Storie di Libia – Jack Arbib

Jack Arbib, ebreo di Libia nato a Tripoli nel 1939.
Nel 1940 la famiglia aveva dovuto lasciare la Libia rifugiandosi a Tunisi, scampando così all’arresto e alla deportazione nei campi di concentramento in Italia e poi, come sappiamo, a Bergen Belsen. Erano poi rientrati in Libia, a Tripoli, nel 1945. Gli Arbib avevano una società familiare di import-export e proprietà immobiliari. Abitavano in un palazzetto sul Corso Vittorio Emanuele, il corso principale di Tripoli, costruito dal nonno Jacob quando la famiglia si era spostata dalla casa nella Hara al nuovo centro italiano: in quella casa era nato Jack e la madre avrebbe abitato fino al 1967.
La vita di Jack a Tripoli tra il 1945 e 1958 era stata piuttosto agiata. Dopo una iniziale esperienza alla scuola inglese era passato alle scuole italiane fino alla maturità liceale. Nel 1958 si era trasferito a Milano per frequentare l’università, e in Libia tornava solo per passare con la famiglia le vacanze estive, l’ultima volta nel 1965. La famiglia era tradizionale-liberale (oggi si direbbe datì-lite) e discendente da Angelo Mordehai Bibi Arbib (fondatore della sinagoga Dar Bibi e capo della Hevrat Kadisha). Il cibo a casa era casher con qualche libertà d’espressione. Lui ricorda con orrore alcune scene del pogrom del 1948 ma non le racconta. I rapporti con gli arabi erano da una parte regolati nel segno di una posizione di forza con i dipendenti, ma anche di umile sottomissione rispetto alle angherie dei nuovi governanti. Gli ebrei non avevano nessun tipo di partecipazione nella conduzione del paese.
Jack ci racconta di essersi spesso dedicato a iniziative di ricerca e conservazione della memoria comunitaria. Ritiene che i suoi figli e i nipoti appartengano a una altra storia privilegiata, nati in piena libertà di scelta ed espressione, e naturalmente non riescono a figurarsi le costrizioni che hanno condizionato le generazioni precedenti. Certo, apprezzano aneddoti e lessico familiare e certi sapori, così come le foto sfocate che appartengono a un tempo a loro non noto.
E ci dice di non essere rimasto traumatizzato non avendo vissuto l’esperienza e l’umiliazione del 1967. Si era allontanato fisicamente e mentalmente nel 1958. Ricorda bene l’arrivo a Milano, il primo respiro d’aria libera e la consapevolezza che non sarebbe più tornato a vivere in Libia.
Non ha nostalgia, non ha dovuto elaborare dolore e non ha nessuna intenzione di tornare a una realtà che non esiste più.
Ritiene che le tradizioni debbano essere preservate e tramandate da tutti e nella misura di ognuno. Questo perché la meravigliosa narrativa del ciclo della nostra etnia, ormai concluso irreversibilmente, deve essere passata mi dor le dor.
La sua famiglia proveniente dalla Libia è ora dispersa in Europa, Stati Uniti, Medio Oriente. Jack dal 1967 vive in Israele con i suoi figli e nipoti. Considera questa l’unica scelta logica ed emotiva. Capisce il bisogno di sopravvivere e dare da mangiare ai figli, ma crede che il miglior dono da fare ai figli sia di permettere loro la partecipazione a uno dei più importanti progetti mondiali di costruzione nazionale e personale (sul posto e non via zoom). Così non rivivranno i traumi identitari dei loro genitori.
La macchina della storia non ha la marcia indietro, asserisce. Purtroppo nei tempi che abbiamo attraversato gli ebrei sono stati testimoni (e vittime) di pulizie etniche, di ingiustizie, di razzie di beni materiali e morali, nei maggiori dei casi irreparabili. La sua famiglia ha perso beni immobiliari ma questo è meno doloroso della perdita delle tombe dei Padri e delle Madri che avevano voluto essere sepolti nella terra in cui erano nati.
La Sinagoga Dar Bishi, soggetto su cui Jack ha fatto ricerca e pubblicato in passato, non gli sembra adatta a essere eletta a testimone della millenaria presenza degli ebrei in Libia in quanto in realtà testimone della colonizzazione italo-fascista piuttosto che autentica espressione dell’ebraismo libico. Anche se dal punto di vista architettonico la considera interessante e di suo gusto, ricorda che ha fatto parte del disegno coloniale di romanizzare gli “straccioni ebrei” della Hara. Quindi non vede la necessità di totemizzarla.
Sempre sul piano d’utopia, ci dice che allora c’è ancora in piedi la Slat Kebira, da lui considerata vera espressione genuina del nostro popolo e questa dovrebbe essere l’obiettivo di preservazione se fosse attuabile parlarne con il governo libico.
Non era al corrente dei cimiteri di Giado e Homs. Se recuperabili, considera questa una battaglia giusta e ci dice che l’ebraismo non venera le pietre ma rispetta le persone vive o morte.
Alla domanda se ritene opportuna la costruzione di un monumento in ricordo delle vittime dei pogrom e della Shoah in Libia ritiene che potrebbe essere considerata solo dopo una valida espressione di rincrescimento dai poteri libici attuali.
Conclude dicendo che la cultura ebraica tripolina ha custodito con tenacia e umiltà la propria coesione in situazioni ambientali estremamente ostili e minacciosi.
Jack lamenta le catalogazioni imprecise molto in uso in cui gli ebrei di Libia vengono definiti sefardim, perchè a parte un pugno di belle famiglie provenienti dalla Spagna via Impero ottomano, nessun altro degli ebrei di Libia aveva radici o linguaggio d’impronta sefardita. Ci dice inoltre che definirci mizrahim sia una sciocchezza. Basta aprire un atlante per rendersi conto che Tripoli è a occidente di Trieste, Bari e certo di Vienna, Budapest e Varsavia. Per capirci, Tripoli si trova quasi sul meridiano di San Marino. Questo non lo sanno al nuovo Museo ANU appena aperto a Tel Aviv. Gli ebrei libici sono i discendenti di gruppi tribali semiti migrati dalla Giudea, che come altre etnie berbere e amazigh hanno resistito all’Islam allontandosi dalla fascia costiera mantenendo per secoli fede e tradizioni. Un esempio di resilienza ineguagliato.
“Se il puzzo delle capre di noi beduini disturba qualcuno, allora una bella definizione è quella di Herbert Pagani che ci chiamava ‘Gli ebrei del sole'”.

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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)

David Gerbi, psicoanalista junghiano