
Elia Richetti,
rabbino
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“Lo
teva’arù esh be-khòl moshevothekhèm be-yom ha-Shabbath”, “Non farete
bruciare fuoco in tutte le vostre residenze nel giorno dello Shabbath”.
La Torah non dice “non accendete fuochi” o “non usate il fuoco”; dice
“non farete bruciare”. Ciò ci indica che non dobbiamo far bruciare,
alimentare il fuoco della polemica, della contrapposizione, del
contrasto, in questo giorno, che dev’essere dedicato solo
all’elevazione ed alla positività.
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Sergio
Della Pergola,
Università
Ebraica
Di Gerusalemme
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Israele
ha a tutt’oggi un sistema universitario molto brillante, con un numero
di vincitori di fondi di ricerca competitivi, di articoli scientifici
pubblicati e di brevetti fra i più alti al mondo in rapporto alla
grandezza della popolazione. Il sistema rischia ora di entrare in crisi
a causa dell’interferenza inconsueta del ministro della Pubblica
istruzione Naftali Bennett nel delicato meccanismo del Consiglio
superiore dell’Educazione superiore (Malag secondo l’abbreviazione in
ebraico). Malag è un organismo di coordinamento e di pianificazione del
sistema accademico nazionale ma rappresenta anche un’importante
barriera mediatrice fra la politica e l’accademia volta a preservare
l’autonomia delle università. È composto da 19 rappresentanti delle
università e dei collegi esistenti in Israele e include due
rappresentanti del pubblico e il presidente dell’organizzazione
nazionale degli studenti. È presieduto formalmente dal ministro ma di
fatto è diretto dal vicepresidente che viene eletto dai membri ed è
generalmente un accademico di grande prestigio (o in alcuni casi in
passato, un giudice della Corte suprema). Poco dopo la sua entrata in
carica un anno fa Bennett ha deciso di sostituire la vicepresidente del
Malag, ex-Rettore della Open University, e l’ha sostituita con una
persona di sua fiducia, una poco nota dottoressa di uno dei collegi,
ossia un’accademica che non ancora giunta al grado di professore e
oltre a tutto in uno degli istituti di minore prestigio. Per usare una
semplice metafora, Bennett si è comportato come il padrone di una
prestigiosa squadra di calcio che incurante del fatto cha la squadra è
al primo posto in classifica decide improvvisamente di cambiare il suo
noto allenatore, sostituendolo con uno delle squadre giovanili.
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L'allarme dei servizi
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“C’è
compenetrazione tra l’Is e la criminalità organizzata”, affermano i
servizi segreti italiani che avvertono Roma, nella relazione presentata
al Parlamento, del rischio di infiltrazioni terroristiche nel flusso di
migranti che arriva in Europa in particolare dall’Europa. E “l’Italia –
riporta Repubblica – appare sempre più esposta come target
privilegiato” per un attentato terroristico. Intanto la minaccia
dell’Isis e di eventuali attacchi nel Vecchio Continente preoccupano
gli organizzatori degli Europei di calcio in Francia (inizieranno tra
cento giorni) che “hanno ipotizzato di giocare alcune partite a porte
chiuse, o con orari e sedi spostate all’ultimo momento” (Corriere).
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LA RIFLESSIONE APERTA DAL RAV DI SEGNI
Halakhah e maternità surrogata
Il rabbinato italiano a confronto
L’intera
società italiana è attraversata in queste settimane da un vivace
confronto che investe politica, intellettuali e opinion leader sul tema
della maternità surrogata, con riferimento in particolare al cosiddetto
“utero in affitto”. Quale la posizione del rabbinato? Quali i paletti e
quali le soluzioni individuate dalla Halakhah, la Legge ebraica?
Una
materia estremamente complessa, trattata dal rabbino capo di Roma
Riccardo Di Segni in una articolata riflessione che apre il notiziario
settimanale Sheva-Idee di Pagine Ebraiche pubblicato questo mattina.
“Nella animata discussione che si sta sviluppando è stata tirata in
ballo la matriarca Rachele come modello antico e sacro di una maternità
surrogata. È il caso di discutere se e quanto questo accostamento sia
lecito” osserva il rabbino capo.
“Il paragone con la maternità surrogata starebbe nel fatto che una
donna che non riesce ad avere figli ricorre a un’altra donna per
averli. Ma fino a che punto il paragone regge?” si chiede rav Di Segni,
rivolgendosi ai frequentatori “casuali” del testo biblico (che tra gli
altri ignorano l’esistenza di un precedente in Sara, moglie di Abramo,
nonno di Giacobbe).
