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LA VOCE DEL RABBINATO ITALIANO 

I Giusti e la chiarezza necessaria

Nei giorni scorsi è apparso sul Corriere della Sera uno sconcertante articolo del giornalista Antonio Ferrari che usa espressioni particolarmente gravi ed offensive nei confronti di quanti nel mondo ebraico non concordano con il progetto Gariwo di estendere il riconoscimento del titolo di “Giusti” al di fuori della definizione data allo Yad Vashem, ove, come noto, viene riferito alle persone non ebree che hanno fornito aiuto e protezione agli ebrei durante la Shoah, senza richiedere alcun tipo di ricompensa. È necessario innanzitutto ricordare il fatto che il titolo di “Giusto tra le nazioni” nasce nell’insegnamento rabbinico con l’espressione “Chasidè ummot haolam” riferito a quanti, al di fuori del popolo ebraico, adempiono ai Sette Comandamenti Noachidi, considerati il fondamento etico di comportamento e di presa di distanza da ogni forma di idolatria, a cui dovrebbero attenersi tutti gli uomini. Lo Yad Vashem ha inteso utilizzare questo titolo di “Giusto” per esprimere, da un lato, la riconoscenza del popolo ebraico nei confronti dei pochi fra tutti i popoli che si sono prodigati per salvare la vita anche di un solo ebreo, inoltre per rappresentare il valore emblematico di esempio di quanti nell’imperversare dello sterminio, nelle tragedie del conflitto mondiale, in quei frangenti non hanno girato il volto, non sono stati indifferenti, hanno scelto la vita e lo hanno fatto consapevoli del pericolo cui andavano incontro e con le motivazioni più diverse, in favore di persone per lo più estranee, sconosciute, nei confronti delle quali non avevano specifiche responsabilità, se non quelle di condividere la stessa dignità di esseri umani. Il valore esemplare per il mondo di quei comportamenti scaturisce dalle circostanze specifiche in cui si sono realizzati, la loro forza evocativa nasce dal fatto di aver scelto il bene e la vita quando dominavano nel mondo i valori opposti, la loro forza è anche nel fatto che il comportamento per il quale vengono riconosciuti come giusti è chiaramente definito, deve essere comprovato e non è legato ad alcun tipo di ideologia specifica; questi aspetti specifici ci possono far comprendere alcune delle forti perplessità relative all’estensione dell’attributo di “giusto” messo in atto dal progetto Gariwo per includere un’ampia scelta delle più diverse categorie di comportamenti ritenuti virtuosi. Ovviamente non si discute l’importanza di far conoscere al mondo azioni e personaggi considerati in vario modo esemplari, tuttavia il ricorso alla qualifica di “giusto fra i popoli” è assolutamente problematica per vari motivi. Innanzitutto, in una così ampia cerchia di categorie a cui viene estesa, la scelta del “giusto” risulta legata a parametri molto diversi fra loro, nei quali le varianti relative al carattere particolarmente significativo dell’azione o del personaggio, al valore morale esemplare, al coraggio, allo spirito di sacrificio, sono spesso opinabili, discutibili, difficilmente si possono riassumere con la medesima definizione di riconoscimento, nella maggior parte dei casi si tratta di comportamenti sicuramente nobili ma che esprimono valori diversi rispetto a quelli cui si rivolge Yad Vashem. Ad esempio, nel progetto Gariwo vengono evidenziati personaggi che hanno combattuto e si sono sacrificati per la libertà del proprio paese, contro la tirannide di dittature, per la dignità dei diritti umani, però sacrificarsi per il proprio paese è un comportamento concettualmente diverso rispetto al rischiare la vita per estranei di un altro popolo, di un’altra religione, per di più da secoli vilipesa e umiliata; mettere in gioco la propria vita per i grandi ideali di vita e di libertà è sempre una scelta che testimonia la levatura morale e di civiltà di chi le compie, tuttavia c’è pure una differenza tra chi opera nel buio di una dittatura, sapendo però di non essere solo nella sua lotta, sapendo che nel mondo tanti popoli vivono nella libertà e nell’ambito di leggi civili, rispetto a chi si metteva a repentaglio per salvare degli sconosciuti, senza poter avere certezza alcuna che il mondo attorno a lui sarebbe mai uscito dall’incubo del terrore. Ci sono nel novero dei giusti riconosciuti come tali da Gariwo personaggi che hanno illuminato il loro ruolo nel campo della giustizia, della difesa dei diritti umani, nella ricerca della pace tra i popoli, ma anche per questi casi ci troviamo in una prospettiva di valori diversi, sono cioè persone di grande statura morale che hanno esplicato le loro migliori qualità di pensiero, di azione e di sentimenti, ma in fin dei conti hanno realizzato al meglio il compito che essi avevano scelto per la propria vita. Nello Yad Vashem invece, nella maggior parte dei casi, vengono alla luce comportamenti che andavano assolutamente al di là