Medio Oriente, Israele e noi Opinioni a confronto

Prosegue il dibattito su libertà d’opinione e diversità di posizioni riguardo alla situazione in Medio Oriente. Ecco alcuni dei testi pervenuti in redazione.

Su Pagine ebraiche di settembre ricordavo che in un incontro svoltosi a Parigi sotto gli auspici di JCALL – il movimento ebraico europeo costituitosi un anno fa in favore del negoziato di pace basato sul principio di “Due popoli, due stati” – si era discusso delle implicazioni per Israele e Palestina dei rivolgimenti in atto nel mondo arabo e dell’immobilismo inquietante del governo di Israele. Un governo dominato dalla destra sciovinista e dal potere di pressione dei coloni e incapace di un’iniziativa autonoma verso i palestinesi , nonché verso l’offerta di pace e di normali rapporti avanzata dalla Lega Araba alcuni anni fa.
L’immobilismo è degenerato in un isolamento politico via via più acuto, pericolosamente autodistruttivo per Israele, con le aggravanti dell’inasprirsi delle tensioni con Turchia ed Egitto.
Il rifiuto di Netanyahu di avviare negoziati onesti con l’ANP ha costretto i palestinesi a muovere verso l’atto unilaterale di cercare di costruire dal basso un embrione di stato – che il primo ministro Fayad persegue tenacemente da tempo – e di ottenere il riconoscimento dell’ONU.
Tutto ciò è una sconfitta per tutti e una frustrazione profonda per coloro, come noi, che pensano che una soluzione negoziata del conflitto sia una necessità pragmatica e irrinviabile per israeliani e palestinesi.
Israele ne è in misura rilevante colpevole. Niente ha fatto in questi mesi per moderare l’ostilità dei palestinesi e dei paesi arabi – basti guardare alla continua espansione degli insediamenti – né per ottenere un sostegno più fermo da parte degli Stati Uniti e dell’Europa.
E così siamo giunti vicini al 23 settembre con la domanda di ammissione all’ONU e le reazioni esagitate di Netanyahu : dalle minacce di chiusura dei fondi derivanti dai dazi all’importazione che Israele, in base agli accordi di Oslo, trasferisce all’ANP fino a quelle di annullare gli stessi accordi e di annettere parte della Cisgiordania occupata.
Un documento di JCALL, che uscirà in questi giorni in più giornali europei combina l’ovvia preoccupazione per questi eventi con un appiglio di speranza.
Preoccupazione per l’isolamento di Israele che ci sgomenta e per il pericolo del ritorno a un ciclo di violenze alimentato dalla frustrazione dei palestinesi qualora niente cambiasse sul terreno dopo l’eventuale ammissione all’ONU.
Ma anche la speranza di un evolversi più positivo degli eventi. All’ONU Abu Mazen accetterebbe uno Stato palestinese nei confini di prima della guerra del 1967, con scambi concordati di territori con Israele, e Gerusalemme est come capitale del nuovo Stato – le questioni dei rifugiati e del Luoghi sacri sarebbero, infatti, destinate a futuri negoziati. Il conflitto fra israeliani e palestinesi diverrebbe un conflitto più “normale”, territoriale fra due stati, invece che fra l’occupante e un movimento irredentista su cui gravano ancora l’eredità guerrigliera dell’OLP e le istanze dei profughi della diaspora palestinese. Infine – e non meno importante – il riconoscimento di uno Stato palestinese sarebbe il compimento concreto della risoluzione 181 dell’ONU del 1947 che prevedeva la creazione di uno stato ebraico e di uno stato arabo entro i confini della Palestina-Eretz Israel. Per Israele, ciò sarebbe il riconoscimento da parte della comunità delle nazioni, inclusi i paesi arabi e islamici, delle frontiere scaturite dalla guerra del 1948 e della sua legittimità.

Giorgio Gomel

Ogni giorno aspetto, impazientemente, l’arrivo nella mia casella email, della quotidiana striscia l’Unione Informa. Da qualche tempo, da troppo tempo dico io, il piacere della lettura si trasforma in una sensazione di fastidio. La newsletter di ieri conteneva in un articolo, condensato in poche righe, tutta la propaganda anti Israele.
Noi ebrei siamo abituati a leggere bugie ed infamie su Israele che ci rivoltano lo stomaco per la loro falsità, lo sappiamo e ne siamo consapevoli, ma leggerle su un organo di stampa ebraico autorevole, sotto l’egida dell’UCEI, fa ancora più male. Riferimenti alla dubbia onestà del governo di Israele, un governo sottomesso al volere dei coloni, Israele colpevole in maniera rilevante, continua espansione degli insediamenti, le reazioni esagitate di Netanyahu, annessione della Cisgiordania occupata.
Insomma tutti i cavalli di battaglia di chi vorrebbe la fine dello Stato di Israele.
Spesso mi sono domandato il motivo, perché questo signore abbia tutto questo spazio a disposizione. Mi è stato detto che tutti devono parlare, democrazia è chiamata e chi non è d’accordo è fascista.
Ma se un giornalista, un analista, scrive corbellerie, scrive bugie, fa propaganda, il direttore ha il sacrosanto diritto di non pubblicare pubbliche bugie. A meno che direttore ed editore non siano d’accordo con quanto scritto.
Io non voglio più leggere questo signore sulla stampa ebraica. In nome della democrazia mi dicono che non sarà possibile, allora sarò io a farmi da parte, chiedendo, fin da ora di essere cancellato dalla newsletter l’Unione Informa e dal ricevimento del cartaceo Pagine Ebraiche. Quando sentirò il bisogno di leggere un po’ di sana propaganda anti Israele andrò in edicola, ma sarà per mia scelta.