Un accostamento appare però difficile, anche in considerazione della
diversità delle epoche e dei modelli sociali. Scrive infatti il rav:
“Le persone che vengono usate per questo ‘esperimento’ biologico sono
delle serve, quindi persone non libere e con le quali, secondo il
diritto biblico, non era lecito il rapporto sessuale con il padrone.
Sia Rachele che Sara, introducendo nel letto del marito un’estranea non
libera, sanno di fare qualcosa che costerà loro cara in termini
affettivi e di rapporti gerarchici, e lo fanno solo perché sono
disperate”. Le serve, a loro volta, in cambio della loro prestazione
biologica, “cresceranno di grado diventando mogli”. La Bibbia e la
successiva tradizione rabbinica hanno tollerato l’istituto della
schiavitù, riflette il rav, “ma con un sistema giuridico di tutela e
protezione assolutamente innovativo rispetto alle culture coeve”. Ma
oggi – si legge ancora – “a nessuno nell’ebraismo verrebbe in mente di
riproporre un rapporto di schiavitù”. Se si fanno confronti tra
maternità surrogata e storia di Rachele e Sara, per dire che c’è un
precedente che la giustifica, andrebbe così tenuto ben chiaro “che si
tratta di sfruttamento di persone non libere”. Il che non sarebbe un
bel modo “per giustificare moralmente una procedura attuale”.
“Certamente
non sono pratiche incoraggiate dalla Halakhah. Il rabbinato però deve
tenere conto del fatto che esse vengono messe in atto e bisogna quindi
risolvere tutta una serie di problemi riguardo ai figli. Non vi sono
soluzioni preconfenzionate e univoche, tali da adattarsi universalmente
alle diverse situazioni. Ogni caso richiede una valutazione a parte.
Ogni caso porta con sé interrogativi e possibili soluzioni halakhiche”
dice il rav Gianfranco Di Segni, biologo e coordinatore del Collegio
Rabbinico Italiano. In particolare, osserva il rav, si pone il problema
di chi debba essere considerata “madre”: quella genetica o quella che
partorisce (la madre surrogata)? O forse tutte e due? La questione si
pone per diversi aspetti: per esempio, riguardo al divieto di incesto
con eventuali altri figli e figlie di una o entrambe le madri; o per la
questione della ebraicità dei figli, che come è noto segue la madre (“è
ebreo chi nasce da madre ebrea o si converte all’ebraismo secondo la
Halakhah”); o anche riguardo al Quinto Comandamento, “Onora tuo padre e
tua madre”: quale delle due madri si ha l’obbligo di onorare?
“Non
c’è un’ostilità preconcetta – dice rav Joseph Levi, rabbino capo di
Firenze – ma è fondamentale valutare caso per caso. L’Halakhah
prescrive infatti come modello ideale di famiglia una coppia che riesca
a generare un figlio e una figlia. Nel caso in cui questo non avvenga,
per i motivi più disparati, allora si rende possibile il ricorso ad
altre strade. Ma l’estrema varietà delle situazioni umane esclude
giudizi decretati a priori. Bisogna andare a fondo di ogni singola
vicenda”.
“Una
delle mitzvot (doveri) più importanti per un ebreo è la procreazione.
Una pratica come quella della maternità surrogata rappresenta una
soluzione alternativa, non certo la prima scelta. Quindi non mi
entusiasma, anche alla luce delle molte sfumature che la
caratterizzano. Da un punto di vista ebraico, c’è infatti da chiedersi
chi sia realmente la madre e ancora si aprono molte questioni inerenti
la consanguineità o l’eventuale conversione del bambino o della
bambina. Temi spinosi – riflette rav Alberto Somekh – su cui da tempo
il rabbinato dibatte”.
"L’ebraismo
è abbastanza permissivo sulle pratiche extrauterine, non mancando però
di porre alcuni limiti” conferma il rabbino capo di Trieste, rav
Eliezer Di Martino. Nell'arco delle opzioni inammissibili, dice il rav,
l'azione a favore di coppie composte da persone dello stesso sesso. “In
questo caso è chiaro che si tratta di un sotterfugio”.
Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked
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LA SETTIMANA DI CULTURA EBRAICA IN PUGLIA Il ritorno di Lech Lechà
Il
prossimo 14 marzo Trani si animerà per il consueto appuntamento con
Lech Lechà, la settimana di arte, cultura e letteratura volta a far
riscoprire l'eredità dell'ebraismo del Meridione. Presentazioni di
libri si intrecceranno a mostre d'arte e dibattiti sull'attualità,
sempre accompagnati dalle preghiere ospitate nella suggestiva Sinagoga
Scolanova della città.
Il festival è realizzato grazie al supporto della Regione Puglia, del
Comune di Trani, dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e della
Comunità ebraica di Napoli.
“Lech Lechà – ha spiegato in conferenza stampa Cosimo Yehuda Pagliara,
direttore artistico del festival insieme a Ottavio Di Grazia e
Francesco Lotoro –
è uno scrigno da aprire a disposizione di tutti. Quest'anno il tema
scelto è quello della Komemiut, il concetto ebraico del procedere a
testa alta”.
“Quando si iniziò a parlare della riscoperta dell'ebraismo del Sud - ha
preso la parola il presidente UCEI Renzo Gattegna - in molti furono
dubbiosi e non credevano che sarebbe servito a qualcosa. Invece, a
partire dalla piccola scintilla di Trani, la risposta del Meridione ha
superato le aspettative”.
Guarda al futuro anche rav Umberto Piperno, rabbino capo di Napoli: "Lo
scopo di Lech Lechà è quello di assurgere ad essere come la Tenda di
Abramo: un luogo di accoglienza nel rispetto dell'identità di ciascuno.
La comunità del Sud è un gruppo che vive con emozione il proprio
ebraismo e l'obiettivo è quello di creare adesso dei ponti di
comunicazione con l'estero e in particolare con Israele". Gadi Piperno,
responsabile UCEI del Progetto Meridione, è entrato poi nello
specifico: “Non possiamo dimenticarci del Sud Italia anche se ci sono
pochi ebrei; come Unione delle Comunità Ebraiche Italiane abbiamo dei
doveri precisi e dobbiamo supportare gli ebrei delle piccole comunità
locali che necessitano aiuto”.
Ad illustrare il fitto programma è stato infine Francesco Lotoro,
protagonista di un'ampia intervista sul numero di marzo di Italia
Ebraica. Leggi
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qui napoli Orgoglio, passione, progetti
150 anni guardando al futuro O
“Quella
della Comunità ebraica di Napoli è una storia antichissima, che inizia
molto prima del 1864″. Così Giancarlo Lacerenza, direttore del Centro
di studi ebraici dell’Università di studi di Napoli L’Orientale,
presenta i contenuti del volume La Comunità ebraica di Napoli
(1864-2014): centocinquant’anni di storia, un catalogo comprendente una
raccolta di saggi che raccontano l’eredità ebraica della città
realizzato a seguito delle due mostre ospitate dalla Biblioteca
Nazionale e dall’Archivio di Stato lo scorso anno. Un’iniziativa resa
possibile grazie al contributo dell’Unione delle Comunità Ebraiche
Italiane, della Fondazione Beni Culturali Ebraici in Italia, della
Comunità ebraica di Napoli assieme all’Archivio di Stato cittadino e al
Ministero dei Beni e delle attività culturali e del Turismo. Alla
presentazione – svoltasi nella stessa sala Rari della Biblioteca
Nazionale di Napoli che ha ospitato anche la mostra e condotta in
dialogo con la giornalista Titti Marrone – hanno portato il loro saluto
il Consigliere UCEI Sandro Temin, il presidente della Fbcei Dario
Disegni, il presidente della Comunità ebraica di Napoli Lydia Schapirer. Leggi
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Setirot - Orban in ansia
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No
al piano europeo sulle migrazioni perché “un flusso incontrollato di
migranti fa correre seriamente il rischio di importare terrorismo,
criminalità, antisemitismo e omofobia”. Al di là del fatto che la tesi
ancora una volta espressa giorni fa al quotidiano Bild è tutta da
dimostrare, vediamo un po' chi si erge a paladino della lotta
all’antisemitismo. Nientepopodimeno che il primo ministro ungherese
Viktor Orbán, ovvero il leader della coalizione governativa più
antisemita d'Europa, e forse non soltanto d'Europa. La ‘bizzarra’
contraddizione dovrebbe far riflettere chi plaude a movimenti e
personaggi che dell'odio e della paura hanno fatto le proprie bandiere.