dei compiti, del ruolo o dei più comuni valori di riferimento rispetto al protagonista dell’episodio che viene ricordato. I giusti di Yad Vashem ci testimoniano una capacità di scegliere il bene e la vita al di là di ogni condizionamento, nelle condizioni più precarie, talora come uno scatto improvviso della propria coscienza, perfino in contrasto con precedenti percorsi di vita mediocri, banali. Ci danno l’idea di come di fronte alla possibilità di essere occasione di vita per un altro essere umano possa manifestarsi nell’uomo, anche in modo imprevedibile, una capacità straordinaria di agire con coraggio, con determinazione, con lucida comprensione dei confini tra il bene e il male. Un’ulteriore problematicità nel progetto Gariwo è data dal fatto che la scelta di ampliare in modo indefinito la categoria di “giusto” lascia spazio ad iniziative locali incontrollate ed ingestibili, come riconosciuto dagli stessi rappresentanti di questa istituzione, iniziative gravi in cui vengono gratificati personaggi di dubbia rilevanza ed alcuni che appaiono ai più indegni di tale riconoscimento e che macchiano il significato stesso della parola e di ciò che essa deve rammentare. Al contrario, i giusti di Yad Vashem, nel ricordo delle circostanze estreme in cui hanno agito, testimoniano anche dell’unicità della Shoah che in quanto tale rimane come un segno inequivocabile di monito per l’umanità, tema su cui si è recentemente espresso in modo molto chiaro e approfondito rav Roberto Della Rocca. Nel riconoscimento dell’assoluta particolarità della Shoah consiste anche la possibilità per la civiltà di comprendere a che punto si trovi del proprio cammino, considerando da un lato il diffondersi della cultura di diritti umani e il riconoscimento di criteri di maggiore giustizia, dall’altro il permanere di diffuse condizioni di umiliazione e prevaricazione, la mancanza di fondamentali condizioni di dignità umane insieme al manifestarsi ricorrente delle espressioni più grette e meschine del carattere umano. Segni contraddittori che ci ricordano la strada percorsa e quanto ancora debba essere fatto per parlare di vero e radicato progresso dell’umanità.
Certo il progetto Gariwo ha ormai una sua connotazione nei vari riconoscimenti che ha ricevuto, tuttavia bene farebbe a tenere presente le differenze sostanziali rispetto al modello dello Yad Vashem, cercando una propria specifica identità e propri simboli con i quali proporre all’attenzione del mondo modelli di valore e comportamento certamente importanti ma che devono restare distinti dalla Memoria della Shoah, proprio per non rischiare di offuscare e indebolire quel riferimento che è essenziale per il futuro dell’umanità e a cui Gariwo intende richiamarsi.
Prima di concludere devo ancora fare un breve riferimento all’ultima parte del testo di Ferrari, nel quale il giornalista porta come esempio del futuro che lo entusiasma i rapporti di particolare fraternità fra le religioni, rappresentati emblematicamente, a suo dire, da una chiesa in costruzione in Germania, che accoglierà uniti in preghiera i fedeli delle tre religioni monoteistiche e dalla famiglia di una sua stimata collega, in cui padre, madre e figlia sono ognuno di una diversa religione. In sostanza caldeggia il sincretismo religioso, il banale appiattimento delle differenze, la confusione delle diverse identità dal quale il giornalista si aspetta la costruzione di un mondo sicuramente migliore. Si tratta di una tesi assolutamente pericolosa; innanzitutto rinunciare a parti essenziali della propria identità nella prospettiva di un ipotetico ideale di pace e condivisione significa inseguire chimere, non si costruisce qualcosa di veramente nuovo e di solido per il futuro rinnegando le proprie caratteristiche ma al contrario aprendosi al dialogo e ad un confronto in cui rimaniamo totalmente noi stessi, nel modo di vivere e di pensare, disponibili però a riconoscere e rispettare chi è diverso da noi. La rinuncia sostanziale ad esprimere la propria identità religiosa non porta affatto ad un mondo migliore, crea disagio, squilibri, disadattamento, sollecita reazioni opposte di chiusura e accentuazione della diversità e nei casi peggiori, come ben sappiamo, viene strumentalizzata nel fanatismo fino ai più orrendi crimini. Infine nasconde dietro la più rosea immagine di pace un atteggiamento sostanzialmente intollerante nei confronti di chi invece desidera e ritiene giusto e utile mantenere pienamente la propria identità che viene praticamente tacciato di impedire il progresso, di voler ricacciare il mondo in un oscuro passato. 
Stupisce che si possano esprimere tesi così lontane da un concreto fondamento e da riscontro nella realtà. Argomenti complessi e delicati come i rapporti tra le diverse comunità religiose, in cui, come insegna la storia, gli errori costano carissimo richiedono un ben diverso approccio, ponderato e responsabile.

