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Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino
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I
brani biblici del libro dell’Esodo che trattano dell’intervento di Dio
in Egitto attraverso l’uso delle piaghe mostrano scelte di azione
diverse: dal Nilo che diventa sangue, alla piaga delle rane, della
grandine, delle pesti, del buio… interventi naturali, sovrannaturali,
distinti e diversificati. Immutabile e duro il cuore del faraone,
uguale a se stesso, né distinto, né diversificato, nutrito da costante
ignobile albagia. Dio sceglie la strada dell’intervento in nome del
bene attraverso elementi che mutano, sono capaci di adattamento e di
elevazione della natura a livelli diversi. Il male non muta mai.
Granitico e fermo, si mescola nella natura, nello stato ‘buono’
dell’esistenza, ma si riconosce perché è fedele alla propria natura
crudele. Il chassidismo ci insegna che per separare male e bene così
mischiati nell’esistenza bisogna operare intervenendo nel mondo con un
tikkun, una correzione, un agire morale al di là della pratica, un
intervento etico che sublimi il male e lo elevi e lo renda inutile.
Perché il male non va sconfitto, va reso inutile nel suo esistere. Ed
il male, seppur nascosto dietro il bene si riconoscerà sempre: è quell’
elemento distruttivo che non ha altro scopo in essere se non la propria
inalienabile e faraonica conservazione nei secoli.
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Gadi
Luzzatto
Voghera,
storico
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Cosa
sarebbe stata l’Europa senza gli ebrei? E come sarebbe stato il
Medioriente senza le sue comunità cristiane ed ebraiche? Come si
sarebbero mai potute rappresentare la Spagna o la Sicilia senza i
Musulmani? Lo spazio del Vecchio Mondo – di questo stiamo parlando – è
attraversato da una plurimillenaria presenza storica che ha determinato
nel profondo il crescere e il trasformarsi delle culture religiose,
sociali e culturali. Molti oggi, di fronte all’emergere di tensioni e
di violenze intimamente connesse al conflitto in atto, tendono a
pensare a queste considerazioni come a un inutile afflato di buonismo e
di ‘correttezza politica’, a cui andrebbe contrapposta una rigida
reazione di orgoglio militante in difesa dei cosiddetti principi e
valori occidentali. Ma sappiamo tutti che la realtà non è questa, e che
questi famosi valori sono il frutto di una lunga e conflittuale
maturazione storica di cui non si può non tenere conto. È noto, ad
esempio, che molti dei testi della filosofia greca non ci sarebbero mai
giunti se non tramite le traduzioni che ne fecero i pensatori arabi
dopo il VII secolo. Forme artistiche, moduli letterari, sistemi
speculativi viaggiarono di qua e di là attraversando il Mediterraneo,
in viaggi di andata e ritorno a volte non pacifici, ma che di certo
hanno contribuito a fare del nostro panorama umano una comunità dai
valori misti e condivisi.
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Quei gesti che parlano
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“Anche
i gesti parlano”. L’Osservatore Romano titola così un ampio articolo in
cui si riportano stralci di alcuni interventi pubblicati sulla carta
stampata in prossimità della visita di Bergoglio alla sinagoga di Roma.
Ad aprire l’articolo i contenuti più significativi dell’intervista al
presidente dei rabbini italiani Giuseppe Momigliano sull’ultimo Pagine
Ebraiche. Tra gli altri si segnalano anche i colloqui del rabbino capo
Riccardo Di Segni con Famiglia Cristiana e Avvenire e l’intervista al
direttore di Tv2000 Lucio Brunelli, pubblicata anch’essa su Pagine
Ebraiche di gennaio.
“Una kippah contro la resa dell’Occidente”. La campagna di
sensibilizzazione sul tema dell’antisemitismo lanciata dal quotidiano
Il Foglio è oggi raccontata anche dal Corriere, che mette in evidenza
come la stessa sia stata rilanciata ieri sul nostro notiziario
quotidiano UCEI del pomeriggio Pagine Ebraiche 24. Tra le reazioni
riportate anche quella della presidente della Comunità ebraica romana
Ruth Dureghello e del parlamentare Emanuele Fiano.
“Quanto sta accadendo oggi fra l’Iran e i Paesi sunniti è il frutto di
una serie di pericolosi eventi a cascata. Eventi che, molto
chiaramente, dimostrano come la visione occidentale di un Iran ‘fonte
di stabilizzazione’ e ‘parte della soluzione’ delle attuali crisi
locali sia, agli occhi degli attori regionali, non solo non credibile,
ma possa addirittura portare a una escalation”. Così l’ambasciatore
israeliano a Roma Naor Gilon in una lettera alla Stampa.