Vittorio Pavoncello

Da diversi mesi ha luogo una interminabile querelle fra noti esponenti della cosiddetta “Piazza” del Portico d’Ottavia e Giorgio Gomel, noto esponente del gruppo Martin Buber di Roma. Casus belli della vicenda è una poco fortunata lettera di Gomel pubblicata sul mensile Shalom, che contestava un “barbecue ad Itamar” organizzato dalla Comunità di Roma. Gomel è stato oggetto di una forte contestazione, a volte espressa civilmente e a volte (fin troppo spesso) con messaggi, lettere, articoli, scritte murarie e striscioni ingiuriosi. Fino a che le scritte ingiuriose, ipocritamente anonime, rimangono opera di “note teste calde” possiamo limitarci ad esprimere il nostro disappunto ma, quando rappresentanti delle istituzioni ebraiche si aggregano a tale campagna, arrivando ad imputare al “colpevole di turno” di dire bugie (Gomel è invece persona super informata) o arrivando addirittura ad invocare provvedimenti illiberali, il disappunto non basta più. Per quanto io non condivida gli argomenti e i toni di Gomel, trovo assai più insopportabili, intrinsecamente fascisti, gli argomenti e i toni usati da altri.
Noi siamo una comunità e non un clan. L’incapacità a discutere fra noi con rispetto, l’incapacità ad avere spirito critico, il voler etichettare ed emarginare persone, sono obiettivamente la premessa della nostra autodistruzione. Quest’anno Kippur dovrebbe durare un’ora di più.

Victor Magiar

L’intervento, così sincero e appassionato, firmato giovedì scorso da Vittorio Pavoncello su queste pagine, suggerisce riflessioni importanti, che non vanno eluse. Il primo fra questi argomenti è certamente quello della libertà di opinione, che Pavoncello stesso solleva. Io sono fermamente convinto che Gomel, Ovadia, come peraltro Vattimo il prof. Moffa e Angela Lano, abbiano pienamente diritto a nutrire e a esprimere le loro opinioni anti-israeliane – a patto naturalmente che anche chi non è d’accordo sia libero di contestarle come meritano e che esse non costituiscano reati.
C’è però un altro limite ovvio. Il fatto di avere certe opinioni non significa che esse debbano per forza essere pubblicate da chi non le condivide, si tratti di un editore, di un’organizzazione, di un partito di una comunità. Non posso pretendere che le mie posizioni in favore di Israele siano veicolate – poniamo – dal “Manifesto”, che notoriamente è sbilanciato in senso opposto. Oltretutto gli sviluppi delle tecnologie di comunicazione consentono a chiunque, se sostiene certe posizioni, di esprimerle e motivarle.
Ora il primo punto implicitamente ma fortemente sollevato da Pavoncello, chiedendo di non pubblicare più sui media comunitari le opinioni di Gomel, è se l’Unione delle Comunità Ebraiche italiane abbia una linea su Israele o meno, cioè se vi sia o meno da parte sua un appoggio convinto allo stato di Israele – che non essendo un’entità metafisica, un’idea o un luogo dello spirito, ma al contrario un’istituzione terrestre è rappresentata da un governo preciso, ha una storia definita e obiettivi politici abbastanza evidenti. La domanda risulta particolarmente cruciale perché è sollevata da un membro autorevole del Consiglio dell’Unione.
Già nel caso dell’invito a Moni Ovadia per la giornata della cultura cercai di porre il problema: gli ebrei italiani si presentano al paese e ai media con certi biglietti da visita. Siamo sicuri che le opinioni di Ovadia e di Gomel siano quelle che ci rappresentano? Il fatto è che una scelta editoriale strategica della direzione dei media dell’Ucei è quella del pluralismo, l’idea che tutte le posizioni presenti nel mondo ebraico trovino spazio nella comunicazione dell’Ucei. Non è questo il luogo di discutere di questa scelta e non sono probabilmente io la persona giusta per discuterne, visto che di questa apertura mi è possibile far uso – ne dò atto al direttore Guido Vitale – con una notevole libertà. Il titolo stesso di questa rubrica – Davar acher, l’altro parere – lo chiarisce. Resta il fatto che questo pluralismo sarebbe più giustificato, più solido se fosse più chiaro lo schieramento dell’ebraismo italiano. Non è una critica politica contingente all’attuale gestione: vi è purtroppo una tradizione di ambiguità a questo riguardo che va indietro nel tempo alle presidenze Luzzatto e Zevi, e che oggi, quando la lotta contro Israele si incentra in buona parte sul versanete mediatico, è certamente necessario superare.
Qui però vi è un terzo punto da evidenziare. Un dibattito efficace dev’essere sincero, non afflitto da mimetismi, confusioni, entrismi. Si dà il caso che negli ultimi anni sia molto cresciuto in alcuni settori del mondo ebraico antisionisti il vizio di presentarsi per ciò che non si è: amici di Israele. Le Ong israeliane (del “campo della pace”) hanno presentato come liberticida una legge della Knesset che le obbligava a dichiarare se erano finanziate da governi e organizzazioni straniere: molte lo sono, e non sono certamente governi amici. Un’organizzazione che ha rapporti di finanziamento e appoggio da organizzazioni islamiche e con persone che stranamente nascondono la loro identità (come è stato ampliamente denunciato sulla stampa nei mesi scorsi) ma che sostiene di essere “pro Israel, pro peace” è proprio quella J Street che ha usato tutte le sue forze per contrastare le iniziative, le proposte e le posizioni dello stato di Israele negli ultimi anni. Il suo corrispondente europeo si chiama J Call e Giorgio Gomel, che ne è il coordinatore italiano, assicura di essere “amico” di Israele, anzi di più – proprio nel momento in cui appoggia il riconoscimento all’Onu di uno stato palestinese senza trattative con Israele – contrastando tutta la linea strategica israeliana, non solo di questo governo ma di tutti i governi israeliani dal ’48 a oggi.. In realtà le sue dichiarazioni, comprese quelle contestate da Pavoncello, saranno forse amiche di un Israele celeste e impalpabile, di una ideale Israele che non sia “sporcata” dalla banale necessità di difendersi contro l’assedio di nemici assai più numerosi e privi di scrupoli; ma vanno esattamente contro le politiche democraticamente decise da parlamento e governo di Gerusalemme. Non parlo poi di Ovadia, che all’Israele reale contrappone una mitica Yiddishkeit, fuori dallo spazio e dal tempo.
Per onestà intellettuale e chiarezza sarebbe bene che tutti dichiarassero la propria posizione in gioco. Per questo, scherzando ma non poi tanto, ho definito tali posizioni “diversamente sioniste”, ironizzando sull’eufemismo di cui si ammantano. E non è che queste posizioni restino senza conseguenze, siano “opinioni” gratuite e astratte. Esse indeboliscono – consapevolmente indeboliscono – la posizione politica e mediatica di Israele, danno forza e argomenti ai suoi nemici. Basta scorrere sulla rassegna stampa l’avidità con cui “Manifesto”, “Unità”, “Internazionale” ecc. intervistano e traducono le solite Amira Hass, Gideon Levi e i loro equivalenti americani Thomas Friedman, Roger Cohen , per non parlare allo spazio riservato a J Street, J Call, alla minuscola Rete Eco (Ebrei contro l’occupazione). Un’altra condizione per rendere efficiente il pluralismo sarebbe che fossero evitati i travestimenti e che Gomel fosse presentato per quel che è: un nemico del sionismo, uno che non ritiene di dover difendere l’esistenza di uno stato ebraico, o perché si illude che i palestinesi lascerebbero in pace Israele una volta raggiunti i mitici “confini del ’67” (ma lo negano anche loro, l'”occupazione che deve finire” dura per Abu Mazen come per Hamas dal ’48), o perché vorrebbe, come i vari Pappé, i Naturei Karta e gli altri nemici ebrei di Israele, lasciare tutta la Palestina agli arabi che ne sarebbero legittimi proprietari e comunque maggioranza, perché ne facessero quel che credono, magari anche conviverci pacificamente con gli ebrei. Sarebbe importante sapere, insomma, quale sia il grado vero di amicizia di un signore che ha dichiarato di non sentire affatto come fratelli quelli che gli sembrano orribili “coloni”, anche quando sono ammazzati dagli “indigeni” alla colpevole età di tre mesi.
Con queste premesse, si capisce perché l’irritazione di Pavoncello sia condivisibile (e da me condivisa). Non è un problema di libertà di opinione o di dibattito. E’ l’identità dell’ebraismo italiano che ha bisogno di chiarezza, il suo legame con il corpo vivo e il cuore battente del popolo ebraico