(Nell'immagine lo Yad Vashem, il Memoriale della Shoah di Gerusalemme) 

Rav Giuseppe Momigliano,
componente della Giunta dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

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ANCORA REAZIONI ALL'EDITORIALE SUL CORRIERE 

"Giusti, il rischio è la strumentalizzazione"

Sul sito del Corriere della sera, sotto al titolo “La Giornata dei Giusti fa svanire le critiche”, è apparso negli scorsi giorni un irresponsabile commento a cura del giornalista Antonio Ferrari. Numerose le reazioni che sono seguite.
Sulla vicenda per prima è intervenuta la Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni, con una dura protesta rivolta al direttore del Corriere, Luciano Fontana, per i contenuti “inaccettabili” e “pericolosi” veicolati.
Grave e offensivo, la posizione della Presidente UCEI, il distinguo “tra certi e altri ebrei che rafforza e legittima chi è portatore di odio”. Confuso e totalmente avulso da ogni corretto riferimento “il distinguo tra valorizzazione dei Giusti promossa dal progetto Gariwo e l’impegno di Memoria sulla Shoah con la sua assoluta unicità che andava, al contrario esatto, riaffermata ancora una volta anziché aggiungere confusione a quella già ampiamente diffusa”.
Gli ebrei italiani, afferma Di Segni, “sono assolutamente uniti nel riaffermare l’unicità della Shoah e dei Giusti riconosciuti da Yad Vashem e nell’appello ad evitare ogni sorta di confusione e comparazione voluta o disattenta rispetto ad altri genocidi e il concetto di Giusti”.
Tra le voci più autorevoli a levarsi quella del demografo Sergio Della Pergola, importante esponente della comunità degli Italkim e da vari anni membro della Commissione dei Giusti dello Yad Vashem. “La Commissione di cui ho l’onore di fare parte – il suo commento – svolge un lavoro di accurata indagine storica, lontana da qualsiasi pregiudizio o venatura ideologica. Il nostro lavoro riflette il dovere morale degli ebrei salvati (fra cui io stesso) nei confronti dei coraggiosi che hanno messo a rischio la propria vita per salvarne un’altra”. La connessione tra questa attività moralmente doverosa e il fanatismo, accusa Della Pergola, non solo “è del tutto ingiustificata”, ma semmai “eccita il pregiudizio e l’odio”. Sostanzialmente, la sua valutazione, “non esiste nessuna contraddizione fra il riconoscere chi ha salvato degli ebrei e chi ha manifestato atti di coraggio nei confronti di altri”.
Nelle scorse ore si è espressa anche Nuova Udai 10.0, la Nuova Unione Democratica Amici di Israele, avanzando attraverso il suo presidente Enrico Mairov “forti perplessità in merito all’impianto concettuale ed al modus operandi della onlus Gariwo fondata da Gabriele Nissim”. Mairov accusa Gariwo di aver ripreso in modo arbitrario il termine Giusto “estendendolo a chiunque abbia fatto ‘genericamente’ del bene con l’evidente conseguenza che un’estensione così allargata si presta inevitabilmente a scelte soggettive potenzialmente motivate ideologicamente”. Aprire le maglie della Memoria, sostiene Mairov, “rischia la sua relativizzazione e, purtroppo, anche la sua strumentalizzazione come ad esempio nel caso di Vittorio Arrigoni, noto attivista filopalestinese e accanito antisionista, ucciso nel 2011 a Gaza da estremisti salafiti, il quale è stato proclamato Giusto per ben 2 volte nel Giardino dei Giusti inaugurato da Gariwo a Pistoia nel 2013 ed in quello inaugurato a Trevi nel 2017”. Nel mirino di Nuova Udai 10.0 anche alcune figure che siedono nel comitato scientifico di Gariwo, tra cui l’ex speaker della Knesset Avraham Burg, il docente universitario Vittorio Emanuele Parsi, il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury. Tutte personalità che, si legge, “nutrono e promuovono una forte avversione allo Stato di Israele”.
Gariwo è intervenuta con una nota in cui si definiscono le espressioni usate dal giornalista “offensive, generalizzanti e distorcenti la realtà”. Secondo Gariwo, la firma del Corriere è intervenuta “contro un clima polemico che da alcuni mesi si è focalizzato in attacchi alla Fondazione Gariwo e ai Giardini dei Giusti”. Attacchi che, prosegue il messaggio, “mettono in discussione la Giornata dei Giusti (6 marzo), che è stata approvata dal Parlamento Europeo e dal Parlamento italiano, e fraintendono volutamente le nostre posizioni, accusandoci di avere una concezione dei Giusti impropria e addirittura anti ‘israeliana’, quando invece si è realizzato in Italia e nel mondo uno straordinario lavoro di educazione alla democrazia, alla responsabilità, alla lotta all’antisemitismo e alla prevenzione dei genocidi”.
Per Gariwo il giornalista “ha usato espressioni che generano stereotipi e per questo vanno discusse” ma si dovrebbe comunque riconoscere “il suo importante lavoro editoriale per le Giornate della Memoria, il suo sostegno per il Memoriale della Shoah di Milano quando ancora era agli inizi e il suo impegno a sostegno della Senatrice Liliana Segre, quando la sua vicenda era ancora sconosciuta al largo pubblico”.

