Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui       23 Agosto 2021 - 15 Elul 5781
IL FIGLIO DI SARAH HALIMI A PAGINE EBRAICHE

“Giustizia per mia madre assassinata,
la Francia ha ancora una possibilità"

La speranza che sia la Francia a fare giustizia sul caso di Sarah Halimi non è ancora tramontata. È quanto spiega a Pagine Ebraiche Yonathan, il figlio della donna trucidata dal suo vicino di casa islamico nell’aprile del 2017.
A quattro anni esatti dal barbaro assassinio, la Corte di Cassazione d’Oltralpe si è prodotta in una sentenza che ha suscitato scandalo globale. Per la giustizia francese nessun processo dovrà essere infatti celebrato nei confronti di Kobili Traoré, l’integralista islamico che l’ha prima percossa e poi scaraventata dalla finestra. E questo perché lo si è ritenuto incapace di intendere e volere per via di alcune droghe precedentemente assunte.
Grande è stata la mobilitazione in Francia e nel mondo (Italia compresa). Sull’onda di queste proteste Yonathan si è detto speranzoso su una possibile revisione del fascicolo aprendo allo stesso tempo, in caso contrario, all’ipotesi di un ricorso alla magistratura israeliana. Una strada imboccata con decisione, negli scorsi giorni, dalla zia Esther (la sorella di Sarah). L’obiettivo è quello di far leva su una legge che che permette ai cittadini d’Israele, ed Esther lo è da vari anni, di presentare denunce per crimini antisemiti commessi all’estero.
Una possibilità non esclusa da Yonathan. Ma che per il momento resta in secondo piano rispetto al suo proposito iniziale. “Capisco la scelta di mia zia. Ma io – spiega a Pagine Ebraiche – continuo a sperare che sia la Francia a prendere questa iniziativa”. Pur senza farsi troppe illusioni, Halimi guarda con fiducia all’inchiesta parlamentare in corso a Parigi. “L’omicidio di mia madre – afferma – è stato premeditato. Spero che la politica aiuti la magistratura e la Francia ad aprire gli occhi. Questo canale voglio tenerlo il più possibile aperto: non è ancora il momento di chiuderlo, non adesso almeno”. Yonathan dà alla Francia ancora qualche settimana di tempo: “Aspetteremo almeno settembre, con il ritorno in piena funzione di uffici e personale. Poi faremo le nostre valutazioni”.

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IL VIAGGIO IN ITALIA DEL VETERANO DELL'ESERCITO USA 

Il soldato Adler e l'incontro con i fratelli Naldi:
un commovente abbraccio, 77 anni dopo

“Italia, sto arrivando”. Ha il volto radioso Martin Adler, 97 anni. Accompagnato dalla moglie Elaine e dalla figlia Rachelle realizzerà oggi il suo sogno. Riabbracciare, 77 anni dopo, Bruno, Giuliana e Mafalda Naldi. Tre fratellini salvati e fotografati nell’ottobre del ’44 quando a Monterenzio, nel bolognese, sbucarono all’improvviso fuori da una cesta. Protagonista della Liberazione d’Italia nelle file dell’esercito americano, Adler aveva allora vent’anni. Quel ricordo gioioso, quel fermo immagine immortalato da uno scatto che per i tre fratellini significò ritorno alla vita e alla spensieratezza, non se ne è mai andata via dalla testa.

Nel 2020, con l’aiuto della figlia, ha pubblicato la foto sui social. Una missione: ritrovare Bruno, Giuliana e Mafalda. C’è riuscito grazie all’aiuto di un giornalista reggiano, Matteo Incerti, che ha condiviso l’immagine e si è subito messo sulle tracce dei Naldi. Potenza dei social, ma anche della determinazione di chi ha preso a cuore questa sfida: i Naldi sono stati ritrovati. E hanno potuto salutare Adler, anche se a distanza, con le nuove possibilità offerte dalla tecnologia.
Ne è scaturita la voglia di ritrovarsi anche dal vivo. E così, tra poche ore, sarà. Tra le mani Adler, che è ebreo, e ha combattuto con una Stella di Davide nascosta negli scarponi, si ritroverà anche un libro: I bambini del soldato Martin, appena scritto da Incerti per l’editore Corsiero. 
 

