LO SPECIALE DI PAGINE EBRAICHE SUL DOCUMENTARIO DEL REGISTA KEN BURNS
La Shoah e l’America
Trovare un’altra chiave per raccontare la Shoah può sembrare una sfida impossibile. Invece il nuovo fluviale documentario “The US and the Holocaust”, firmato da uno dei registi più popolari degli Stati Uniti, Ken Burns, riesce nell’impresa rileggendo quel periodo alla luce della storia americana.
Salutato dalla critica come uno dei progetti più vitali e necessari del filmaker, il lavoro chiama in causa il ruolo dell’intero Paese – dalla politica al mondo della cultura all’opinione pubblica – nella tragedia che si va consumando oltreoceano. “Non abbiamo mai fatto un film più importante”, ha detto il regista. E mentre scorrono i titoli di coda e la tristezza si mescola alla rabbia non si può che dargli ragione. La scelta di campo è esplicita fin dalle immagini d’apertura. Siamo a Francoforte, in un pomeriggio del 1933. Otto Frank e la sua famiglia passeggiano nelle vie del centro: l’orrore che presto li inghiottirà è difficile da immaginare. La situazione però precipita alla svelta. I Frank devono trasferirsi ad Amsterdam. E lì, come tanti altri, scoprono che il loro piano di raggiungere gli Stati Uniti è votato al fallimento. “La maggior parte degli americani non vuole lasciarli entrare”, precisa secco il documentario anticipando quello che sarà uno dei temi portanti.
L’intero lavoro (sei ore in tre puntate) ruota attorno alla prospettiva dei perseguitati che il regista ricostruisce attraverso documenti, foto e girati d’epoca, interviste a sopravvissuti, storici ed esperti. Le domande a cui cerca risposta sono semplici e al tempo stesso terribili – come ci si è resi conto che la minaccia stava diventando una micidiale realtà, cosa significa aver patito quell’atrocità, com’è stato possibile salvarsi e poi ricostruire?
I testimoni sono uomini e donne ormai in età. Fra loro, Sol Messinger, Susan e Joseph Hilsenrath e Gunther Stern, che hanno trovato rifugio negli Stati Uniti da bambini o adolescenti ma non hanno mai dimenticato la brutalità degli attacchi antisemiti, il dolore dei genitori, le morti dei familiari rimasti oltreoceano. Sono vicende, le loro, che a un pubblico americano possono suonare distanti nel tempo e nello spazio finché inserite in un più ampio contesto si mostrano per quel che sono - parte integrante della storia d’America.
La Shoah, ormai centrale nella coscienza statunitense, viene così sottratta alla retorica della commemorazione e alle banalizzazioni della cultura pop per assumere un volto assai diverso. Non è più un genocidio consumatosi nella lontana Europa dove gli americani hanno rivestito l’esclusiva parte dei salvatori, ma implica un carico pesante di responsabilità che interpellano l’intera nazione.
Confessa l’autore: “Sei milioni di vittime, esseri umani a cui è stata tolta la vita. Ho un imbarazzo terribile nel voler affrontare per l’ennesima volta questo tema. C’è qualcosa che rasenta il morboso, anzi l’osceno. Ridurre l’immensità del male prodotto dalla Shoah a dei numeri è orribile. La gente probabilmente sa, ma non comprende fino in fondo la specificità di quel numero”. Quei sei milioni, ricorda d’altronde, erano persone fisiche, individui diversi, ognuno di essi “con un vissuto assolutamente particolare, forse simile ad altri ma intimamente irripetibile, assolutamente proprio”.