Non esiste razzismo senza antisemitismo, non esiste antisemitismo senza
razzismo: basta conoscere la storia, e leggere l'ultimo rapporto sulla
Francia presentato dall'European Commission against Racism and
Intolerance (ECRI) per averne – qualora ce ne fosse bisogno – una
ennesima conferma.
Stefano Jesurum, giornalista
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In ascolto - Gli occhiali d'oro
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Ennio
Morricone ce l’ha fatta. Dopo tre Grammy Awards, tre Golden Globe,
cinque David di Donatello, un Leone d’Oro alla carriera, il Polar Prize
conferito dall’Accademia Reale di Musica svedese e un Oscar alla
carriera, oltre a numerosi altri premi mondiali, il compositore
italiano ha ricevuto l’Oscar per una colonna sonora, quella di The
Hateful Eight. Ha fatto un percorso straordinario quel giovane di
Arpino che cominciò a muovere i suoi passi nel lontano 1946 con la
composizione “Il mattino” per piano e voce. Il consiglio d’ascolto di
oggi si riferisce a un film davvero importante che ha avuto poco
successo dal punto di vista commerciale: Gli occhiali d’oro, tratto
dall’omonimo romanzo di Giorgio Bassani del 1958 e diretto da Giuliano
Montaldo nel 1987. Per la colonna sonora Ennio Morricone ricevette il
David di Donatello.
Maria Teresa Milano
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Emozioni e futuro
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A
scanso di equivoci dichiaro subito che il Sefer Torah di Biella è una
notizia splendida, non solo per il valore storico e artistico dello
stesso, ma per il significato profondo che ha la Torah Scritta per ogni
ebreo. Ho letto però l’enfasi con cui si definisce il restauro dello
stesso “una notizia emozionante e di straordinaria importanza per
l’ebraismo italiano”. E mi domando in modo spontaneo cosa sia rilevante
e di straordinaria importanza l’ebraismo italiano: quello che siamo
stati o quello che saremo? Come appariamo o come siamo? Insomma il
nostro passato o il nostro futuro?
Michele Steindler
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Time out - Priorità e valori
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Non
sempre i social network sono puri strumenti di polemica. Ieri si è
aperta una bella discussione sul restauro del Sefer nel tempio di
Biella. Qualcuno ha posto un’interrogativo sull’utilità di un Sefer in
una Comunità che oggi praticamente non esiste più e che, oltre ad
essere letto per questa occasione, forse non verrà più riutilizzato,
chiedendosi se forse non sia meglio che venga messo a disposizione dei
Bate Hakneset italiani in Israele per esempio. È un tema interessante,
non semplice come appare.
Daniel Funaro
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La balena maledetta
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Un
ragazzo di vent’anni o giù di lì, nel pieno della sua voglia di vivere.
Un uomo vecchio, più vecchio degli anni che porta. Il sole, il mare, la
fame, l’amore, la guerra. Una lampada a soffitto, un ospedale, la
morfina, la pace eterna. I sogni, l’avventura, la speranza, il
desiderio. I rimpianti, il dolore, l’arrendevolezza. Nella Maledetta
balena, di Walter Chendi, paesaggi, sentimenti e azioni estreme si
incrociano, si affrontano. Un solo personaggio è presente sempre – sia
nei momenti del desiderio lucido e giovane, sia in quelli dei ricordi
drogati e desolati: un gabbiano.
Con una sapienza da narratore consumato e abile – capace di dettagli al
limite della più ossessiva precisione – e del montatore alla moviola –
che piega e domina al tempo della narrazione lineare romanzesca
frammenti di tempo del passato con quelli del presente - Chendi
orchestra il suo romanzo come un musicista scrive la sua sinfonia, come
un regista dirige il suo film.
Valerio Fiandra
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I figli del nemico
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È
di pochi giorni fa la notizia della condanna di due militari
guatemaltechi i quali, all’inizio degli anni Ottanta, hanno abusato più
volte di diverse donne riducendole in schiavitù domestica e sessuale.
Ad ascoltare la sentenza sui due imputati (un ex comandante e un civile
che all’epoca lavorava come commissario in sinergia con l’esercito, ora
condannati nel complesso a 360 anni di carcere) erano presenti alcune
delle donne violentate nel corso della trentennale guerra civile che ha
portato alla morte e alla sparizione di decine di migliaia di persone,
in particolare indigeni maya.
Sara Valentina Di Palma
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