Ugo Volli

E’ vero quest’anno kippur dovrebbe durare un’ora in più. Su questo concordo pienamente con Magiar: a tutti va data l’opportunità di porgere le proprie scuse. Le sue, doverose, soprattutto nei confronti di tutte quelle persone, offese, come me, dalle sue parole.
Coglie nel segno anche un altro suo richiamo: la nostra è una Comunità e non un clan. Peccato – e Magiar dovrebbe ricordarselo quando rimprovera qualcuno – che sia tipico dei clan definire ’intrinsecamente fascisti’ gli argomenti e i toni usati dagli altri. Volendo bachettarmi e bacchettando i “Piazzaroli”, Magiar finisce soltanto per bacchettare se stesso. E mostrare la sua presunta indipendenza di giudizio. Non comprendo invece – per usare un eufemismo – un altro punto della sua risposta: perché ‘voler disegnare una realta’ basata su ‘teste calde’ e ‘rappresentanti delle istituzioni ebraiche’? Tra ‘Piazza del Portico d’Ottavia’ e tutto il resto? Come se ci fosse un mondo buono (le istituzioni ebraiche) e uno cattivo (Piazza)? Uno migliore e uno peggiore (gli stessi di prima). Fosse come la rappresenta Magiar, ci sarebbe veramente da preoccuparsi. E non perché sia così, ma perché un ‘rappresentante delle istituzioni ebraiche’ abbia in mente una simile visione. Vorrei anche ricordare che il contrario di quanto sostenuto da Giorgio Gomel – e difeso da Magiar, almeno nel ‘volterriano’ rispetto dell’altro – è il pensiero di una larga parte dell’opinione pubblica di Israele, quella che politicamente è maggioranza. Per dirla in breve, del suo Governo, democraticamente eletto. Può piacere o meno, ma così è. E io rispetto quella maggioranza. Non mi sembra invece che Gomel nell’intervento su Itamar e nel suo ultimo articolo, abbia avuto rispetto e accortezza – da persona superinformata quale Magiar la indica – per chi la pensa diversamente: direi che abbia agito da ‘testa calda’ della penna. La Piazza ha risposto a modo suo: del resto non stiamo parlando di una querelle da condominio, piuttosto di temi delicatissimi sui quali non si discute come ‘ad un pranzo di gala’. Pagine ebraiche è un organo dell’Ucei che ha, di fatto, una maggioranza e una minoranza: sappiamo le posizioni della prima e della seconda. Ma su Israele tutti ci diciamo unitariamente d’accordo.
Mi chiedo allora: le posizioni di Gomel, almeno quelle che io ho criticato, possono essere ospitate sulla stampa dell’Unione?

