è in gioco, nella biografia di Victor Sèjour, soltanto l’emancipazione ebraica degli ebrei d’Europa, vista da oltreoceano, ma si affrontano nelle sue opere tutte le emancipazioni dell’epoca: delle donne, degli uomini creoli cone Séjour, scrittore nato in Louisiana, cresciuto in una famiglia francofona, poi emigrato e maturato nella Parigi del secondo Ottocento. “Trasgressore” per antonomasia, il Séjour, a suo agio solo quando era chiamato a “passare oltre i confini”. Crossing border, dice la Mortara con formula icastica.
Il caso-Mortara viene così sollevato di peso e tolto dall’alveo un po’ ristretto e puramente recriminatorio della letteratura giuridica e della storia dell’antigiudaismo ottocentesco. Il libro della Mortara si apprezza infine per la varietà dei registri stilistici, per l’agilità con la quale induce il lettore ad esaminare fonti diverse: testi narrativi, opere teatrali, stampe e incisioni d’epoca, soprattutto raffigurazioni satiriche e caricaturali, secondo il gusto francese fin de siècle. Il libro si apprezza dunque come un caso-studio, analizzato nelle sue diverse forme, anche figurative, e tanto più si ammira quanto più si riflette sul suo assunto di fondo: l’apologia della multiculturalità, la natura contagiosa del libero pensiero che agevolmente nell’Ottocento induceva gli scrittori a farsi paladini di tutte le forme di liberazione.
Un esercizio ginnico terminato nel Novecento nei rigori dei sistemi totalitari, che hanno anchilosato gli scrittori e i pittori portandoli a farsi tutti difensori della propria parte, esclusivisti e non inclusivi, privi cioè di quella solidarietà degli esclusi e degli oppressi che era la parte migliore della cultura occidentale andata mostruosamente a naufragare lungo gli scogli della Grande Guerra.