Adler sarà in Italia per circa due settimane con soste a Bologna, nell’Appennino, Roma e Napoli. Tra le tappe nella Capitale, spiega Incerti, una visita al Tempio Maggiore dove giù fu nel ’44, nella città da poco liberata, raccogliendosi in preghiera. Dal quartier generale di Ostia invierà poi, la sera stessa, una cartolina: “Cara mamma, questo è il Tempio di Roma. Sono stato all’interno e, ragazzi miei, era meraviglioso! Con amore Martin”. 

(Nelle immagini: Adler con i fratelli Naldi nell’ottobre del ’44; i tre fratelli in attesa all'aeroporto di Bologna; il veterano dell'esercito Usa in viaggio verso l’Italia assieme alla moglie)

 

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LA PREOCCUPAZIONE DI ISRAELE 

Hamas, la crisi dei consensi
e la ricerca di un nuovo scontro

È ancora in condizioni critiche il ventunenne Barel Hadaria Shmueli, agente della polizia di frontiera israeliana ferito nel fine settimana con un colpo di pistola ravvicinato sul confine con Gaza. “Non sta bene. Abbiamo bisogno di molte preghiere, sto chiedendo e supplicando la gente di pregare che il nostro Barel si rimetta in piedi, torni alla sua famiglia, alla vita” il dolore espresso dalla madre, Nitza Shmueli, in un’intervista radiofonica. L’incidente che ha coinvolto il figlio (nell’immagine) è avvenuto in prossimità della recinzione di sicurezza con l’enclave palestinese, dove si stava svolgendo una manifestazione di Hamas. Un’iniziativa organizzata dal gruppo terroristico palestinese allo scopo riaccendere la tensione con Israele. Secondo i vertici della difesa, scrivono i media locali, il leader di Hamas Yahya Sinwar starebbe infatti pensando a una nuova escalation di violenze, dopo il conflitto di maggio. I terroristi, in calo di consensi a causa della costante crisi di Gaza, vorrebbero puntare sullo scontro con Israele per distogliere l’attenzione. Nel suo arsenale vi sarebbero ancora razzi a sufficienza per una nuova aggressione, come quella compiuta a maggio, con attacchi indiscriminati contro i civili israeliani.

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Gaia Servadio (1938-2021)
Ho parlato di Gaia Servadio con Philip Roth; o meglio, è lui che me ne ha parlato. Ed è quello che Roth mi ha detto di lei che vorrei ora ricordare in suo onore, a pochi giorni dalla scomparsa di questa grande donna. Era la fine di dicembre 2017, mi trovavo a conversare con Roth nel suo appartamento di Manhattan, quando, da me sollecitato a riflettere sui suoi contatti con l’Italia e gli italiani, mi disse della sua grande amicizia con Gaia Servadio, e di come a Londra (ove anche lui viveva allora insieme alla moglie Claire Bloom), quando era giunta la notizie della tragica morte del comune amico Primo Levi, è con Gaia che aveva condiviso quell’enorme dolore.
Ecco le parole di Roth, tratte dalla registrazione della conversazione tra Roth (PR) e me (EM) di quel giorno:
PR: Ho un’altra vecchia amica che è italiana, che viveva a Londra ed è diventata mia amica a Londra. È Gaia Servadio. E siamo cari amici (And we’re dear friends). La conosco da quando viveva a Londra.
EM: E naturalmente l’altro italiano che ha incontrato è Primo Levi.
PR: Sì, ho incontrato Primo, sì.
EM: Mi ha commosso quello che lei dice nella sua nuova introduzione alla raccolta dei saggi del 2017, Perché scrivere?, quando parla dell’effetto drammatico della notizia del suo suicidio, della incapacità di comprendere.
PR: Ricordo quel giorno, perché fui terribilmente scosso (devastated) dalla notizia come molti e andai a vedere Gaia e trascorsi parte della giornata con lei, perché anche lei era terribilmente scossa. Primo non era così noto allora, in Inghilterra.