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BERGOGLIO IN SINAGOGA Il segno di un nuovo incontro Amicizia e rispetto reciproco Un
intenso appello al mondo cattolico perché consideri la centralità delle
metodologie interpretative del rabbinato ortodosso e l’irrevocabilità
del legame assoluto, incrollabile con lo Stato ebraico per gli ebrei di
tutto il mondo, un nesso che non può essere indebolito o reciso in
alcun modo. Il commosso ricordo di quelle ore di vigilia di trent’anni
fa accanto al rabbino capo Elio Toaff e le calde parole raccolte nel
corso dell’intervista in cui il Rav insegnò che in tempi di pace per
resistere a un’ipotetica minaccia di assimilazione gli ebrei devono
cercare ancoraggio nella loro solidità identitaria, prima ancora che
rassicurazioni all’esterno.
La storia delle due vignette del giornale dell’ebraismo italiano Pagine
Ebraiche che fecero nel 2011 il giro del mondo in occasione della
seconda visita alla sinagoga di Roma di papa Ratzinger.
L’attesa e il significato di questa terza visita e del momento in cui il rav Riccardo Di Segni accoglierà papa Bergoglio.
La testimonianza di un giornalista che ha visto un trentennio di storia
nel suo divenire, ma anche le emozioni di un ebreo italiano che non ha
certo la pretesa di improvvisarsi teologo, ma osserva attentamente cosa
si muove sul fronte del dialogo.
L’Osservatore romano datato 16 gennaio e in edicola questo pomeriggio
pubblica, alla vigilia dell’attesa terza visita di un papa alla
sinagoga della Capitale, l’analisi del direttore della redazione
giornalistica dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Guido
Vitale. Nello stesso numero, l’autorevole quotidiano della Santa sede
riprende anche l’intervento del suo direttore Giovanni Maria Vian che era stato anticipato sul numero di gennaio del giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche.
Un gesto intercorso fra giornali tanto diversi che testimonia della
reciproca volontà di conoscersi e di comprendersi senza mai rinunciare
alla chiara, ferma declinazione della propria radice identitaria. E un
segno di speranza in accordo, nero su bianco, con i gesti d’amicizia
che le grandi guide delle due fedi sempre più spesso vanno scambiandosi.
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BERGOGLIO IN SINAGOGA Ci attendono i frutti più dolci La
terza visita di un Pontefice alla sinagoga di Roma rappresenta certo
qualcosa di molto diverso e di assai più significativo del caloroso
rinnovo di una bella consuetudine. Molti segnali lasciano intendere che
il ripetersi di questo evento non comporti il rischio di sbiadire nella
ripetizione formale, ma al contrario segni il tempo di un lungo e
difficile percorso che continua a compiersi sulla strada del dialogo.
Le tre diverse personalità dei Papi accolti nel più rappresentativo
tempio ebraico italiano, aggiunge certo un carattere distintivo a
ognuno di questi incontri. Ma quello che ora emerge con chiarezza,
proprio nell’occasione di questa terza visita, è come i diversi
incontri si rivelino utili a scandire il tempo del dialogo e a segnarne
il divenire.
L’unità
di misura costituita dall’elaborazione dei documenti teologici finisce
così per trovare un raccordo con i punti fermi segnati da questi gesti
di fraterna amicizia.
Molti hanno già constatato la significativa crescita nelle relazioni
ebraico-cristiane che ci separa dalla svolta fondamentale della
dichiarazione Nostra aetate. Ma è ora possibile contare anche i passi
intercorsi dalla stagione della prima visita
Non è necessaria una specifica competenza teologica, per vedere che
questa segna il ritmo della nostra amicizia, ma in un certo modo anche
quello della nostra vita.
Nell’aprile
del 1986, quando si preparava il primo incontro, il rabbino capo di
Roma Elio Toaff mi annunciava in un’intervista “Una rivoluzione
radicale, una rinuncia alla tentazione di emarginare il popolo ebraico,
un gesto che farà nascere rapporti nuovi fra due fedi che hanno le
stesse, comuni radici storiche. Nasce un nuovo rapporto, su un piede di
parità e di collaborazione. E se alcuni ebrei – concludeva allora –
possono temere forse il pericolo di una certa attività missionaria da
parte della Chiesa, diciamo si tratta di un rischio che, se mai
esistesse, crediamo di essere in grado di poter scongiurare”. Le sue
calde parole insegnavano che non può esserci dialogo senza assumersi
rischi e responsabilità, senza vincere le incertezze, senza una solida
consapevolezza della propria identità che deve tenerci al riparo da
pericolose confusioni.
