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PAGINE EBRAICHE - L'INTERVISTA ALL'AMBASCIATORE OREN DAVID 

"Tra Israele e Santa Sede il dialogo è positivo:
un percorso ormai consolidato"

Si avvia alla conclusione il mandato di Oren David, ambasciatore d’Israele presso la Santa Sede.
Cinque anni di intenso lavoro ripercorsi in questa intervista con Pagine Ebraiche.
Il diplomatico traccia un bilancio positivo della sua esperienza, esprimendo l’auspicio che tra i due Paesi prosegua la “via del dialogo e dell’ascolto”. Un percorso che David definisce “consolidato”. 

Ambasciatore David, si conclude in questi giorni il suo mandato. Che bilancio si sente di fare di questa esperienza?
Ho avuto il privilegio di rappresentare Israele presso la Santa Sede per cinque anni: si tratta di una posizione unica in quanto in questo contesto religione e politica si intrecciano. È stata un’esperienza positiva in quanto ho avuto la possibilità di incontrare molti esponenti del mondo cattolico sia all’interno della curia che al di fuori. Ho presentato loro Israele come il paese della Bibbia, ma anche come un paese moderno in cui sono garantiti tutti i diritti fondamentali a tutti i suoi cittadini, compresa la libertà di culto e religione. Nei colloqui che ho avuto ho sempre trovato grande interesse verso Israele. Sono anche contento di aver avuto l’opportunità di organizzare l’incontro tra il Presidente Rivlin e Papa Francesco nel novembre del 2018 e, successivamente, due conversazioni telefoniche tra loro durante la pandemia.

A che punto ci troviamo nelle relazioni tra Israele e Santa Sede? Quali le sfide più significative che restano da affrontare?  
Dobbiamo proseguire sulla via del dialogo e dell’ascolto, un percorso ormai ben tracciato e consolidato. La sfida più grande rimane sempre quella di far capire le circostanze uniche in cui si trova Israele e le difficoltà che è costretto ad affrontare. È importante che la Chiesa continui a diffondere il messaggio della dichiarazione Nostra Aetate in tutti i paesi del mondo e a tutti i livelli. Nel corso dei miei incontri con i vescovi italiani nelle loro diocesi non perdo mai l’occasione di sottolineare la radice ebraica del cristianesimo, una verità che dovrebbe essere trasmessa a tutti i credenti. Bisogna togliere ogni pretesto a coloro che vorrebbero negare ad Israele il diritto di esistere. Dovrebbero essere diffuse anche le parole di Papa Francesco pronunciate in occasione del cinquantesimo anniversario della Nostra Aetate ad una delegazione del World Jewish Congress: “Attaccare gli ebrei è antisemitismo così come lo è anche delegittimare apertamente lo Stato d’Israele che ha il diritto di esistere in sicurezza e prosperità.

Quali pensa siano i risultati più importanti raggiunti sotto il suo mandato? 
L’aver approfondito il dialogo con tutto il mondo cattolico sui temi dell’antisemitismo, tanto che la Comunità di Sant’Egidio ha aderito alla definizione dell’International Holocaust Remembrance Alliance. L’atto è stato formalizzato con una firma, apposta il 12 luglio 2021 presso la mia residenza.
Inoltre, sui nostri canali social, in occasione del cinquantacinquesimo anniversario della dichiarazione Nostra Aetate, la nostra ambasciata ha lanciato una campagna mediatica intitolata #StopAntiSemitism. Abbiamo chiesto a molti esponenti del mondo cattolico di partecipare con loro messaggi. La campagna, partita lo scorso 27 gennaio nel Giorno della Memoria, sarebbe dovuta terminare l’8 aprile, il giorno in cui si celebra in Israele Yom HaShoah. Si è dovuta prolungare sino a maggio per la forte partecipazione. Tra i messaggi ricevuti ricordo quello di monsignor Gallagher, il ministro degli Esteri del Vaticano, che dimostra la positività delle nostre relazioni.

