Storie di Libia
Regina Bublil Waldman

Regina Bublil Waldman, ebrea di Libia. La sua famiglia era tradizionalista ma non troppo osservante. Il padre spesso al sabato si recava a pescare. È molto attiva nel raccontare la storia degli ebrei di Libia, Iran e dei paesi arabi. Ha combattuto per i diritti degli ebrei di Russia e più volte è stata arrestata per la sua disobbedienza civile. Sostiene come la storia di uno sia equivalente alla storia di un milione, e così infatti Spielberg ha con successo raccontato la Shoah e suscitato la sensibilità dell’opinione pubblica. Una testimonianza è qualcosa di vero, se raccontata e divulgata suscita una reazione.
In tutti i paesi arabi gli ebrei sono stati considerati dhimmi e pur non essendo presenti nel Corano queste leggi i governi avevano implementato la Dhimmitud secondo la quale gli ebrei dovevano pagare tasse per poter essere ebrei ed evitare di essere uccisi. Le sinagoghe dovevano essere sempre più basse delle moschee e non era possibile per un ebreo camminare a cavallo per evitare di trovarsi in una posizione superiore ai musulmani. Sin da ragazza aveva capito che voleva studiare e che in Libia il suo destino sarebbe stato di sposarsi con un giovane di Tripoli e non poter avere una carriera professionale. Per ottenere di poter studiare all’estero aveva fatto lo sciopero della fame per cinque giorni e alla fine il padre aveva ceduto. Nel 1960 aveva assistito all’incontro tra la madre e la nonna dopo 15 anni di separazione: la nonna di Regina si era trasferita in Israele e per comunicare scrivevano lettere che venivano reimbustate e rispedite dall’Italia per non far vedere dove fossero dirette. Questo incontro la turbò molto: vide la madre e la nonna piangere in continuazione; la nonna cercava di convincere la madre ad andare in Israele perché in Libia non c’era futuro, ma invano. Il padre di Regina non l’avrebbe mai seguita e lei non voleva lasciarlo.
Questo la rese ancora più determinata ad intraprendere gli studi all’estero. Così a soli 14 anni si recò in Svizzera a studiare, con la madre raccomandatasi di non dire a nessuno che fosse ebrea convinta che ciò potesse essere causa di problemi. Arrivata in aeroporto una guardia non voleva accettare di farla entrare nel paese con solo un travel document e così rischiò di essere rimandata con lo stesso aereo a casa. In lacrime si rivolse a questa gridando che non aveva il passaporto perché era ebrea! La guardia ebbe uno scossone e resasi conto della situazione senza indugi timbrò il documento e le disse: “Benvenuta in Svizzera!”. Questo dimostra come il nostro peggior nemico sia il silenzio. Se avesse taciuto per ubbidire al consiglio della madre sarebbe tornata a Tripoli e avrebbe rinunciato al suo sogno di avere un futuro da donna libera ed emancipata. Fu così che Regina si aprì al mondo. Dopo due anni fece ritorno a Tripoli. Non si sentiva a suo agio e ottenne di andare a Londra a studiare. Ogni volta che rientrava a Tripoli, come durante le vacanze scolastiche, si rendeva conto che con i giovani della comunità tripolina non aveva alcuna compatibilità. Era palese che le donne tripoline non fossero emancipate rispetto a quelle europee. Nel giugno del 1967 si trovava a Tripoli per l’estate e aveva trovato un impiego da ingegneri inglesi come segretaria bilingue. All’improvviso l’autista arabo che normalmente la passava a prendere la mattina irruppe urlandole contro che stavano uccidendo i suoi fratelli in Palestina. Il suo capo le spiegò che nella guerra gli israeliani stavano avendo la meglio. La famiglia di Regina non possedeva un telefono, ma tramite un vicino egiziano fu avvisata di non poter tornare a casa perché un gruppo di arabi stava per dar fuoco alla loro abitazione con la benzina. Regina raccontò tutto al suo capo: lui la nascose in casa sua e per giorni la portò al lavoro nascondendone la presenza. Con gli altri colleghi cercò inoltre di organizzare una fuga alla sua famiglia.