Nell’occasione
della visita di papa Ratzinger avevo chiesto al vignettista del
giornale dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche di elaborare due
disegni da pubblicare uno alla vigilia e uno alla conclusione della sua
venuta. Due viaggi per attraversare il Tevere e raggiungere la sponda
opposta, quella che si trova di fronte chi guarda Roma dalle mura del
Vaticano e chi guarda la stessa città dal punto di osservazione del
quartiere ebraico. Le vignette, cariche di simbologie, rappresentavano
in modi diversi un viaggio avventuroso, un passaggio difficile. Furono
riprese dalla stampa nazionale e internazionale e i colleghi in
redazione ricordano ancora divertiti come vi furono troupe televisive
che chiesero il nostro consiglio per riprendere il Tevere dalla
medesima precisa prospettiva, un certo cantuccio dell’isola Tiberina,
che offriva la stessa visuale della vignetta.
Quei
disegni costituiscono, assieme alle parole di incoraggiamento del
rabbino Toaff, un caro ricordo, eppure, riguardandoli a distanza di
appena cinque anni, appaiono già lontani nel tempo, perché la
contagiosità dell’amicizia non ha fatto altro che restringere il fiume
e avvicinarne progressivamente le sponde, rendendo raggiungibili,
grazie ai tanti meriti dei suoi protagonisti, mondi diversi senza
inciampare nelle sovrapposizioni.
Meglio allora pensare che le emozioni professionali che accompagnarono
le visite precedenti restino vive, ma non replicabili, e che ad esse si
possa aggiungere questo alto onore di rivolgersi al lettore
dell’Osservatore romano dopo essere stati onorati di ospitare sulle
pagine dell’ebraismo italiano il pensiero del direttore dell’autorevole
testata vaticana. I grandi miracoli saranno ancora da compiersi, ma
anche questo piccolo gesto, che segna la volontà di comprendersi e che
un tempo sarebbe stato impensabile, è un bel segno di conforto nei
nostri tempi difficili e incerti.
Ma la terza visita, l’avvenimento della presente stagione, oltre a
farci misurare il progresso conquistato, ci offre anche l’occasione di
guardare avanti. Se la persecuzione, l’emarginazione, la dottrina del
disprezzo, la teorizzazione della conversione di massa, sembrano ormai
relegati un passato complesso e doloroso, cosa possiamo chiedere
parlando al tempo futuro? Cosa possono in particolare offrire gli ebrei
di oggi rivolgendosi al mondo cattolico e cosa possono sperare dai
propri interlocutori?
Sgombrato il campo dai detriti della diffidenza e del sospetto, sarebbe
forse azzardato sostenere che la strada del dialogo appare ora tutta in
discesa, ma certamente siamo autorizzati a sperare che della nostra
amicizia ci attendano i frutti più dolci. Conquistata la stagione
dell’accettazione, possiamo aprirci alla gioia della autentica
conoscenza reciproca. E credo che il mondo ebraico nella sua estrema
complessità e diversificazione interna faccia bene a chiedere ora di
essere non solo accettato, ma anche compreso per quello che
effettivamente è.
Il dialogo, come è stato giustamente rilevato da più parti, si è svolto
necessariamente fra realtà asimmetriche. E non solo per la ridotta
dimensione numerica della popolazione ebraica nel mondo. La maggiore
differenza fra gli interlocutori è che il mondo ebraico ha la vocazione
di rappresentare una possibilità alternativa di leggere la vita e il
mondo. Non un’idea contrapposta, quanto piuttosto un linguaggio, una
metodologia del pensiero, un punto di osservazione del tutto differente.
Si direbbe in effetti che il mondo ebraico non possa offrire
all’interlocutore un messaggio univoco, un corrispondente unico, una
gerarchia facilmente identificabile. Ma al contrario, nella dialettica
interna fra gli elementi indispensabili di Israele e della Diaspora,
fra i diversi modi di intendere la Legge e la libera scelta
individuale, nelle tante modulazioni identitarie che non possono essere
tutte facilmente ricomprese nel quadro istituzionale, nell’ancestrale
metodologia della discussione e della conoscenza, in questa
complicazione si rinnova la sfida di ascoltare molte voci per
ricomporle in una visione infine coerente. Ascoltare la complessità che
il mondo ebraico esprime può essere contemporaneamente faticoso ed
entusiasmante, ma soprattutto comporta la responsabilità di evitare
infine fraintendimenti e confusioni. E i cardini della lunga esperienza
dell’ebraismo italiano possono rappresentare una bussola preziosa.