Vittorio Pavoncello

La polemica avviata da Vittorio Pavoncello non è solo una discussione tra il presidente del Maccabi Italia e degli esponenti della sinistra ebraica, è qualcosa di più: è la rappresentazione della dicotomia che vive l’ebraismo italiano. L’ ebraismo che guarda al domani, che riempie i tempi, che vive Israele come se ci abitasse, che è fatto di sacrificio e di partecipazione. Dall’altra parte vi sono sterili manifestazioni culturali , un continuo discolparsi della azioni d’Israele perché loro sono gli ebrei buoni , il parlare di pace come se fosse la parola magica , vi è gente che per un po’ di applausi a qualche convegno non ha vergogna a vendere Israele, a loro basta essere chiamati intellettuali la parola magica….. e fare astrusi seminari per risolvere tutti i problemi del Medio Oriente, dimenticandosi che in Israele essendo una democrazia alla elezioni partecipano solo i cittadini dello stato, e nei paesi arabi in quanto a democrazia hanno ancora qualche difficoltà. Vadano Jcall a fare un seminario a Gaza vediamo cosa succerà, li chiameranno Yaudi o Juden, forse capirebbero chi sono i nostri avversari, ma la realtà è poco importante per i nostri campioni della sinistra. Parliamo di fatti: quanti ragazzi ha tolto dalla strada Vittorio Pavoncello con il Maccabi? Quanto lustro ha dato alla nostra Comunità quando ha organizzato le Maccabiadi a Roma? Quanti giovani ha riunito? Quanti giorni ha passato con i sui amici “fascisti” a sorvegliare e difendere le istituzioni ebraiche? In sostanza quanto bene ha fatto Vittorio alla nostra comunità ? Tanto. Gli altri cosa hanno fatto? Quanto antisemitismo ha trovato giustificazione nelle loro parole?
Quante volte abbiamo sentito dai nostri nemici di sinistra dirci: tra di noi ci sono tanti ebrei ….
Vittorio , continua per la tua strada, con i nostri fatti, il presente e il futuro appartengono ai nostri figli, che studiano nelle scuole, fanno sport, e escono di casa , orgogliosamente ebrei con il maghen david sempre in vista. Delle loro parole e dei loro misfatti non rimarrà nulla, sono il passato, un brutto passato destinato a scomparire.