La riflessione su Primo Levi era poi continuata, punteggiata dal commento di Roth: “Abbiamo avuto [Primo ed io] un incontro meraviglioso, e poi…” (We had a wonderful meeting, and then…).
La mia conversazione con Roth è uscita in forma completa in “Philip Roth Studies” (Elèna Mortara, “Philip Roth, December 2017: A Meeting and an Interview,” Philip Roth Studies, vol. 15, no. 1, Spring 2019, pp. 3-26). Questo ne è uno stralcio, selezionato per onorare la memoria di Gaia Servadio e di questo gruppo di grandi amici ora scomparsi.
Elèna Mortara
Kabul ci riguarda
Ieri: un ebreo arrestato dai nazisti il 16 ottobre 1943 con la moglie, la figlioletta e un nipotino che era rimasto a dormire da lui, passa sul camion davanti alla casa del bambino. Vede il portiere, uno sguardo veloce corre fra i due, il bambino vola dal camion fra le braccia del portiere. Il nazista sul camion era distratto, sente lo postamento d’aria, si volta ma tutto è già finito. Lo stesso giorno, in via Portico d’Ottavia, una giovane donna che scende le scale spinta dai fucili tedeschi mette il suo bambino fra le braccia di una donna non ebrea. Anche lì è un attimo. Tutti e due i bambini si salveranno.
Oggi: vediamo i bambini passati o lanciati a Kabul oltre il filo spinato, nella speranza che possano essere portati in salvo dai militari in partenza. Non sappiamo se si salveranno.
Non è la stessa situazione, certo, ma ci assomiglia molto. E in un’altra cosa le assomiglia. Sul fatto che ci riguarda tutti.
Anna Foa
Oltremare - Assuefazione
La prima volta era ancora inverno, mi son dovuta vestire apposta per l’evento, pensando a come scoprire la spalla in fretta e senza togliere troppi strati perché chissà che freddo poteva fare nel palazzetto dello sport adibito. E a posteriori ho fatto bene: il palazzetto era in effetti gelido, per un accumularsi di ragioni sanitarie e di abitudine israeliana a inverni brevi nei quali il riscaldamento è una cosa ignota o inutilmente consumista, e quindi mentre fuori il sole scalda anche in pieno febbraio, negli interni si gela senza riuscire a scaldarsi mai. Fuori, stendardi lunghi parecchi metri a segnalare con orgoglio che lì ci si vaccinava, con tanto di slogan e loghi cubitali. La prima volta, eravamo tutti un po’ tesi, c’erano posti in cui a cose fatte si riceveva un caffè caldo, un triangolo di pizza, una scodella di cholent, o una porzione di knafe, a seconda di dove ci si trovava, se a Tel Aviv nord, Tel Aviv sud, Bnei Berak oppure a Jafo. C’erano gran file ordinate e molte postazioni cui esser chiamati secondo l’ordine di arrivo.
Daniela Fubini
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Storie di Libia – Jack Arbib
Jack Arbib, ebreo di Libia nato a Tripoli nel 1939. Nel 1940 la famiglia aveva dovuto lasciare la Libia rifugiandosi a Tunisi, scampando così all’arresto e alla deportazione nei campi di concentramento in Italia e poi, come sappiamo, a Bergen Belsen. Erano poi rientrati in Libia, a Tripoli, nel 1945. Gli Arbib avevano una società familiare di import-export e proprietà immobiliari. Abitavano in un palazzetto sul Corso Vittorio Emanuele, il corso principale di Tripoli, costruito dal nonno Jacob quando la famiglia si era spostata dalla casa nella Hara al nuovo centro italiano. 
David Gerbi
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