Alberto Cavaglion, storico


Pagine Ebraiche gennaio 2016

Nell’immagine il quadro "Il rapimento di Edgardo Mortara", realizzato da Moritz Oppenheim (Hanau 1800, Francoforte 1882)
SEGNALIBRO - WRITING FOR JUSTICE
La battaglia di Victor Séjour
Il 22 dicembre 1859, a Parigi, la prima rappresentazione della pièce teatrale dello scrittore Victor Séjour, La tireuse de cartes, suscitò viva curiosità e una vasta affluenza di pubblico. Alla prima assistettero anche l’Imperatore Napoleone III con l’imperatrice Eugenia, mentre girava la voce che a scrivere la pièce avesse dato mano anche il capogabinetto dell’Imperatore, Jean-François Constant Mocquard. Victor Séjour era uno scrittore teatrale assai noto nella Francia dell’epoca. Mulatto, nato ad Orléans da genitori liberi e forniti di mezzi, si era trasferito a Parigi giovanissimo e lì aveva intrapreso la sua carriera letteraria. Un suo racconto intitolato Il mulatto, un duro atto d’accusa contro la schiavitù, aveva avuto grande successo a Parigi nel 1837 ed era stata la prima opera composta da uno scrittore “di sangue misto” sulla questione della schiavitù. Nella Parigi di quegli anni, il colore della pelle non rappresentava un problema, basti pensare al successo di un altro scrittore di sangue misto come Alexandre Dumas e al dibattito vivace sulla questione della schiavitù in America, che aveva cominciato a divenire urgente alla metà degli anni Cinquanta e che proprio nel 1861 avrebbe dato vita alla terribile guerra di secessione. La pièce rappresentata in quell’occasione non prendeva però spunto come la precedente dalla questione della schiavitù, ma da una vicenda recente, accaduta in Italia, nella Bologna del 1858, il rapimento “legale” del bambino ebreo Edgardo Mortara da parte dell’Inquisizione romana in seguito al suo presunto battesimo. Séjour si schierava ancora una volta, come già precedentemente, sul fronte del teatro “impegnato”, prendendo questa volta l’iniziativa di una battaglia non in favore della libertà degli schiavi ma di quella dei diritti degli ebrei oppressi dalla politica del papato. L’opera di Séjour fu la prima opera letteraria a porre al suo centro la questione del piccolo Edgardo Mortara, un caso che suscitò in quegli anni l’attenzione dell’intera Europa ed ebbe non poca parte nello schierare contro la Chiesa l’opinione pubblica illuminata europea, facilitando la caduta del potere temporale dei papi. Tradotta in molte lingue, fu rappresentata anche in Italia e nella stessa Roma, ancora sotto il dominio della Chiesa, al teatro Quirino, dove dette occasione a manifestazioni di protesta antipapali tanto da essere sospesa.
Figlio di una famiglia ebraica bolognese di estrazione borghese, Edgardo Mortara fu sottratto ai suoi cari a sei anni dalle guardie pontificie, dopo che una domestica della casa, già licenziata, aveva denunciato all’Inquisitore Feletti di aver battezzato di nascosto il piccolo quando questi aveva due anni credendolo in pericolo di vita. Nonostante le vivaci proteste della famiglia, il bambino fu portato a Roma alla Casa dei Catecumeni. Di lui si interessò personalmente il papa Pio IX, che lo considerò come una sorta di figlio spirituale. La città di Bologna faceva ancora parte, nel 1858, dello Stato pontificio. Sarebbe entrata a far parte dello Stato italiano solo nel 1860, con la seconda guerra d’Indipendenza e il plebiscito che univa l’Emilia-Romagna al Regno di Sardegna, divenuto nel 1861 Regno d’Italia. In quegli anni, dunque, la Francia napoleonica e i Savoia erano alleati nell’opera di unificazione dello Stato italiano, anche se poi sarebbe stato proprio Napoleone III a trasformarsi in garante dell’esistenza dello Stato Pontificio e ad impedire fino al 1870, quando fu deposto in seguito alla guerra franco-prussiana, la caduta del potere temporale dei papi. Non appare quindi strano che l’opinione pubblica liberale della Francia del 1859 appoggiasse la campagna internazionale di denuncia del ratto del piccolo Edgardo e che l’Imperatore suggellasse fortemente, con la sua presenza alla prima della pièce di Séjour, questa scelta politica.
Ma perché il piccolo era stato sottratto alla famiglia? Secondo il diritto canonico vigente nello Stato Pontificio, un battesimo clandestino compiuto invitis parentibus, cioè contro la volontà dei genitori, era dal punto di vista penale un atto illegale, meritevole di punizione, ma dal punto di vista canonico era tuttavia un sacramento valido. Di qui la scelta di sottrarre il bambino, considerato cristiano, all’influenza dei famigliari ebrei e di porlo in un luogo in cui potesse essere allevato nella religione cristiana, Quest’ultima era tuttavia solo una scelta della Chiesa, giustificata dalle circostanze, non una prescrizione del diritto canonico. In molti altri casi, prima del piccolo Mortara, ai bambini fatti cristiani in tal modo era stato concesso di restare in famiglia, a patto che fosse osservata la loro educazione cristiana, una missione difficile ma non impossibile. Tale non fu la scelta nel caso Mortara. Il piccolo restò a Roma, dove fu avviato agli studi religiosi, Successivamente, entrò nell’Ordine dei Canonici Regolari. Dopo la presa di Roma, nel 1870, fu nascosto e inviato all’estero. Svolse un’intensa attività conversionistica e passò gli ultimi anni della sua vita in un monastero del suo Ordine, presso Liegi. Rivide solo molti anni dopo la sua famiglia, con cui intrattenne rapporti pur restando fermissimo nella religione cattolica e tentando anzi di convertire i suoi parenti. Morì nel suo convento belga nel 1940, pochi mesi prima della conquista nazista del Belgio. È interessante notare che per i nazisti era un ebreo. Se fosse vissuto avrebbe forse condiviso la sorte di Edith Stein, cioè la deportazione ad Auschwitz.