Michele Steindler

E così, secondo Ugo Volli e alcuni altri – autorevoli e rispettati – non si potrebbero dire Sionisti che coloro i quali stanno dalla parte di Israele, chiunque e comunque la governi. Questo il discrimine. E anche, pare a me, il punto dirimente della discussione aperta qui, e di quelle che sembrano, ma non sono, meno ‘politiche’ (dalla crisi della Azienda israeliana degli agrumi alle manifestazioni dei medici o degli studenti) , e che ci troviamo talvolta a fare per la strada, in Comunità o a qualche occasione culturale. Che lo Stato di Israele sia sotto scacco; che viva da sempre una sequenza di momenti difficili e persino drammatici; che l’attuale scenario politico-economico mondiale sia cambiato; che i fattori demografici – geopolitici siano di segno negativo; che siano in corso rischiosi, improvvisi e inaspettati scatti in avanti, di incerta evoluzione; che la campagna di delegittimazione stia facendo più effetto – nel Mondo – delle guerre, degli attentati, dei tentativi di ‘comporre la crisi in medio oriente lo sappiamo: sono fatti evidenti. Ma lo sono soltanto per l’anti israelismo, e/o l’antisemitismo, la sete di vendetta, i cinici calcoli politico economici sia dei conclamati nemici, sia dei tiepidi amici dello Stato di Israele ? E’ solo grazie agli utili idioti di turno che per ignoranza, approssimazione, partito preso o stupidità odiano, vogliono mettere al bando, o distruggere Israele ? A me pare che – data per accettata e condivisa la difficilissima situazione in cui i Governi di Israele si sono trovati a dover rispondere, dal 1948 in poi, e l’umana impossibilità di non sbagliare, soprattutto nelle decisioni di lungo periodo – alcuni gravi errori siano stati commessi, e che alle odierne maggiori difficoltà – come quelle che ho sommariamente sopra ricordato – non ha fatto riscontro, in questi ultimi anni, una strategia adeguata, né priva di incertezze e errori di valutazione. Davvero Volli – la cui onestà, preparazione e intelligenza, unite a una non comune vis comunicativa – sono ben note e molto apprezzate anche da me, che ne conosco le capacità dai tempi delle sue prime recensioni teatrali e dei suoi saggi di filosofia e costume – davvero Volli non ha dubbi o domande in proposito ? Io, che – non è modestia, magari ne avessi un poca di più ! – so molto meno di lui, e di molti altri, su Israele e Politica; che sono stato una sola volta in Eretz Israel e per soli 40 giorni; che non so leggere né capire l’ebraico moderno; che leggo, sì, quasi ogni giorno questo benedetto “Moked”, ogni mese quasi tutto “Pagine Ebraiche”, e una piccola parte delle opinioni su Israele in lingua inglese e francese, ma non ho studi adeguati né lauree, né cattedre né tribune o accesso diretto alle fonti… Io non ci posso credere: Ugo e gli altri che mi sembrano, e forse sono, così sicuri, non possono non porsi le mie stesse domande, quelle che altri ebrei si pongono fra di sé o pubblicamente, anche qui. Né credo che il detto “ right or wrong, my country ( my Israel ) ” sia da prendere come la Torah, se non – ed eventualmente – come extrema ratio. Quanto poi alla questione – che talvolta affiora, come autoassoluzione o come rimprovero altrui – sulla legittimità degli interventi a proposito delle scelte politiche di Israele di chi come noi non vota né è eleggibile in Israele, credo che – e ora più che mai, e proprio per la sempre maggior presenza di una rumorosa fascia di opinione pubblica quanto meno non a favore, e spesso addirittura molto critica dei comportamenti del Governo Nethaniahu – sia imprescindibile, necessario, doveroso esprimere le nostre opinioni. Se Israele, infatti, ha non solo il diritto di esistere – come lo ha ogni stato democratico, e anche ogni popolo, anche quando non è democraticamente rappresentato – anche ogni ebreo di ogni parte del pianeta, anche la cosiddetta Diaspora – che non è parte dello Stato di Israele ma di Israele è stata radice, cui ha dato parte fondante dell’identità ed è, per molti, ancora oggi, finalità – , ha il diritto-dovere di esprimersi, attraverso i propri rappresentanti comunitari di ogni ordine, come individualmente, anche sullo Stato di Israele. E la somma di tali opinioni, che è maggiore dell’addizione delle sue parti, è importante: potrà essere influente, se non decisiva, nella formazione di una cultura quanto più diffusa e competente, presso l’opinione pubblica della propria città, nazione, e oltre. Certo avrà meno ascolto, come è giusto, in Israele stesso, ma sarà lo Stato Ebraico a goderne, insieme a noi, i frutti. Basta pensare alle opportunità oggettive che queste opinioni incontrano, se ben esposte – “ nella lingua di chi ascolta ” – nella agorà globale che è il nostro mondo di oggi, con gli strumenti tradizionali e, sempre di più, attraverso quelli innovativi, forse ancora meno visibili, ma molto diffusi, aperti, diretti. Un mondo e una modalità di comunicazione che – come sappiamo – è pieno di nemici oggettivi o strumentali di Israele, e dove – oltre che parlare ‘ fra di noi ‘, dovremmo esser capaci di parlare, “ nella lingua di chi ascolta ”, a chiunque, detrattori di Israele compresi, e certamente agli agnostici, ai poco informati, agli indolenti, a tutti coloro i quali (sono sempre di più, ovunque) non hanno altra informazione se non quella dalla Rete, pur con tutte le sue mistificazioni ed omissioni. Lo sapranno fare bene, lo potranno fare meglio (e lo fanno già!) soprattutto coloro per i quali l’ebraismo (la sua cultura e prassi ), e lo Stato di Israele sono una estensione connotativa – il plus, l’unicum – delle qualità civili, professionali, sociali e comportamentali che esprimono nei paesi dove vivono, lavorano e votano. Non importa siano professori o professionisti, o impiegati, o casalinghe, o disoccupati: conta che abbiano credito presso le comunità che frequentano, e che facciano bene quel che fanno. Come tutti gli altri concittadini, e meglio, se possono. Saranno, saremo ascoltati soprattutto se il nostro essere Ebrei sarà un fattore in più, e un esempio; se saremo tanto ragionevoli e comunicativi quanto fermi e tranquilli, tanto disponibili all’ascolto quanto capaci di farci sentire. E i nostri dubbi, la nostra legittima ansia di esser capiti, le nostre paure saranno altrettanto importanti delle nostre certezze. Più duttili saremo, più forti. Dunque: sollevare qualche dubbio sul Governo Nethaniahu su gli insediamenti, o credere che in politica d’immigrazione, o quella economica o estera siano stati, o siano ancora, commessi degli errori è essere antisionisti ? Oppure è ragionare, cercare di far ragionare, scambiare opinioni per farsene o proporne una più equilibrata, più argomentata ? Infine, per toccare anche sull’altra corsia di marcia il punto della libera espressione, e della accoglienza o meno di opinioni diverse dalle nostre – anche fortemente pregiudiziali o parziali – nei Luoghi della Comunicazione Ebraica come questo che ci ospita ( esempio di vero e buon ebraismo 3.0, e non solo per le applicazioni on line ) , dico che, proprio grazie a quanto leggo qui, oltre che per la frequentazione con ebrei italiani di età e formazione diversa , ho fiducia negli ebrei italiani, nella nostra capacità di intendere e di volere. E dunque di distinguere, di confrontare, di valutare e di scegliere. Potrà irritarci ( capita anche a me ) la visione di Romano, che peraltro non scrive solo sciocchezze non documentate; o indignarci per certe ‘cronache da Israele’ elusive, o mistificatorie, o false; o offenderci per la prosopopea o il linguaggio strabordante e parodossale che Moni Ovadia, per troppo amore, utopismo messianico, o puro protagonismo verbale ha usato, talvolta. Certo preferisco Ovadia a Teatro, o meglio ancora alla Radio, a “ uomini e profeti ” su radio3, quando interpreta i Testi. E aggiungo che, talvolta, ascolto o leggo opinioni di altri ebrei, amici o a me ignoti, che mi trovano in perfetto disaccordo tanto nei toni che nelle parole, che trovo mal formulate, pregiudiziali o perfino stupide. E mi danno fastidio, mi fanno rabbia, specie quelle gridate, da ‘soldato’ che ripete come slogan, senza capirli, gli ordini ricevuti e – se messo in difficoltà dal ragionamento – si rifugia in corner, chiamando in soccorso, più a meno a vànvera, citazioni bibliche, princìpi ‘ultimi’, nomi o nomoni altisonanti di Leaders Morti, o finanche di Profeti ! Ma, passato il momento, ci rifletto sopra, mi chiedo come e perché quella persona pensa e parla così. Leggo con acribia le opinioni ragionate se sono opposte alle mie, per mettere davvero in discussione anche le mie più rodate certezze, o i miei tic verbali automatici. Ne esco a volte rafforzato, altre indebolito, mai del tutto sicuro e mai del tutto incerto. Forse pecco anche io ( è un peccato grave ? ) di ingenuità, o di slancio. Convinto come sono della indistruttibilità dell’Ebraismo, forse sto troppo più attento al lungo periodo che al breve, più al momentum che all’attualità o al pettegolezzo. Temo non sia un modo sufficiente per capire la complessità, ma non ho studiato con sufficiente disciplina e profondità per conquistarmene uno migliore; e poi è quello più adatto a me, perché è il solo che abbia trovato che mi consenta – nel tempo senza Tempo della dimensione culturale, come nel tempo della vita quotidiana – di ‘essere presente’: di vivere il presente cercando di operare, e di condividere, ma anche di lasciarmi vivere e ridere. Di assumermi le responsabilità civili, ed ebraiche, che sono state la mia eredità ricevuta, e che vorrei siano quella da lasciare, anche senza un grammo in più, ma nemmeno uno in meno. Mi sento dunque sionista, un sionista del Terzo Millennio, un sionista 3.0 anche quando critico, con argomenti rispettabili – per iniziative sbagliate o mancate iniziative – la politica del Governo Israeliano o le realizzazioni di una Comunità Italiana. Libero così di poter invece gioire – senza falsa modestia, né ipocrisie – delle scelte di successo, dei risultati raggiunti, delle prospettive aperte, delle vittorie. E anche di avere opinioni critiche o d’appoggio a J Street, o alla AIPAC (J CALL, è molto ‘europea’, molto diversa fra differenti stati) a seconda dei casi. Anche se spesso esagerano nei toni, ma va tenuto conto delle implicazioni politiche, strumentali e d’appartenenza sociologica delle diverse anime degli ebrei statunitensi, che non sono più soltanto – come sapete – i nipoti dei Mayer, dei Singer, dei Malamud o dei Roth, ma anche i papà di Google, di Facebook e di migliaia di altre, meno note ma non meno qualificate innovazioni culturali, tecnologiche e imprenditoriali. E che – dunque – hanno il mondo come riferimento. Insomma: come sbaglio io, pare siamo in molti a sbagliare, in buona o meno buona fede. Sempre ? Solo loro, solo gli Altri ? O è che siamo solo noi ad ammetterlo, noi che di questa debolezza ci sentiamo forti ? Concludo con un ricordo che mi è presente sempre, mi è molto caro, e – pur gravato di esplicita parzialità sentimentale e familiare – forse potrà esser di insegnamento anche a qualcun’altro. L’ultima sera che ho passato, ottobre 2009, nel kibbutz dove Nurith vive ancora oggi, da prima che fosse fondato lo stato di Israele, questa donna di … anni – straordinaria madre, nonna e bisnonna; lavoratrice anche ora, d’aiuto nelle cucine dopo una carriera di successo – ad un certo punto me le ha date corte, nonostante la gioia di avermi lì per la prima volta e la consapevolezza che l’indomani partivo, e poteva anche essere l’ultima. “ Ho la lezione di Arabo, Valerio… Non vorrei perdermela ” – mi ha detto alzandosi dalla poltrona. “ Cosa vuoi ?, Bisogna imparare la lingua degli altri se si vuole capire bene anche la propria ” .
Shalom, e buon 5772 a tutti