C’è qualcosa che le dispiace di non aver conseguito? 
Gli ultimi anni sono stati molto difficili a causa della pandemia che ci ha colpiti tutti così duramente. Avrei voluto portare più delegazioni in Israele a vedere con i loro occhi la realtà del paese, oltre a quelle degli insegnanti cattolici facenti parte dell’Associazione UMEC e quella dei rettori delle Pontificie Università. 

In una recente dichiarazione che ha suscitato sconcerto nel mondo ebraico il papa ha lasciato intendere di considerare la Torah qualcosa di obsoleto. Cosa pensa di questo episodio? 
Non sono un teologo, quindi non vorrei addentrarmi troppo in questo argomento, ma quello che ho visto è che la Chiesa è pronta all’ascolto di quanto viene espresso dal mondo ebraico. Non c’è una chiusura pregiudiziale. Anche in questa circostanza si è visto come ebrei e cattolici riescano comunque a proseguire lungo la via del dialogo.

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FESTA DEL LIBRO EBRAICO - LA CONCLUSIONE CON PIPERNO E NEVO

"La scrittura, un rifugio felice"

Una riflessione su quali siano i nostri perimetri identitari, su cosa chiamiamo casa e cosa famiglia ha fatto da conclusione alla XII edizione della Festa del Libro ebraico di Ferrara. A dialogare su questi temi, due delle firme più importanti della letteratura italiana e israeliana, Alessandro Piperno ed Eshkol Nevo. Ospiti della rassegna del Museo Nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah (Meis), rispondendo alle domande della direttrice del Circolo dei Lettori di Torino Elena Loewenthal, i due autori hanno svelato al pubblico alcuni elementi del loro essere scrittori e del proprio rapporto con la casa, tema di quest’anno della Festa. “Se parliamo di casa, posso dire di essere molto contento di essere qui – ha sottolineato in apertura Nevo – L’Italia è diventata appunto la mia seconda casa e ne sentivo la mancanza. Il fatto di essere tornato, dopo così tanti mesi di distanza obbligata, potrebbe essere il segno che siamo tornati a vivere”. Tornati a una normalità che si respirava nel corso della rassegna ferrarese, con incontri in presenza e un grande seguito di pubblico. “Dopo un anno e mezzo assolutamente terribile, questa Festa del Libro ebraico, in coincidenza con Sukkot, è stata realmente una vesta, un momento di gioia e ripartenza”, le parole del presidente del Meis Dario Disegni. Un periodo difficile in cui però sia Piperno sia Nevo spiegano di aver avuto la fortuna di potersi rifugiare nella scrittura. “Non so se sono felice quando scrivo, ma sono sicuramente perso quando non lo faccio. Io ho affrontato tre lockdown, immerso nella scrittura e ho finito un romanzo. Nel mentre, come un effetto domino, i miei amici, quelli raccontati nella Simmetria dei desideri, soffrivano, perdevano il lavoro, divorziavano”. La scrittura, ha aggiunto ancora l’autore di Tre piani (libro da cui Nanni Moretti ha tratto l’omonimo film, uscito ora nelle sale), è per lui un rifugio, un luogo dove interpretare il caos della vita moderna. Per Piperno invece è proprio il luogo della felicità. “Una felicità antitetica a quella che di solito cercano i miei personaggi, che vogliono emancipazione, successo, sesso. Non che io non li ricerchi, ma per me da molti anni la felicità è lavorare. È stata una lenta e dolorosa conclusione: riuscire a scrivere con la libertà e la spregiudicatezza conquistata a 50 anni” la riflessione di Piperno, il cui ultimo romanzo, Di chi è la colpa, sta ricevendo un ottimo riscontro di critica e pubblico. “La scrittura – ha aggiunto – è il solo luogo in cui non sono un noioso e banale borghese, assolutamente rispettoso delle regole, che rispetta la diversità, il padre e la madre”.

