I figli del nemico

Sara Valentina Di PalmaÈ di pochi giorni fa la notizia della condanna di due militari guatemaltechi i quali, all’inizio degli anni Ottanta, hanno abusato più volte di diverse donne riducendole in schiavitù domestica e sessuale. Ad ascoltare la sentenza sui due imputati (un ex comandante e un civile che all’epoca lavorava come commissario in sinergia con l’esercito, ora condannati nel complesso a 360 anni di carcere) erano presenti alcune delle donne violentate nel corso della trentennale guerra civile che ha portato alla morte e alla sparizione di decine di migliaia di persone, in particolare indigeni maya.
Il processo si inserisce in un filone di procedimenti giudiziari, peraltro assai recenti, in cui la giustizia civile guatemalteca cerca di chiudere i conti con il passato di quella che non fu solo una guerra civile iniziata nel lontano 1960 con una forte caratterizzazione politica (il governo da un lato, ribelli appartenenti a gruppi filo comunisti sostenuti dalla popolazione Maya che costituiva il ceto contadino e povero del Paese), ma assunse i connotati di politiche genocidiarie.
Nel Paese centroamericano, la cui popolazione è per oltre metà di origine indigena e rappresenta la più alta presenza indios in Centro America, soprattutto da quando i militari assunsero all’inizio degli anni Ottanta i poteri civili, la gran parte dei maya fu costretta a lasciare i villaggi di provenienza abbandonando le vesti tradizionali e la propria lingua. Insieme agli indigeni, la repressione governativa e militare colpì giornalisti, attivisti politici, oppositori del regime e presunti tali, studenti e docenti universitari, religiosi e sindacalisti, nei confronti dei quali fu attuata soprattutto la politica delle sparizioni forzate mediante l’impiego di squadre della morte, sul modello della dittatura argentina.
Se la prima sentenza storica sui desaparecidos guatemaltechi risale solo al 2009; nel 2013 il primo processo all’ex presidente Montt per genocidio della popolazione indigena ha riproposto all’attenzione del mondo la questione delle stragi dei maya. Già la CEH, Commissione per il Chiarimento Storico nata a Oslo nel 1994 sotto il patrocinio delle Nazioni Unite con il compito di promuovere la verità storica ed intraprendere un processo di riconciliazione, aveva infatti stabilito nel 1999 che i Maya furono vittima di crimini contro l’umanità, che condussero a 200.000 morti ed un milione e mezzo di sfollati nei cui confronti venne attuato un preciso piano statale, condotto dai militari, per eliminare la guerriglia facendo terra bruciata con l’uso del terrore: le vittime venivano decapitate, sventrate, gettate ancora vive in fosse comuni, mentre le donne prima di essere uccise erano in genere stuprate e se possibile davanti ai familiari. I villaggi maya venivano rasi al suolo.
Se la CEH era stata piuttosto cauta sul considerare lo sterminio dei maya, che pure ci fu, un genocidio, la giustizia civile guatemalteca sembra riaprire la questione delle violenze contro i maya e del genocidio, con l’incriminazione di Montt (condannato, ma la cui sentenza fu poi annullata per vizi procedurali e il cui secondo processo è oggi in stallo perché la difesa ne ha chiesto l’accertamento di infermità mentale) ma anche con la sentenza appena emessa, la quale sottolinea la gravità di politiche di stupro di massa in condizione di schiavitù per le donne indigene.
Sempre più attuale è in questo caso il pensiero del giurista Raphael Lemkin (1900-1959), il quale si era interessato già da adolescente al genocidio armeno ed è stato, durante il Secondo conflitto mondiale in cui dovette riparare all’estero per sfuggire al genocidio ebraico, colui che ha coniato il termine stesso “genocidio”, nel percorso giurisprudenziale volto a sanzionarlo.
La convenzione internazionale sul genocidio del 1948 si deve soprattutto a lui, anche se purtroppo privata di una parte per Lemkin fondamentale, ovvero quella relativa all’intento morale e agli aspetti degradanti di tipo psicologico ed emotivo in politiche genocidiarie.
Bisognerà attendere i genocidi del Rwanda e della Bosnia negli anni Novanta del Novecento, e le risoluzioni dei due Tribunali Penali Internazionali ad hoc, per vedere inclusi nella sanzione penale di genocidio anche atti psicologici quali l’annientamento di un gruppo attraverso politiche culturali e sociali, sulla salute e di marginalizzazione interna al gruppo delle vittime. In entrambi i casi infatti, è stata riconosciuta la pianificazione di politiche genocide con stupri di massa volti ad intaccare la ricostruzione post bellica, in Bosnia tramite gravidanze forzate per procreare i cosiddetti “figli del nemico” che non sarebbero stati accettati nella società bosniaco-musulmana di provenienza delle donne stuprate, e in Rwanda tenendo in vita donne stuprate appositamente da persone infette da HIV in modo da diffondere il contagio.
Mi sembra pertanto di notevole interesse quanto Lemkin scrisse già nel 1944 in Axis Rule in Occupied Europe con una lungimiranza pragmatica che precorreva i tempi: un genocidio può essere condotto non solo tramite stermini di massa, ma anche attraverso la disintegrazione delle istituzioni politiche e sociali, della cultura, del linguaggio e del sentimento di appartenenza nazionale, della religione e della vita economica di gruppi nazionali, e la distruzione della sicurezza personale, della libertà, della salute, della dignità e delle vite di individui facenti parte di tali gruppi.

Sara Valentina Di Palma

(3 marzo 2016)