Non poteva rientrare in casa perché erano tutti nascosti in silenzio e l’egiziano aveva mandato via i dimostranti convincendoli a non bruciare la casa perché ci abitava pure lui con la sua famiglia; li aveva convinti che gli ebrei fossero andati via. Solo che ad un certo punto l’egiziano fu scoperto e ricattato affinché non potesse più nasconderli. Così gli ingegneri inglesi procurarono sette posti aerei alla sua famiglia. Un ufficiale arrivò per timbrare i loro passaporti e il padre lo pagò per avere dei soldati che potessero scortarli. Salirono sul camion con i soldati, ma questi li scaricarono davanti ad un hotel. La famiglia di Regina scorse un autobus e ci salirono. Quando furono in mezzo al deserto l’autobus si fermò e Regina vide il controllore parlare con l’autista sottovoce. Si allarmò. Tutta la sua famiglia era in preda al panico e nessuno osava muoversi. Voleva cercare aiuto così si diresse verso un benzinaio passando davanti a un gruppo di giovani che ascoltavano Nasser che abdicava alla radio. Decise di muoversi con calma e si rivolse al benzinaio in inglese chiedendo di poter telefonare e vide il controllore dell’autobus che telefonava. Velocemente strappò la cornetta dalle sue mani e chiamò il suo capo dicendogli che era in pericolo, spiegandogli dove si trovassero. Riuscì a svicolare da quella situazione pericolosa e tornò all’autobus. Mentre si avvicinava si rendeva conto che l’autista aveva scaricato la benzina a terra e così cominciò a tenere d’occhio il controllore pronta a fermarlo se avesse tentato di accendere i fiammiferi. Finalmente arrivarono le jeep degli inglesi e li caricarono tutti per portarli in aeroporto, traendoli in salvo da quella situazione terribile. Saliti in aereo lei contò rapidamente i familiari e si accorse che lo zio non era presente. Fermò l’aereo prima che iniziasse il decollo e trovò lo zio circondato da arabi che lo accusavano che il suo popolo stesse uccidendo i fratelli in Palestina. Regina gridando lo afferrò e trascinò via e risalì con lui sull’aereo che li portò a Malta, dove il pilota aveva richiamato infermieri e ambulanze convinto che avessero subito violenze. La famiglia rifiutò l’assistenza per evitare che la risonanza dell’evento potesse nuocere a chi era ancora a Tripoli. Dopo due anni si trasferirono negli Stati Uniti. Evidentemente fu D.O a guidare il suo istinto e a donarle coraggio e senso pratico.
Regina trasmette a figli e nipoti le cose belle legate alla Libia come l’ospitalità, l’amore per la comunità e la cucina tripolina. Considera l’odio una vera e propria arma di distruzione di massa e ha perdonato il popolo che ha causato tanto dolore alla sua gente. Ha un gruppo su Facebook in cui ha raccontato agli arabi quello che hanno dovuto subire come ebrei per mano di altri arabi che li odiavano. Solo con la testimonianza si può sapere cosa è successo ed evitare che succeda ancora. Va insegnato a non odiare.
Regina crede che sia stata una vera fortuna essere espulsi e si sente a casa negli Stati Uniti dove vive e anche in Italia. Vorrebbe che gli Stati Uniti si muovessero per salvare i siti storici che sono un bene di tutti. Lei è sempre stata un’attivista e dice che solo le domande pubbliche possono impedire ai governi di fare quello che vogliono! Tre volte è stata addirittura arrestata per disobbedienza civile, ma è convinta che l’attivismo sia l’unica strada per far svegliare l’opinione pubblica. Un attivismo senza violenza come insegna Ghandi, per educare le persone. Se nessuno fa niente e le persone per bene restano in silenzio alcuni potranno fare del male e sopraffare i deboli. La sua mission è cercare la giustizia ed essere la voce per le persone che non hanno voce.

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(Per contattare l’autore, anche per eventuali testimonianze sulle storie e le memorie degli ebrei di Libia, è possibile scrivere a: davidgerbi26@gmail.com)

David Gerbi, psicoanalista junghiano

(27 settembre 2021)