Due millenni di storia hanno insegnato che è giusto accogliere tutti e
ascoltare tutti, ma senza mai dimenticare che le metodologie
interpretative della Legge elaborate dal rabbinato ortodosso restano
insostituibili. E hanno insegnato che il legame assoluto, incrollabile
con la realtà di Israele non può essere indebolito o reciso in alcun
modo.
Accettare questa differente maniera di essere, perseguire l’amicizia
sincera e l’autentico desiderio di conoscere l’altro senza
prevaricarlo, e continuare a crescere insieme percorrendo lo stesso
cammino senza cedere alla tentazione della sostituzione e della
conversione, da una parte, e dell’affrettata elaborazione dettata
dall’ansia di farsi meglio intendere, dall’altra. Sono questi in
definitiva i nuovi orizzonti da conquistare, senza mai cedere il passo
alla stanca ripetizione, senza mai piegarsi al vuoto gesto formale, per
far sì che le innumerevoli visite e i tanti incontri che ancora ci
attendono continuino a rinnovarsi e a palpitare di autentica,
incessante emozione.
Guido Vitale, L'Osservatore Romano (15 gennaio 2016)
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BERGOGLIO IN SINAGOGA
Ratzinger, un gesto di coerenza che non deve essere dimenticato
Tra due giorni Bergoglio visiterà il Tempio Maggiore di Roma.
C’è chi sostiene che Bergoglio voglia diventare un vero e proprio
"amico" degli ebrei. Io non condivido questa opinione e penso che
questo papa sia in bilico fra tendenze opposte in seno alla Chiesa.
Il vero obiettivo sono infatti gli ortodossi, che ha incontrato per tre
volte a Gerusalemme e che rappresentano la sfida più significativa per
l'unificazione dei cristiani. Una meta comunque difficile e complessa.
Secondo il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, “l’appartenenza
religiosa non deve essere motivo di ostilità e conflitto, ma un valore
positivo sul quale collaborare”. All’obiezione che la politica vaticana
nei confronti dello Stato di Israele resta uno scoglio per il dialogo,
il rabbino capo ha detto che “certe scelte vaticane sollevano
discussioni e perplessità nel pubblico ebraico".
Indubbiamente negli ultimi anni si può registrare un miglioramento
netto delle relazioni fra Stato di Israele e Vaticano. Le relazioni
sono generalmente discrete, sebbene la politica vaticana non si
preoccupi della equidistanza. Recentemente ne ha dato prova nei
confronti di Abu Mazen, trattato con i guanti bianchi, senza nessuna
contropartita per Israele.
Si è molto parlato in questi ultimi tempi dei 50 anni di “Nostra
Aetate”. Una modesta riflessione avrebbe portato alla conclusione che
questo è l’unico passo significativo compiuto in 2000 anni dalla Chiesa
per una piccola apertura verso gli ebrei.
Anche se siamo alla vigilia della visita di Bergoglio, non posso fare a
meno di ricordare con affetto il suo predecessore, Ratzinger. Nella sua
Trilogia su Gesù, egli scrisse: “Matteo sicuramente non esprime un
fatto storico: come avrebbe potuto essere presente in tale momento
tutto il popolo e chiedere la morte di Gesù? ”. La “realtà storica”, ha
scritto, è quella dei Vangeli di Marco e Giovanni; a chiedere la morte
di Gesù non fu “tutto il popolo”, come dice Matteo, ma i seguaci di
Barabba designati dal termine greco ochlos (la “folla” dei sostenitori
accorsi) e l’aristocrazia del tempio, senza nessun “carattere
razzista”. E del resto israeliti erano lo stesso Gesù, tutti i suoi
discepoli e la "intera comunità primitiva".
Sergio Minerbi
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PRESIDENZIALI USA - l'outsider prende quota Sanders, consensi in crescita Nelle
sfiancante corsa alla Casa Bianca per ereditare la poltrona dello
Studio Ovale da Barack Obama, c’è qualcosa di più sorprendente delle
sparate del magnate Donald Trump e della presa che la sua capigliatura,
dalla dubbia autenticità, ha sul popolo americano; ed è l’avanzata di
Bernie Sanders.