Intanto, subito dopo la sua sottrazione alla famiglia, il suo caso fece un grande scalpore. Il mondo liberale tutto si schierò contro la Chiesa romana, che rapiva bambini in spregio ai diritti naturali della famiglia. I Mortara si batterono con coraggio, chiedendo l’aiuto degli ebrei europei e del mondo liberale. Il caso divenne un simbolo del conflitto tra l’oppressione degli ebrei attuata dalla Chiesa di Roma, con i suoi ghetti ancora in vigore, e le libertà individuali e civili. Allo scalpore suscitati dal caso Mortara non è estranea la nascita, nel 1860 a Parigi, dell’Alliance Israélite, un’associazione internazionale nata per difendere i diritti conculcati degli ebrei. I governi europei si schierarono a favore della famiglia Mortara e chiesero invano a Pio IX la liberazione del bambino. Sir Moses Montefiore, il filantropo che fu per quarant’anni il maggior leader delle comunità ebraiche inglesi, cercò invano nel 1859 di ottenere udienza a Roma dal Papa per perorare la causa del piccolo Mortara. Pio IX rifiutava di discutere la questione e respingeva perfino i memoriali dei canonisti, richiesti come d’uso di un parere da parte della Comunità ebraica romana, che gli prospettavano i precedenti giuridici della possibilità di affidare il bambino alla famiglia d’origine.
Il libro di Elèna Mortara, studiosa di letteratura angloamericana e docente all’Università di Tor Vergata, apparso in inglese sotto il titolo Writing for justice. Victor Séjour, the kidnapping of Edgardo Mortara, and the age of transatlantic Emancipations (Dartmouth College Press, 2015) affronta questa vicenda analizzando in particolare il percorso letterario e di impegno civile di Séjour attraverso un’accurata analisi critica, storica e letteraria, delle sue opere. In realtà, pur partendo dall’analisi di La tireuse de cartes, cioè volendo porre al centro del suo discorso il caso Mortara e l’immagine che del caso ebbe la cultura europea del tempo, lo studio della Mortara offre una visione d’insieme particolarmente interessante dell’età dell’emancipazione, cioè dell’età, intorno alla metà del secolo XIX, in cui il problema dell’emancipazione dalle catene della schiavitù, della subordinazione, del disprezzo si presentò urgente per gli schiavi neri delle Americhe, per gli ebrei d’Europa, per le donne. Per tutti loro, il progetto di emancipazione rappresentò un momento importante di consapevolezza e di rinnovamento, un impegno civile a cui chiamare intorno a sé a raccolta i liberali di tutta Europa (tranne che nel caso delle donne, dove la questione si rivelò più difficile, come la storia dei primi movimenti emancipazionisti ci insegna). Elèna Mortara coglie in Séjour, mulatto americano di cultura francese e scrittore di successo, colui che ha saputo esprimere nelle sue opere l’anelito alla libertà degli ebrei e dei neri insieme, e fors’anche un poco delle donne, a stare all’interessante analisi che l’autrice fa dei cambiamenti di genere attuati da Séjour nella pièce, per cui il piccolo Edgardo cambia sesso e diviene una bambina, mentre anche il ruolo dominante che nella realtà storica ha avuto il padre di Edgardo nel battersi per riavere indietro il figlio è assunto in teatro dalla madre. Ciò nonostante, la scelta finale di Séjour resta insoddisfacente per Elèna Mortara. Cattolico, sia pur cattolico liberale, Séjour condanna il ratto del piccolo Mortara ma lascia cattolica, sia pur in seno alla famiglia d’origine, la protagonista della sua pièce. Forse per motivi di censura o di autocensura, forse per convinzione, Séjour non porta fino alle sue logiche conseguenze la sua battaglia e la condanna del ratto del bambino non diventa ritorno alla religione conculcata degli ebrei.
Elèna Mortara non parla solo come studiosa. Parla infatti anche di sé e della sua famiglia, dal momento che Edgardo Mortara era il fratello della sua bisnonna. Una storia di famiglia quindi, da lei succhiata col latte materno, che ha lasciato tracce profonde nella sua formazione, per poi trovare la strada della catarsi non semplicemente in un’ennesima storia del caso Mortara, ma in uno studio di ampio respiro, in cui le sue memorie famigliari si saldano al suo percorso di studiosa e in cui il caso Mortara trova il suo posto in quell’era tormentata e nonostante tutto ancor felice dell’Europa, prima che la cultura della razza ne trasformasse l’anima e prima che le guerre e il nazismo ne devastassero gli spazi fisici e mentali. Una visione insomma di ampio respiro, che ci offre una prospettiva inusuale e innovativa del caso Mortara e che ci proietta in un’età in cui si poteva battersi per la libertà dalla schiavitù ed insieme per l’emancipazione degli ebrei. In cui la lotta per la libertà riguardava tutti gli oppressi, tutti coloro che erano ridotti in schiavitù, tutti coloro a cui le leggi negavano i diritti fondamentali di ogni essere umano.