Il nuovo libro di Davide Romanin Jacur, chiosa nella sua introduzione Mario Isnenghi, è un manuale e una guida “in lotta con l’orrore”. Uno strumento prezioso per dare forza a quell’impegno di Memoria viva cui anche le istituzioni dell’ebraismo italiano sono chiamate. KZ2 (ed. Ronzani) si pone in continuità – già nel titolo – con la precedente opera KZ lager. Se il primo saggio era volto a rappresentare la sua esperienza di visitatore di campi di concentramento e sterminio (23) o di città e/o luoghi comunque segnati dalla Shoah (13), KZ2 ha il proposito di allargare lo sguardo facendo cogliere al lettore quanto la dimensione del genocidio antiebraico sia stata più ampia rispetto a quel già significativo spaccato che aveva scelto come oggetto della sua prima indagine. “Estremamente più ampia” sottolinea Jacur, che è un ingegnere ed è l’attuale assessore al Bilancio UCEI.
Il libro, con il patrocinio tra gli altri della Fondazione CDEC, si caratterizza per un’esposizione chiara ed efficace. L’autore, con taglio divulgativo, inizia la sua opera affrontando il tema delle nazioni sotto influenza nazista già prima che la seconda guerra mondiale avesse inizio e prosegue con l’esposizione di date e avvenimenti chiave del conflitto, concentrandosi poi sulla realtà polacca tra “campi di internamento e sterminio, ghetti forzati e massacri”, l’evoluzione del piano di annientamento conosciuto come “soluzione finale”, il destino delle nazioni invase a Occidente, l’influenza sul versante adriatico, la situazione nell’intera Europa sotto dominazione nazifascista (con un focus specifico riservato all’Italia). Di grande interesse anche le sezioni dedicate a questioni genericamente poste durante i numerosi Viaggi della Memoria cui Jacur ha partecipato e di cui è stato l’animatore, anche in qualità di presidente della Comunità ebraica di Padova. Dagli aspetti identitari su cui si fonda l’ebraismo al significato di “popolo eletto”, per arrivare ai cardini della religione tra “osservanza”, “deviazioni”, “assimilazione”. Un libro che parla al tempo presente.
Nel porre fine alla produzione di KZ lager e durante le presentazioni – purtroppo penalizzate dall’assenza di pubblico a causa delle restrizioni sanitarie – mi sono reso conto di quante cose avrei potuto ancora dire sulla Shoah e sull’ebraismo: ho constatato che almeno il 90% degli italiani – e sto parlando della platea diffusa, dove anche la presenza ebraica è pari a 4 su 10.000 persone e la condivisione arriva a 4 su 1.000 – sa pochissimo, ebrei compresi; alcuni sanno qualcosa ed è loro perfettamente sufficiente; forse soltanto l’1% sa poco e magari è disposto a saperne di più.
Come sempre ripeto, non voglio e non sono capace di sostituirmi agli studiosi veri e molteplici di entrambi gli argomenti: il mio scopo continua ad essere soltanto quello di divulgare, parlando in maniera accessibile a delle persone normali che non conoscono la materia: esattamente come mi pongo nei viaggi degli studenti e degli adulti; non per insegnare ma per far sapere, avendo catturato con la loro presenza anche la loro attenzione.
Se, dunque, nel primo libro avevo parlato delle visite – magari più volte ripetute – a 23 campi di concentramento o sterminio e ad altre 13 città o luoghi connessi alla Shoah, qui desidero far capire che la dimensione del genocidio fu estremamente più ampia. Gli storici ci dicono che i campi furono almeno 1.600, ma sicuramente molti di più; cui si aggiungono i plurimi luoghi di massacro e annientamento fisico delle persone, e la reinvenzione dei ghetti dove la costrizione fungeva da decimazione e transito verso lo sterminio. Tra gli uni e gli altri cito 372 luoghi di abominio distribuiti in tutta Europa, dall’Atlantico all’ovest della Russia; oltre a una faticosa composizione in sommatoria delle descrizioni, che fissa una media (tra minimo e massimo) di 5.273.000 ebrei cancellati dall’umanità soltanto nei siti qui citati.