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VERSO LA GIORNATA EUROPEA DELLA CULTURA EBRAICA

Il Dialogo e la giusta comunicazione

Per entrare in un dialogo vero e creativo con l’altro, bisogna innanzitutto saper dialogare con se stessi. Bisogna entrare in rapporto con il “tu”, con la nostra totalità, e non solo con una parte di noi, rimuovendo questo aspetto o quell’aspetto che può essere scomodo. Allo stesso tempo, bisogna ascoltare l’altro nella sua propria totalità diversa, accettandolo secondo la sua stessa autodefinizione.
Il dialogo può essere creativo soltanto nella misura in cui ognuna delle due parti sia profondamente radicata nella propria specifica identità, altrimenti può trasformarsi in un facile modo di risolvere le proprie problematiche irrisolte, scivolando in una pseudosoluzione che non solo non è di aiuto alla crescita ma può anzi essere la vera pietra tombale di un incontro. Ed è proprio la Bibbia che ci insegna come una società in cui non si comunica sia destinata alla distruzione. Nella storia della torre di Babele gli uomini tentano di raggiungere il cielo elevandosi verticalmente: saranno puniti con la confusione delle lingue. Mi sembra che i motivi del fallimento di una società come quella della torre di Babele vadano ricercati nel fatto che, secondo il racconto biblico (Genesi,11;1), in quella società non solo tutti parlavano la stessa lingua, ma usavano anche le stesse espressioni. E una società in cui non c’è diversità di espressione e di opinione è una società privata della possibilità di comunicare, una società che afferma l’omologazione, il totalitarismo delle idee; una società in cui non c’è spazio per il confronto. Appare quindi ovvio che una tale società aspiri a crescere verticalmente producendo modelli di dominio e di prevaricazione dell’uomo sull’uomo.
Con Abramo, la cultura ebraica diventa l’antitesi della cultura della torre di Babele, ponendosi come cultura della diversità e dell’alterità attraverso quel modello di orizzontalità che è la dialettica. E non è un caso che il primo vero dialogo, nella Bibbia, sia quello di Abramo e sua moglie Sara: “…so bene che tu sei donna di bell’aspetto…” (Genesi,12; 11). Il dialogo inizia in famiglia, con l’unione matrimoniale, e anche in questo Abramo è il primo monoteista, poiché intuisce che l’unicità di Dio è una ricerca che si afferma non attraverso la verticalità dell’elevazione, ma grazie all’orizzontalità del dialogo.

Rav Roberto Della Rocca,
rabbino e direttore dell’Area Cultura e Formazione UCEI

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L'INCONTRO ALLA FONDAZIONE MUSEO DELLA SHOAH

Le sorelle Bucci: "I giovani, la nostra forza"

Dalla primavera scorsa “Radici future” rappresenta uno dei fiori all’occhiello del programma didattico-formativo della Fondazione Museo della Shoah di Roma. Un corso di buone pratiche sulla Memoria per giovani espressione di vari ambienti e realtà – dal Comune alla scuola ebraica, dall’Ugei al Pitigliani – che è in realtà qualcosa di ancora più grande. Si tratta infatti di un vero e proprio percorso di crescita, finalizzato a una “restituzione” di quanto appreso con il contributo di docenti e tutor attraverso un’esperienza di lavoro da guida volontaria alla Casina dei Vallati dove la Fondazione ha sede e dove è oggi allestita la mostra “Dall’Italia ad Auschwitz”
“Da sempre il nostro obiettivo è quello di coinvolgere i giovani in modo concreto. Un’operazione culturale di ampio respiro che passa attraverso vari progetti e impegni. L’idea è che le iniziative che proponiamo debbano portare a risultati tangibili. Che a parlare siano i fatti” raccontava Mario Venezia, il presidente della Fondazione, in occasione del lancio del corso.
Nel segno del passaggio di Testimone in atto tra generazioni, il progetto ha vissuto oggi una giornata particolarmente significativa. A confrontarsi con i ragazzi sono state infatti le sorelle fiumane Andra e Tatiana Bucci, tra le ultime Testimoni della Shoah ancora in vita. Un incontro toccante, incentrato sulla loro drammatica vicenda ma anche sulla sfida del ricordo consapevole in una società in trasformazione, sulle sue prospettive, i suoi codici e linguaggi. Il tutto a poche ore dalla visita al Quirinale, dal loro incontro privato con il Capo dello Stato Sergio Mattarella segnato dalla richiesta che l’Italia proceda con ancora maggior forza e intensità “nel fare i conti con il passato”. A dar loro il benvenuto, oltre ai ragazzi di Radici future e ad alcuni studenti del liceo ebraico Renzo Levi, il presidente Venezia, l’assessore ai Giovani UCEI Livia Ottolenghi e l’assessore comunitario alla Memoria Massimo Finzi. “Tutto quello che facciamo – hanno detto le sorelle Bucci rivolte ai giovani presenti – è per voi. Percepiamo la vostra vicinanza, il vostro affetto. Ci date forza. Per noi siete dei nipoti acquisiti”.

