“Aiutiamo Israele con i fatti, non con le parole”
Non c’è un attimo da perdere. Mille bambini di Sderot e del Sud di Israele lo aspettano fra poche ore con la merenda nello zaino. Le scuole anche questa mattina ancora non potranno aprire i battenti. Da Gaza continuano a piovere missili sulla popolazione civile. Nella guerra contro il fondamentalismo islamico non ci sono solo i caduti, gli ospedali che accolgono i feriti, ma anche le sofferenze di tutti i giorni. Gli incubi. L’angoscia di doversi risvegliare sotto i missili lanciati da terroristi che prendono di mira la gente comune. Le corse disperate verso i rifugi. I quindici secondi, non uno di più, che restano a disposizione per tentare di mettersi al riparo.
Mentre a Roma migliaia di cittadini si riuniscono per riaffermare Sosteniamo Israele, sosteniamo la pace, nel suo quartiere generale di Toronto lui segue gli avvenimenti a distanza, ma senza mai distogliersi dai suoi piani. Ci sono i bambini di Sderot, ci sono migliaia di lettori Mp3 da consegnare. Ci sono 300 mila euro di medicinali in viaggio verso l’Italia. E tante altre iniziative, tante richieste che provengono dalle zone di crisi del mondo. Fuori dai vetri, a Toronto, nessuno si stupisce se il termometro segna meno 20. Ma nella centrale operativa il clima è febbrile. Il piano è quasi pronto. Il suo esercito non mostra i colori di un Paese, ma quelli di SkyLink, l’azienda che gestisce con il suo socio indiano specializzata in trasporti aerei e terrestri per le grandi operazioni umanitarie.
La sua armata schiera in campo una flottiglia di elicotteri, un grande aereo per il trasporto di mezzi pesanti, mezzi motorizzati e alcuni specialisti. La sua guerra la combatte con questi mezzi. Questa mattina tutti in gita, forse allo zoo, nelle aree di Israele che ancora non possono essere raggiunte dai missili di Hamas. La sera poi di nuovo a casa. Perché, nonostante i rischi, dividere le famiglie sarebbe la sconfitta peggiore. E mentre si definiscono i dettagli di questa operazione si accavallano altri piani. Il telefono continua a squillare. E’ il Primo ministro canadese Stephen Harper. E’ il Presidente di Israele Shimon Peres. E’ qualcuno da Roma che vuole indicazioni sui 300 mila euro in medicinali destinati al Medio Oriente. “Tranquilli – risponde Walter Arbib, l’imprenditore di origine tripolina che grazie alla mediazione dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e della Comunità Ebraica di Roma ha donato 300 mila euro in medicinali per alleviare le sofferenze delle popolazioni civili, soprattutto dei bambini e in particolare di coloro che sono tenuti in ostaggio dai terroristi di Hamas – il carico è già in viaggio, il Governo italiano lo prende in consegna a breve”.
Appena una pausa per rispondere a qualche domanda. Troppo poco per comprendere a fondo quest’uomo cacciato dalla sua terra, cittadino del mondo, imprenditore di successo che dice di essere ossessionato dall’idea di aiutare gli indifesi. Ma anche un’occasione rara per cogliere qualche frammento nella vita di un uomo. “Invece di parlare – commenta Arbib – cerco di fare. Nel mio lavoro ho visitato i posti più tristi del mondo, in cui genitori non possono neanche sfamare i propri figli e forse questo ha cambiato il mio modo di vedere la vita e i miei principi”.
Ma questa donazione dei medicinali non tutti hanno mostrato di capirla.
“I medicinali era giusto che fossero offerti. Sono destinati ai bambini. I bambini non hanno colpa di quella che è la politica del loro governo o degli adulti irresponsabili che li lasciano usare come scudo umano”.
Ma come fa lei ad agire sullo scenario internazionale per conto proprio, non si rende conto di quante implicazioni delicate ci sono dietro un’operazione del genere?
“Prima di avviare un’operazione mi accerto che sia ben compresa dal Canada, il Paese che mi ha accolto a braccia aperte e da dove opero, condivisa da Israele e in questo caso dall’Italia”.
E’ stato lei a sollecitare i leader ebraici italiani a favorire questa operazione?
“I leader ebraici italiani hanno le migliori credenziali per qualsiasi cosa decidano di fare per Israele”.
Come è stata concepita questa donazione?
“Credo che l’offerta fosse quanto mai opportuna. Il Governo italiano e il ministro Frattini hanno appoggiato le ragioni di Israele e volevamo far sentire il nostro aiuto a bimbi usati come scudi e vittime di chi li tiene in ostaggio”.
E allora perché queste incomprensioni comparse sul forum degli ebrei tripolini “Mafrum per tutti” (dal nome di un cibo caratteristico) e riprese da alcuni irresponsabili?
“Mi auguravo di non dover intervenire. Non cerco notorietà. Non ho mai parlato con i giornali. Sono stato costretto dalla stupidità di chi non ha capito e ha voluto intervenire a sproposito. Parlano, fanno danni, ma quando c’è da agire non si fanno più vedere. Aiutiamo insieme Israele con i fatti e non con le parole”.
Scusi Arbib, molti le hanno chiesto perché questi aiuti vanno a Gaza, pochi invece le hanno domandato perché mai dovrebbero andare in Israele. Israele è un Paese straordinariamente avanzato e il suo sistema sanitario offre costantemente aiuto a tutte le popolazioni circostanti. E’ sicuro che abbia bisogno delle sue medicine?
Certo che non ne ha bisogno per le sue strutture. Per quello che ne so Israele a sua volta è un grande benefattore, in questo momento sta provvedendo senza ostentarlo enormi aiuti alla popolazione civile palestinese. E non solo. Israele è intervenuta per le vittime dello Tsunami, in Pakistan e persino in Corea del Nord. Abbiamo mosso in tempi recenti aiuti in medicinali per 3,5 milioni di dollari. E stiamo valutando altri progetti in totale sintonia con Gerusalemme”.
Lei agisce sempre in tandem con il suo socio, il sikh Surjit Babra. Cosa lega persone provenienti da culture così diverse?
Prima di tutto le nostre esistenze hanno molto in comune. Abbiamo cominciato da zero tutti e due e quello che abbiamo ce lo siamo costruito con le nostre mani. Il mio socio partecipa a tutte le mie scelte ed è un grande amico di Israele. Quando il Bené Berith ha deciso di concedermi un’onoreficenza ho fatto loro presente che avrei potuto accettarla solo se la avessero consegnata a noi due assieme e non a me da solo.
E com’è finita?
A ritirarla ci siamo andati in due.
Curare con le medicine è la sua unica preoccupazione?
No, quando le emergenze me lo consentono cerco di dedicarmi anche alla cultura e alla conoscenza della nostra cultura di ebrei di origine libica. Vorrei invitare tutti a visitare il museo libico di Or Yehuda in Israele e quello che si sta costruendo a Roma. E’ importante per conoscere la nostra storia e per comprendere quello che abbiamo sofferto quando ci hanno cacciato dalle nostre case quaranta anni fa. Ma è anche importante per comprendere che dobbiamo dimostrarci capaci di superare le nostre sofferenze, di guardare avanti e di costruire un mondo migliore”.
Altro da aggiungere?
“Adesso basta, lasciatemi lavorare”.
Di parole, date le sue abitudini, ne ha dette anche troppe. Ora si torna ai fatti. Se qualcuno non ha capito, pazienza. Questa volta, in ogni caso, le mafrume le serve lui.
Guido Vitale