Come già si vede, tradisco la mia preparazione riempiendo il libro di numeri: mi sembra l’unica maniera per far capire al lettore la dimensione, altrimenti quei “seimilioni” che tutti conoscono, resta limitato in una parola e non nella gigantesca estensione della cancellazione di due terzi di un intero popolo.
A un anno dalla scomparsa la Comunità ebraica di Genova si è stretta nel ricordo di Piero Dello Strologo. Ideatore e animatore del Centro Culturale Primo Levi, un’eccellenza dal respiro internazionale, frequentata da Premio Nobel e altri illustri relatori. Ma anche leader comunitario con una visione innovativa e instancabile promotore di iniziative a tutela della dignità dell’uomo. “Era a suo modo fantasioso e curioso, non si arrendeva davanti a nulla, soprattutto quando individuava e decideva i soggetti cui assegnare e consegnare l’annuale premio dell’associazione. Divenuto nel tempo, grazie a lui, prestigioso e ambito” la testimonianza di Raffaella Petraroli Luzzati, attuale presidente della Comunità ebraica cittadina. Ad essere tratteggiata una stagione di grandi impegni, dalla ristrutturazione dei locali comunitari all’allestimento di una zona espositiva “con una importante mostra dedicata a Chagall”, per arrivare alla realizzazione del nuovo pulpito sinagogale “con i decori delle 12 tribù di Luzzati”. E ancora la sua attività civica per tutti i genovesi, lo sviluppo dell’area del Porto Antico, la creazione della Città dei Bambini: luoghi significativi e patrimonio di tutti.
Se la vita online è lo specchio della realtà, i dati della nuova “Mappa dell'intolleranza” non possono che preoccupare. Secondo il nuovo report pubblicato dall'osservatorio Vox diritti, che ha analizzato 629151 tweet pubblicati nel 2022, l'odio espresso sul social network è aumentato rispetto a un anno fa. Primi bersagli, le donne, oggetto del 43,21 per cento dei cinguettii negativi. Poi i disabili 33,95; gli omosessuali 8,78; i migranti 7,33; gli ebrei, 6,58 e infine i musulmani, 0,15. Rispetto al 2021 tutte queste categorie, al centro delle analisi del report presentato in queste ore all'Università degli Studi di Milano, hanno visto un incremento negli attacchi. Nel complesso poi i tweet negativi registrati nel 2021 rappresentavano il 69 per cento di quelli analizzati, contro un 31 di positivi. Nel 2022 si è passati al 93 per cento di negativi contro solo il 7 di positivi. “Siamo di fronte a un odio generalizzato online, che ha riflessi nella vita reale”, ha sottolineato in apertura Marilisa D'amico, prorettrice dell'Università degli Studi e tra le fondatrici di Vox Diritti. Un'analisi condivisa, tra gli altri dalla sociologa della Fondazione Cdec Betti Guetta, intervenuta assieme al ricercatore Murillo Combruzzi per dare un quadro sull'antisemitismo in Italia.
L'OMAGGIO DEGLI UFFIZI ALL'ARTISTA TEDESCO DEPORTATO DA FIRENZE NEL 1943
Rudolf Levy, l’opera e l’esilio
Credeva di incontrare due collezionisti d’arte interessati ai suoi lavori. Erano invece due agenti della Gestapo sotto mentite spoglie che non si lasciarono sfuggire l’occasione di porre fine alla sua clandestinità. Iniziò così, in un freddo dicembre fiorentino, il viaggio senza ritorno verso Auschwitz del pittore tedesco Rudolf Levy (1875-1944). Un nome a lungo dimenticato, riscoperto di recente grazie alla messa a dimora di una pietra d’inciampo che ne riporta le generalità in piazza Santo Spirito, all’altezza del civico nove, davanti a Palazzo Guadagni dove visse e dove gli fu tesa quella trappola mortale. A ricordarlo, in continuità con quella giornata, la mostra “Rudolf Levy (1875-1944). L’opera e l’esilio” allestita a Palazzo Pitti su iniziativa delle Gallerie degli Uffizi in collaborazione con il Museo e Centro di Documentazione della Deportazione e Resistenza di Prato e con curatrici Camilla Brunelli, Vanessa Gavioli e Susanne Thesing. Tra le opere esposte “Fiamma” (nell'immagine), il primo dipinto di Levy a entrare nella collezione del museo per volere del suo direttore Eike Schmidt. Sarà proprio Schmidt a introdurre la mostra – domattina a partire dalle 11 – insieme al presidente della Comunità ebraica fiorentina Enrico Fink, al membro del cda del museo Valdo Spini e al capo ufficio culturale dell’ambasciata di Germania Andreas Kruger.