Anna Foa, storica


Pagine Ebraiche gennaio 2016

Nell'immagine Victor Séjour in una caricatura dell'epoca
pilpul
Per Israele
Chi ama Israele per quello che è oggi – un Paese democratico, che consente alle organizzazioni non governative e in favore dei diritti umani di operare liberamente – non può fare a meno di adoperarsi perché questo stato di cose non cambi. In questa ottica si colloca la decisione presa dallo scrittore Amos Oz – da lui stesso definita dolorosa – di non partecipare a iniziative in suo onore nelle ambasciate israeliane. Una decisione, come da lui dichiarato esplicitamente, a favore di B’Tselem, il “Centro di Informazione Israeliano per i Diritti Umani nei Territori Occupati”, organizzazione fondata nel 1989 da un gruppo di accademici, avvocati, giornalisti e membri della Knesset che si occupa di documentare le violazioni dei diritti umani nei territori occupati e informare il pubblico e i politici israeliani. Il nome (letteralmente “a immagine di”) deriva dal verso della Genesi (1, 27) sulla creazione dell’uomo ed è sinonimo di dignità umana. La decisione di Amos Oz deve essere letta nel contesto della politica israeliana di questi ultimi giorni: molti, infatti, hanno interpretato il provvedimento approvato dal governo israeliano sull’obbligo delle ong di dichiarare i propri finanziatori come un mezzo per delegittimarle e un tentativo di imbavagliarle, anche perché c’è chi denuncia una mancanza di simmetria nel provvedimento, che discriminerebbe alcune ong rispetto ad altre (quelle che sono finanziate dall’estero da privati). Non spetta a me trattare la questione in modo esauriente, e certo non ho la competenza per dire quanto questi timori siano fondati, ma vorrei sottolineare che la decisione di Amos Oz si inserisce in questo contesto. Dunque, non una decisione contro ma una decisione a favore. Non contro Israele, ma per Israele come è oggi e come è stato finora, perché non diventi una cosa diversa. C’è chi ritiene che le preoccupazioni di Oz siano infondate, ma c’è anche – e forse talvolta tendiamo a dimenticarlo – chi realmente auspica una cosa diversa, uno Stato non democratico e i cui cittadini non siano tutti uguali. Posizioni minoritarie? Io credo di sì, ma spetta a tutti noi che amiamo e sosteniamo Israele come Stato ebraico e democratico fare in modo che restino tali. 

Anna Segre, insegnante
Trilussa e il gatto
“Ciavevo un gatto e lo chiamavo Ajò; / ma, dato ch’era un nome un po’ giudio, / agnedi da un prefetto amico mio / po’ domannaje se potevo o no: / volevo sta’ tranquillo, tantoppiù / ch’ero disposto de chiamallo Ajù. / Bisognerà studià — disse er prefetto — / la vera provenienza de la madre… / Dico: — La madre è un’àngora, ma er padre / era siamese e bazzicava er Ghetto; / er gatto mio, però, sarebbe nato / tre mesi doppo a casa der Curato. / Se veramente ciai ‘ste prove in mano, / me rispose l’amico — se fa presto. / La posizzione è chiara.:— E detto questo / firmò una carta e me lo fece ariano. / Però — me disse — pe’ tranquillità, / è forse mejo che lo chiami Ajà.”
Questa poesia di Trilussa (Carlo Alberto Salustri 1871-1950), dal titolo “L’Affare de la razza”, era tanto cara a mio nonno Z”l forse anche perché ha come soggetto un gatto – da sempre animale onnipresente nella nostra famiglia -. Fu scritta nel 1940 e mette in mostra con ironia l’idiozia delle leggi razziste del 1938 e dell’invenzione della razza cosiddetta ariana. Come ricorda Mario Avagliano nel libro Di pura razza ariana (Baldini & Castoldi, 2013) venne pubblicata da alcuni fogli clandestini degli antifascisti all’estero, tra cui la “Voce d’Italia” del 1 Giugno 1941. Trilussa più che un antifascista si definiva un non fascista, eppure anche la satira e l’uso del dialetto romanesco all’interno di un regime omologante e totalizzante come il fascismo, possono considerarsi in qualche modo una sorta di resistenza. Proprio perché queste forme riescono più di altre ad evidenziare il ridicolo e il grottesco insiti nel potere e nella sua apparente normalità.


Francesco Moises Bassano, studente 


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