Valerio Aaron Fiandra

Come già verificatosi a maggio con le scritte e i manifesti ingiuriosi contro Gomel e Ovadia sui muri della Scuola ebraica di Roma, giorni fa sulla newsletter dell’UCEI “L’Unione informa” sono apparsi attacchi furibondi contro Giorgio Gomel e quegli ebrei che osano esprimere le proprie critiche alla linea politica Netanyahu-Lieberman del governo israeliano. Linea politica che molti ebrei in Italia, in altri Paesi e in Israele ritengono suicida.
La cosa è tanto più grave essendo autori di tali attacchi il professor Ugo Volli, che si permette di mettere sullo stesso piano coloro che criticano, come Gomel e altri, la politica del governo d’Israele e il negazionista antisemita professor Moffa, tutti ugualmente “nemici d’Israele”, quindi tutti esclusi da un confronto dialettico all’interno dell’ebraismo italiano; e Vittorio Pavoncello, consigliere dell’Unione, che utilizza l’organo ufficiale dell’UCEI per un attacco personale dai toni ingiuriosi (“…scrive corbellerie, scrive bugie”) e intimidatori (“Io non voglio più leggere questo signore sulla stampa ebraica” ) nei confronti di chi non la pensa come lui.
Che significano affermazioni come queste? E’ forse lui il padrone della stampa ebraica? O forse è più autorevole e conosce meglio la politica di Netanyahu & Lieberman nonché storia e realtà del Medio Oriente delle personalità israeliane che hanno firmato nelle ultime settimane appelli molto ma molto critici verso il loro governo (tra loro l’ex direttore generale del ministero degli Esteri di Gerusalemme Alon Liel, intellettuali del peso di Amos Oz, Avishai Margalit, Ari Folman, Zeev Sternhell; politici come Yael Dayan, economisti come il premio Nobel Daniel Kahneman, ufficiali ed ex generali come Shlomo Gazit, già capo dei Servizi Segreti Militari e e molti altri).
Chi critica – come queste personalità o come l’ex presidente della Knesset Avraham Burg – la politica dell’attuale governo israeliano, che rende impossibile la ripresa dei colloqui di pace con i Palestinesi, ha a cuore il futuro di Israele. Chi invece ne appoggia la politica di colonizzazione non vede il disastro verso il quale essa condurrà Israele.
Ma forse questa voglia di censura – che ci indigna – non dovrebbe meravigliarci: anche nella politica italiana i sostenitori di Berlusconi vorrebbero non leggere più le critiche al governo di questo Paese. E alcuni impedirebbero volentieri che le voci critiche possano esprimersi. Finora per fortuna non siamo arrivati a tanto. Né qui né in Israele.

Giuseppe Damascelli

Siamo sbigottiti per le manifestazioni di intolleranza che si susseguono sulla newsletter dell’UCEI. Ci rifiutiamo di credere che questi linciaggi, anche a carattere personale, rappresentino il pensiero di ebrei italiani. Gli interventi di Pavoncello e Volli sembrano proseguire con furia veemente il pessimo episodio delle scritte di proscrizione sui muri del Palazzo della Cultura della Comunità di Roma. Chiediamo interventi severi e immediati contro queste degenerazioni della vita democratica della nostra Comunità ebraica italiana.

Aldo Zargani, Paola Di Cori, Lello Dell’Ariccia, David Calef, Francesca Alatri, Lee Colbert, Dalia Aminoff, Daniele Naim, Alberto Zevi, Giordano Zevi, Andrea Damascelli, Anna Rossi-Doria, Italo Pergola, Giuseppe Damascelli, Elena Magoia, Lina Zargani, Fiammetta Bises, Mila Manasse, Clotilde Pontecorvo, Marina Del Monte, Bruno Segre (Milano), Michele Luzzati (Pisa), Marina Morpurgo (Milano), Celeste Nicoletti, Tamara Levi, Giorgio Canarutto, Daniele Amati, Susanna Sinigaglia, Andrea Billau, Marco Canarutto, Joan Haim, Stefano Levi Della Torre, Giacoma Limentani, Giorgio Segrè, Lina Cabib, Annalisa Di Nola, Lucio Damascelli, Paolo Amati, Pupa Garribba, Ariela Böhm, Roberto Piperno, Bruno Osimo, Marco Ramazzotti Stockel, Carla Ortona, David Terracini, Roberto Lehman, Gavriel Segre, Deborah Taub, Franco Segre, Alda Segre, Paola De Benedetti, Ester Fano, Claudio Canarutto, Laura Vitale Contini, Bruna Laudi, Marina Astrologo