Candidato
indipendente affiliato al partito democratico, il 74enne Sanders, ebreo
di Brooklyn, attuale senatore del Vermont, sta inaspettatamente salendo
nei sondaggi e conquistando consensi. Ultima conferma in ordine di
tempo l’endorsement ricevuto dal magazine politico di sinistra The
Nation, che nella sua secolare esistenza ha preso posizione
schierandosi pubblicamente solo per tre candidati in 150 anni: Jesse
Jackson nel 1988, Barack Obama nel 2008 e appunto Sanders. E se Larry
David non ha resistito a fargli un’epica imitazione per il Saturday
Night Live nella quale il candidato appare come un attempato nonnino
ebreo con l’accento di Brooklyn che gesticola e vuole fare la
“Revolution”, la comica Sarah Silverman ha deposto le sue battute al
vetriolo per gridare “Sanders non è in vendita”.
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INCASTONATE NUOVE PIETRE D'INCIAMPO Torino, tre nomi per la Memoria
Non
c’è ancora nessuno al numero 90 di corso Dante, fatta eccezione per un
uomo dal cappello a tesa larga chino davanti al portone. Quest’uomo è
Gunter Demnig, l’ideatore delle pietre d’inciampo, che si è assunto
l’impegno, tanto morale quanto pratico, di presenziare alla loro
collocazione in tutta Europa.
Oggi è il turno di Torino. Le pietre d’inciampo sono un modo di
ricordare, un modo di incastonare la memoria nel cemento e nel
selciato; segnano i luoghi dove abitavano le famiglie deportate durante
il nazifascismo. Tre semplici targhe quadrate, tre nomi, tre date e
qualche breve frase. Ma sono d’impatto, perché può accadere che lo
sguardo di un passante cada su di esse e allora la memoria torni a
vivere.
Alcuni giorni fa erano i nomi di Italo e Silvana Momigliano, a Fossano.
Oggi i nomi sono quelli di Ugo Segre, Iolanda Momigliano e Tullio
Segre, deportati ad Auschwitz e spentisi nei primi giorni di prigionia.
Emanuele Levi
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Lontani dalla vendetta
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È
una convinzione universalmente diffusa, anche tra persone non
particolarmente maldisposte nei confronti degli ebrei, che la vendetta
sia un valore tipicamente ebraico. A mio parere non c’è nulla di più
falso, ed è sconcertante verificare come questa idea falsa abbia potuto
resistere per secoli; o, per lo meno, sarebbe sconcertante se non
fossimo così abituati alle menzogne e ai pregiudizi su di noi da non
farci troppo caso.
La vendetta è un concetto così lontano dalla nostra mentalità che
onestamente non ricordo di aver mai sentito una lezione o partecipato a
una discussione nell’ambito del mondo ebraico in cui la parola
“vendetta” sia mai stata menzionata, così come confesso di non sapere
come si dica “vendetta” in ebraico. In ambito ebraico si parla
soprattutto di autodifesa, di sicurezza (esigenze che vengono quasi
sempre fraintese), oppure di giustizia, o al limite di punizione dei
malvagi, che sono concetti completamente diversi dalla vendetta:
giustizia significa riparazione, compensazione per la vittima nella
misura in cui ciò è possibile e ristabilimento di un equilibrio che è
stato spezzato; punizione significa educazione dell’intera società e
rieducazione del malvagio: ne è un esempio evidente la narrazione
dell’uscita dall’Egitto, con il midrash che arriva a descrivere il
pentimento dello stesso Faraone immerso nel Mar Rosso.
Anna Segre, insegnante Leggi
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Il patrimonio perduto
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Nel
1934, in Germania, in occasione di un banchetto, il ministro
dell’istruzione nazista Bernhard Rust chiese al noto matematico David
Hilbert “se l’istituto di matematica dell’Università di Göttingen
avesse davvero sofferto tanto per l’espulsione dei membri di origine
ebraica”. Hilbert rispose: “Sofferto? L’istituto non esiste più, questo
è accaduto!”. A qualche settimana dal Giorno della Memoria, trovo
interessante riportare questo aneddoto. Per ricordare non solo le vite
che le leggi razziste e la Shoah distrussero, ma anche
quell’inestimabile contributo e patrimonio intellettuale che il popolo
ebraico apportò alla civiltà occidentale, e che il nazismo
irrimediabilmente cancellò. Il ricordo della Shoah, così come il futuro
della cultura ebraica e di Israele, dovrà sempre attingere anche a quel
passato precedente alla tragedia per poter plasmare la propria identità
e il proprio futuro.
Francesco Moises Bassano, studente
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Stranieri in Egitto
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L’essere
stranieri in Egitto agli ebrei imporrà sempre due condizioni: dover
fare i conti con l’estraneità, propria e di altri, e il senso di
ospitalità. Comprensione e riconoscimento che non è sempre facile
conciliare.
Ilana Bahbout |
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