Il problema della
comunicazione politica

Il primo discorso pubblico di Mario Draghi come Presidente del Consiglio non è stato accolto con grande entusiasmo dai professionisti della comunicazione e in particolare dai giornalisti. Non che ci fosse l’aspettativa di un intervento dai toni enfatici a cui la comunicazione politica ci ha da tempo abituati e nemmeno che il capo del Governo si lasciasse andare a dichiarazioni particolarmente impegnative sul percorso di fuoriuscita dalla pandemia; tuttavia c’era l’attesa per un discorso di taglio persuasivo, qualunque fosse la forma che questo intento di persuasione potesse assumere. Proprio sotto questo profilo l’attesa è andata delusa: le osservazioni critiche sul discorso di Draghi hanno soprattutto messo in rilievo la sua rigidità, addirittura la sua legnosità; ma in realtà questa è stata la firma più soft per dire che da Draghi ci si aspettava qualcosa che ci persuadesse, naturalmente nel senso delle attese generali di una via verso la fine della pandemia.
Quello che molto professionisti della comunicazione sembrano non aver capito è che, a questo punto, dopo un anno dall’inizio della pandemia e con un nuovo trend al rialzo dei contagi, l’unico discorso persuasivo è quello dei numeri e che questo linguaggio non può essere sostituito da nessun altro, anche se ben argomentato. I più accorti tra i commentatori hanno perciò lasciato da parte ogni considerazione sulla forma del discorso di Draghi sottolineando invece l’attendibilità di quanto detto dal presidente del Consiglio rispetto alle molte promesse del passato rimaste senza seguito.
Più in generale il discorso di Draghi ha fatto venire al pettine i nodi legati a una ormai lunga consuetudine alla contaminazione dei generi, in questo caso dei generi comunicativi. La parola contaminazione, che a lungo ha avuto un significato negativo, ha col tempo rovesciato il suo senso, diventando segno di una positiva rottura dei confini che dividevano i generi espressivi. Non c’è dubbio che la contaminazione dei generi qualche risultato positivo l’ha dato, sollecitando una maggiore creatività e una maggiore flessibilità del linguaggio. Al tempo stesso ha però introdotto molta confusione, facendo venir meno alcune distinzioni che permettevano di comprendere fino a che punto un discorso politico si richiamasse a contenuti reali e fino a che punto fosse solo puro esercizio di persuasione, del tutto separato dai contenuti che apparentemente venivano proposti.
La spia di questa crescente confusione è stata data dal progressivo imporsi dei talk show televisivi come forma primaria di comunicazione politica, una mutazione genetica del discorso politico che ha trovato in Italia la sua terra di elezione. Nel talk show il contenuto politico solo apparentemente è ancora al centro della comunicazione. In realtà la forma, anzi il “format”, indica allo spettatore l’atteggiamento che deve assumere nei confronti di questo tipo di comunicazione.
È possibile che, col tempo e con l’effettiva realizzazione di un piano vaccinale efficace, i futuri interventi pubblici di Draghi assumano un più preciso taglio persuasivo. Anche il linguaggio scientifico può essere persuasivo, anzi può esserlo al massimo grado, se si appoggia a dati di fatto verificabili e non a previsioni di un futuro per sua natura incerto. Quello che si può fin d’ora escludere è che, anche nel futuro, Draghi sia disponibile a quella contaminazione di generi a cui si accennava, e di farsi coinvolgere nel palcoscenico di un talk show.

Valentino Baldacci

(11 marzo 2021)