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LE MISSIONI DIPLOMATICHE DI ISRAELE 

Netanyahu non parte per gli Emirati,
Rivlin si prepara per l'Europa

Non ci sarà la prima visita del Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu negli Emirati Arabi Uniti. Il motivo, un problema diplomatico con la Giordania. Secondo l’ufficio del Premier, c’è stata infatti una difficoltà di coordinamento con i vicini giordani rispetto all’apertura dello spazio aereo al volo che avrebbe dovuto portare Netanyahu ad Abu Dhabi. Inizialmente si era parlato di una scelta del Premier di non partire visto il ricovero della moglie Sara per una appendicite. In ogni caso, tutto rimandato e lo storico incontro negli Emirati con il principe Mohammed bin Zayed dovrà aspettare.
Nel frattempo, chi si prepara a partire è il Presidente d’Israele Reuven Rivlin. Germania, Francia e Austria le destinazioni del suo viaggio, che prenderà il via il prossimo 16 marzo. Rivlin, spiegano dall’ufficio della presidenza, parlerà con i suoi colleghi europei della preoccupazione israeliana per il programma nucleare iraniano e della decisione della Corte penale internazionale di aprire un’inchiesta su presunti crimini di guerra da parte di Israele.

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IL CONFRONTO ROTARY CON ESPERTI DA ISRAELE 

"Dopo la pandemia, una società solidale"

Dalla necessità di comunicare correttamente le informazioni scientifiche al dialogo con il paziente, dall’etica legata alla scelta di vaccinarsi alla costruzione di una società inclusiva. Tanti gli spunti emersi nel corso del convegno internazionale “Insieme per una società libera dalla pandemia”, organizzato da Rotary per Milano Covidfree, con esperti provenienti da tutto il mondo e nei campi più diversi. “La sfida principale è quello di attraversare questo tempo, guardando con lo sguardo alto verso gli orizzonti futuri, collaborando e mettendo a sistema le diverse competenze. Non disperdiamo il patrimonio di conoscenze e cooperazioni costruito in questo difficile momento” ha sottolineato in apertura di convegno la vicesindaca di Milano Anna Scavuzzo. Tra le molte voci presenti nell’articolato programma, da Israele il vicerettore della facoltà di Scienze per la Salute dell’Università Ben Gurion Nadav Davidovitch e la docente di Farmacologia e Immunofarmacologia dell’Università Ebraica di Gerusalemme Francesca Levi-Schaffer. Nel corso del convegno, gli intervenuti sono stati divisi in otto gruppi di studio che si sono confrontati su diverse tematiche legate all’emergenza sanitaria. In particolare, a intervenire nel panel dedicato a come comunicare in pandemia, è stato il vicepresidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Giorgio Mortara. 