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L'APPROFONDIMENTO DI RADIO 24 CON PAGINE EBRAICHE

Israele, i Paesi arabi e le tortuose vie dello sport

“Anachnu al hamapa, ve’anahnu nisharim al hamapa! – Siamo sulla mappa e ci resteremo”. L’iconica frase del giocatore del Maccabi Tel Aviv Tal Brody, che ribadiva al mondo nel 1977 che Israele è sulla mappa e ci resterà, dà il titolo all’ultima puntata di Olympia, il programma di Radio 24 in cui il giornalista Dario Ricci racconta, con l’aiuto di ospiti e testimonianze, grandi storie sportive e non solo. Nell’ultimo episodio è dunque Israele ad essere protagonista, con Ricci che dialoga con il giornalista della redazione UCEI Daniel Reichel sul tema del riconoscimento dello Stato ebraico nello sport. Un colloquio a due voci che prende il via da quanto accaduto alle ultime Olimpiadi. A Tokyo infatti due judoka, uno algerino e uno sudanese, si sono ritirati pur di evitare di confrontarsi con un avversario israeliano. Un gesto antisportivo, raccontato nella puntata, che ha avuto da contraltare il significativo abbraccio sul tatami tra altre due judoka, una israeliana e una saudita. “Gesti contraddittori ed emblematici, che ci ricordano come lo sport, nell’infuocato Medio Oriente, può essere al tempo stesso ponte e barriera”, la riflessione condivisa da Ricci e Reichel. Un’occasione anche per ricordare come l’anniversario degli Accordi di Abramo tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein abbia aperto a nuove possibilità anche nello sport.

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Il re e la storia riscritta
Nel clima generale di rivalutazione del fascismo (in barba alla Costituzione e alla legge Scelba) e della monarchia di Vittorio Emanuele III, un lungo articolo di Aldo Alessandro Mola su Il Giornale cerca di lavare il re, ed implicitamente il regime fascista, dalle sue colpe. In quest’operazione di sbianchettamento, Mola se ne esce con l’affermazione che le leggi razziste mirassero, in realtà, non a colpire gli ebrei italiani e a farne dei cittadini di serie B, come avevamo sempre ingenuamente creduto, ma ad isolare il sovrano. Interessante, non sapevo che i Savoia avessero ascendenze ebraiche. 
Anna Foa
Oltremare - Capanne
Niente di più adatto ai tempi che viviamo, questa settimana di Succot nella quale dobbiamo tutti adattarci ad abitazioni temporanee e ben poco stabili – anche quando si tratta solo di mangiarci dentro. Un bell’aiuto a questa già forte sensazione di caducità lo dà poi quasi ogni anno il primo acquazzone, accompagnato da vento forte, che scoperchia con facilità le capanne costruite con ottime intenzioni ma spesso con poca maestria e materiali di pessima qualità.
 
Daniela Fubini
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Storie di Libia - Regina Bublil Waldman
Regina Bublil Waldman, ebrea di Libia. La sua famiglia era tradizionalista ma non troppo osservante. È molto attiva nel raccontare la storia degli ebrei di Libia, Iran e dei paesi arabi. Ha combattuto per i diritti degli ebrei di Russia e più volte è stata arrestata per la sua disobbedienza civile. 
 
David Gerbi
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