Bologna e gli anni della persecuzione
nelle carte dell’archivio Sinigaglia
I Sinigaglia sono una famiglia normale, benestante, di provenienza mantovana e perfettamente inserita nel contesto sociale di Bologna. Hanno un negozio di abbigliamento e biancheria intima in pieno centro, frequentato da tante signore “per bene”. I ragazzi vanno a scuola. Con la promulgazione delle leggi razziste l’attività commerciale deve essere ceduta, il tenore di vita si abbassa, i ragazzi non possono più andare a scuola. A farne le spese anche la nonna materna, non ebrea, classificata come tale nel censimento degli ebrei residenti in città. Anche lei, quindi, correrà molti rischi. Pur inconsapevolmente. Una vicenda che si dipana nella mostra “La Shoah a Bologna nelle carte dell’archivio Sinigaglia” al Museo ebraico cittadino, a cura di Vincenza Maugeri, Francesca Panozzo e Caterina Quareni. Ad inaugurarla il presidente del Museo Guido Ottolenghi e il presidente della Comunità ebraica Daniele De Paz.
In evidenza fino al 12 marzo l’archivio familiare dei Sinigaglia, donato al museo nel 2022, con le sue lettere, i suoi documenti, le sue foto, ma anche piccoli diari e testimonianze orali.
LO SPETTACOLO IDEATO DA OLEK MINCER IN SCENA A ROMA
Il bardo della Cracovia ebraica,
la Shoah e la lingua smarrita
“Vai e cerca nei cortili dei poveri, canta per loro la tua canzone, canta della miseria, il ritornello triste del bisogno, le stanze sporche e scure che sono regno di morte, canta i bambini spolpati e storpi, nutriti da seni inariditi, bambini appassiti prima ancora di fiorire, tu canta i tuoi versi, li hai scritti per loro e il canto diventerà un coro”.
Il 4 giugno del 1942 i nazisti assassinano Mordechaj Gebirtig, il bardo della canzone ebraica di Cracovia. Noto in tutto il mondo per il suo repertorio di canzoni scritte prima della guerra, non smise di creare neanche nei mesi più drammatici per gli ebrei di Polonia, nel progressivo scivolare verso il baratro della Shoah. Di quel suo commovente impegno sono sopravvissuti i testi, ma nella gran parte dei casi non le musiche. A colmare un vuoto arriva ora “Zun, zun, zang – La lingua smarrita”, spettacolo-concerto nato da un’idea di Olek Mincer, con la drammaturgia di Yosuke Taki e il contributo artistico di Riccardo Battisti. Una “restituzione” inedita e significativa.
Il destino ce l’ha messa tutta per portare Lorenzo Cremonesi alla Comunità ebraica di Casale Monferrato. C’è un’affinità, diciamo hobbistica, perché il giornalista ama pedalare sulle colline della zona, poi c’è un legame con la cultura del luogo: la nonna Ester scriveva per lo storico Bollettino della Comunità ebraica di Milano. È lei che ha propiziato la formazione di Cremonesi in Israele e, da lì, l’inizio della sua carriera di inviato speciale. Infine, c’è il caso vero e proprio che lo ha fatto incontrare a Courmayeur con Roberto Gabei, presidente della Fondazione Casale Ebraica ETS, il quale lo ha invitato in vicolo Olper.