(Nell'immagine le mura di Gerusalemme illuminate in solidarietà all'Italia al tempo del lockdown)

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SEGNALIBRO 

Indagare il sacro, la strada dell'ebraismo   

È da oggi nelle librerie Le corone della Torà, il nuovo saggio del professor Massimo Giuliani. Pubblicato dall’editore Giuntina, lo studio si caratterizza per una affascinante e dotta ricognizione, in dodici capitoli, sui processi di interpretazione nell’ebraismo.  
Apprezzato collaboratore di questa redazione, curatore in particolare della rubrica Machshevet Israel, il professor Giuliani insegna Pensiero ebraico all’Università di Trento e Filosofia ebraica nel corso del diploma universitario UCEI. Tra i suoi libri recenti La giustizia seguirai. Etica e halakhà nel pensiero rabbinico(2016) e Le terze tavole. La Shoah alla luce del Sinai (2019).
Per la Giuntina sta coordinando la pubblicazione dei trattati del Sefer ha-madda‘ di Maimonide, di cui ha curato le Hilkhot de‘ot, Norme di vita morale (2018).

Minnàin she. «Da dove si deduce che…?». Difficile trovare, fuori dall’orizzonte ebraico, un approccio religioso che esiga un tale impegno della ragione umana e l’impiego così sistematico della logica. La ricerca di una giustificazione per ogni opinione e per ogni modalità comportamentale, al di là della parola o del versetto che materialmente le «giustifichino» (ma che potrebbero risultare contestabili), è già di per sé un’operazione razionale. Il Talmud è un ricettacolo straordinario di espressioni interrogative tese a sviluppare un’attitudine non dogmatica, non acritica o semplicemente non ragionata verso qualsiasi problema di natura religiosa, sia in ambito teologico sia nella sfera etica. La logica è il grande presupposto della religiosità ebraica, perché quest’ultima presume che niente riveli la dimensione di imago Dei insita nell’essere umano più delle sue capacità intellettuali. Non solo il testo sacro non va preso «a scatola chiusa», ma esso sarebbe profanato nella sua sacralità se non venisse indagato, sviscerato, quasi contraddetto con obiezioni e controobiezioni, sollecitato a dire di più e a volte a dire il contrario di quel che attesta un’evidenza testuale di superficie. E non solo il testo sacro; anche la sua interpretazione da parte dei maestri va soggetta – deve essere assoggetata – ad analisi, verifiche, obiezioni e contraddittorio: il miglior allievo è quello che meglio sa contraddire il suo maestro e il miglior compagno di studio è colui che solleva il maggior numero di dubbi e di domande su una data questione. Con espressione felice David Banon, allievo di Levinas, ha parlato di «ermeneutica della sollecitazione», dove per sollecitazione, sia a livello semiotico sia a livello semantico, si intende «il compimento di un senso rimasto in sospeso [in quanto] disfà le maglie del testo, ne allenta la trama… si smarrisce tra le parole, socchiude i vocaboli… taglia i versetti… decostruisce il logos apparente che ne costituiva il cemento». È il lavoro dell’esegesi rabbinica, che prende nome di midrash, il quale – dice ancora Banon – è un grande pretesto per pensare.

Massimo Giuliani - Le corone della Torà, ed. Giuntina

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Setirot - Una voce stonata
Il dibattito, anche aspro, che si è sviluppato intorno alla Giornata europea dei Giusti nonché sul più che ventennale impegno di Gabriele Nissim e di Gariwo (Gardens of the Righteous Worldwide) non si è esaurito con le celebrazioni del 6 marzo. I lettori di Setirot già sanno che per me si tratta di estendere – estendere, non sostituire o sovrapporre – il concetto di Giusto tra le Nazioni (i non ebrei che durante la Seconda Guerra Mondiale, disinteressatamente, a loro rischio e pericolo, salvarono la vita agli ebrei) a chi per mettere al riparo qualcuno sfidi inferni, genocidi e totalitarismi esponendosi a ritorsioni e morte.
 
Stefano Jesurum
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Il problema della comunicazione politica
Il primo discorso pubblico di Mario Draghi come Presidente del Consiglio non è stato accolto con grande entusiasmo dai professionisti della comunicazione e in particolare dai giornalisti. Non che ci fosse l’aspettativa di un intervento dai toni enfatici a cui la comunicazione politica ci ha da tempo abituati.
 
Valentino Baldacci
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Spuntino - Sabato e ordine naturale
Il tabernacolo, della cui costruzione trattano i due brani di Va-Yakhel e Pekudei che leggeremo questa settimana, è come un mondo in miniatura. Il cosmo è stato creato in sei giorni. Il settimo giorno il progetto si arrestò. Così il tabernacolo. Si capisce dunque perchè il piano di costruzione del Mishkan è preceduto dal precetto dello Shabbat (Es. 35:2). 
 
Raphael Barki
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