Intervenire nel dibattito riportato da Moked relativo alla possibilità di criticare o meno la politica del governo israeliano e la connessione tra essere veri ebrei o ebrei antisemiti, come tra noi alcuni vorrebbero metterla, suscita un senso di fastidio perche presuppone vi debba essere un limite alla libertà di critica e di libera espressione e che essere ebrei si sposi con l’accettazione acritica della politica del governo d’Israele. Senza che si faccia alcuna distinzione tra la critica al governo di Israele e la critica ad Israele tout cour.
Nella sostanza, secondo la visione radicale e bigotta, i veri ebrei sarebbero coloro che lamentano le disgrazie che affliggono il popolo ebraico ed Israele con un persistente vittimismo improduttivo che fa da schermo o predica una politica che nella realtà dei fatti, si dimostra incapace di raccogliere alcun frutto ma al contrario sta perdendo colpi su colpi. E procura vistose perdite anche tra gli amici tradizionali sul cui appoggio si fonda il suo stare tra le nazioni del mondo. E’ evidente a tutti coloro che sanno e vogliono interpretare i fatti che la politica di Netanyahu non persegue il raggiungimento di una soluzione a due stati di Israele e Palestina. Essa persegue la creazione di situazioni sempre meno risolvibili, quali gli insediamenti e la violenza degli insediati, che mostrano la loro riottosa violenza anche contro I soldati di Israele, ed arrivano a bruciare tra l’altro le moschee, come un tempo lo erano in Europa le sinagoghe. Per di più, il continuare delle costruzioni anche nei territori che oggettivamente in un disegno di pace faranno parte della Palestina, mira ad impedire ogni trattativa, quindi a mantenere a tempo indeterminato una situazione di occupazione di territori con l’inevitabile accusa mondiale contro Israele di stato apartheid. Questa accusa potrebbe divenire maggioritaria e condurre alla estromissione dalle Nazioni Unite. Se si è minimamente sensati è difficile deviare da questa conclusione.
Quindi I buoni ebrei sembrerebbero essere coloro che sostengono questo tipo di politica senza sbocchi, e auspicano di fatto la cacciata dalle Nazioni Unite ed il ritorno ad una ghettizzazione del mondo ebraico. Probabilmente questa è la segreta aspirazione dei “buoni” ebrei che amano essere vittime perseguitate e piangere su se stessi, anche quando potrebbero comportarsi da popolo sovrano che compete degnamente nell’arena mondiale.
Al contrario gli ebrei “antisemiti”, quelli che non approvano la politica di Netanyahu e dei suoi alleati nazionalisti e della ortodossia religiosa, vivono Israele come un paese che deve perseguire un accomodamento con la controparte per raggiungere una situazione di convivenza possible in un mondo che percepisca la volontà chiara del paese di giungere ad un compromesso pacifico. Probabilmente è un obbiettivo molto difficle da raggiungere, ma ha il vantaggio di aspirare oggettivamente ad una normalizzazione dei rapporti internazionali, di essere percepito come tale, e con scenari futuri meno tenebrosi. Perché si ritornasse ad avere uno Stato, Israele ha atteso 2000 anni e subìto milioni di morti. Questa volta potrebbe essere anche più difficile una ripresa dopo esserci inimicati il mondo intero ed essere indicati come il vero ostacolo alla pace. Il rischio è veramente grande. Probabilmente la grande nemica di un pensiero logico è l’anima sedicente religiosa e indisponibile di Israele e dei suoi sostenitori ortodossi, costi quel che costi.
Voler mettere a tacere questa ragionevole voce dell’ebraismo italiano ed internazionale equivale a lasciare spazio solo ad una parte dell’opinione ebraica, non sempre ragionevole ed equilibrata e voler negare che ebraismo e democrazia siano compatibili.
David Breakstone, vice-presidente della World Zionist Organization e membro del Jewish Agency Executive, ha scritto recentemente sul Jerusalem Post: “Our “innocence” and their “guilt” are neither excuse nor reason to act obtusely or with recalcitrance in regard to the peace process and the urgings of those who genuinely have our best interests at heart. What we do may have no impact on our avowed enemies, but it still has influence over our friends – and there is no sense in chauvinistically denying that we have them, sometimes even where and when we need them.”

Giorgio Coen

Ho letto con soddisfazione i chiarimenti apparsi sul notiziario l’Unione informa e la conferma di un impegno rigoroso nella difesa della libertà d’espressione. E’ infatti con scoramento progressivo che leggo la newsletter negli ultimi tempi, trovandovi dei pezzi che stanno trasformando questo portale in un’arena di duellanti, simile a quei penosi spettacoli televisivi, dove si ingaggiano personaggi che si insultino reciprocamente, allo scopo di aumentare l’audience, facendo leva sugli interessi morbosi degli spettatori.
L’intento dichiarato del portale è quello di offrire uno spazio aperto per dare voce alle diverse idee che sono presenti all’interno dell’ebraismo italiano, consentendo di esprimerle e di offrirle alla interpretazione dei lettori. Purtroppo, un opinionista abituale del portale ed altri collaboratori saltuari, stanno portando avanti aggressivamente una linea molto diversa da quella dichiarata nelle intenzioni dell’editore. In primo luogo, anziché controbattere alle idee altrui con idee diverse in un civile confronto, si lanciano attacchi alla persona dell’autore avverso, il quale viene trattato come un bersaglio da denigrare, con offese e ingiurie che vorremmo proprio non leggere in un contesto come il portale dell’UCEI. In ciò viene purtroppo seguita la condotta della società che ci circonda, ricopiandone peraltro i comportamenti più biasimevoli. In secondo luogo, si vuole portare avanti insistentemente la proposta che le opinioni difformi dalle idee che secondo questi opinionisti rappresentano la posizione della maggioranza dei lettori, non debbano trovare accesso al Portale dell’ebraismo italiano. La linea di pensiero considerata ortodossa è quella rappresentata politicamente dai partiti israeliani della destra attualmente al governo e dalle idee di uno dei tronconi del sionismo storico, quello revisionista. Qualsiasi argomentazione difforme da queste posizioni, proveniente dal mondo ebraico diasporico o dal variegato universo politico e intellettuale israeliano, non dovrebbe essere proposta sul portale, in quanto potenzialmente o esplicitamente “anti-israeliana e quindi antisemita” (trasformando artificiosamente una opinione contraria ad una parte politica come equivalente ad una posizione contraria alla legittimità dello Stato di Israele o addirittura antisemita). Di fatto, si vorrebbe operare una censura preventiva su quelle opinioni, con la presunta affermazione “democratica” che chi vuole leggere quelle idee avverse può andare a cercarle negli spazi opportuni (come i giornali di una determinata parte politica). Tuttavia, le maggioranze politiche sono contingenti e transitorie e non possono certo essere considerate il metro per giudicare la liceità delle opinioni provenienti dal vasto mondo ebraico, arrivando a tracciare un confine tra chi va considerato all’interno di esso e chi ne va estromesso (tacciandolo con l’espressione dell’odio ebraico di sé). Chiunque si senta legato al retaggio storico e culturale dell’ebraismo deve avere il diritto di far sentire la propria voce in un contesto ebraico. Questo dovrebbe essere il significato di unità del popolo ebraico. L’unità non dovrebbe certo essere intesa come pensiero unico imposto da una sola componente. Del resto, la storia del pensiero ebraico nei secoli ci ha mostrato una infinità di voci; alcune sembravano fortunate al loro esordio e sono poi state dimenticate, altre apparivano marginali e sono cresciute nel tempo divenendo rilevanti. La storia ha poi decretato il successo o meno delle idee, non la censura preventiva. In conclusione, ritengo che gli organi dirigenti dell’UCEI, responsabili della linea editoriale del portale e del mensile Pagine Ebraiche, debbano rafforzare la difesa della pluralità delle idee e difendere una scelta che tenga conto del fatto che l’UCEI rappresenta gli ebrei italiani e non soltanto una parte di essi, anche se fosse la parte maggioritaria.
Sarebbe un ottimo inizio per l’anno nuovo.

Marcello Di Segni

Solo alcune precisazioni sull’articolo che reputo valido per le considerazioni che trae di Marcello Di Segni. Il Di Segni scrive testualmente “Chiunque si sente legato al retaggio storico e culturale dell’ebraismo deve avere il diritto di far sentire la propria voce in un contesto ebraico. Questo dovrebbe essere il significato dell’unità del popolo ebraico”. Sono d’accordo con Di Segni,se cosi fosse,ma….ecco i miei rilievi. La diaspora ebraica italiana (o meglio degli “ebrei”italiani perché, per me, molti di più sono gli “italiani”ebrei, dall’emancipazione in poi) è ancora legata sì al retaggio “culturale ebraico, ma “non” a quello “storico”. E’ mia opinione, infatti, -anche dopo la shoah e dopo la rinascita di uno Stato “degli ebrei”, (non ancora è giunto il tempo di uno stato “ebraico”)-che la diaspora degli ebrei italiani o italiani ebrei non possegga che in modo modesto il senso della sua “storia”; come ho scritto altrove essa è “ricca” di memoria, ma “povera” di storia. Ma perché tutto ciò? Perché la diaspora italiana “non” è un popolo, né possiede il senso della sua unità, pur differenziata; noi siamo un piccolo gruppo di 25-30 mila persone. Tale gruppo, inoltre, appartiene alla classe media, con un modo di vivere, di pensare e di agire “altro” dalla nostra eredità culturale. Non siamo un popolo, ma un insieme di individui, con le conseguenze che ciò comporta: ci manca il “senso del noi”, prevalgono atteggiamenti e comportamenti polemici, da protagonismo individualistico e i nostri rapporti si distinguono per concorrenzialità e rivalità.
Si “dovrebbe”essere un popolo, ma non lo siamo; siamo troppo pochi e con un modo di vita che non favorisce realmente forme di solidarietà reali. Un ultimo rilievo: dire che l’UCEI rappresenta gli ebrei italiani non è del tutto esatto; forse è una bonaria improprietà; essa rappresenta la minoranza di essi, all’interno della quale si formano delle maggioranze e delle minoranze. L’UCEI non è realmente rappresentativa della maggioranza del proprio gruppo. Questa maggioranza è lontana ed assente o poco presente. Nelle due massime comunità ebraiche italiane, che in percentuale rappresentano più del 70% degli ebrei in Italia, gli elettori che vanno a votare non superano, credo il 30%. E’ urgente che si creino delle modalità attraverso le quali i “lontani” trovino delle motivazioni valide che li spingano alla partecipazione. Riuscire a raggiungere questa finalità è uno dei prioritari compiti di cui l’UCEI dovrebbe occuparsi.

Alfredo Caro

Non sono iscritto ad alcuna comunità e a rigore non sono nemmeno ebreo dal momento che mia madre non lo è. Se questo pregiudica la legittimità della mia lettera, la si tagli pure qui o non la si pubblichi per niente. Se invece il mio cognome ha un senso ed ha un senso la mia continua, a volte difficile, difesa della storia ebraica e della storia di Israele, in contesti spesso ostili e pieni di preconcetti, allora vorrei dire che non mi sarei mai aspettato di leggere su Pagine Ebraiche (che mi interessa perché mi apre un mondo ancora poco conosciuto per uno “lontano” come me) parole come “non voglio più leggere questo signore sulla stampa ebraica” dirette ad un normale oppositore politico. Non me lo sarei aspettato e, dal momento che invece l’ho dovuto leggere, vorrei dichiarare insieme alla mia sorpresa anche tutto il mio sdegno. Chi l’ha detto può comprarselo un periodico, scriverselo e leggerselo; così potrà leggere sempre e solo quello che gli piace ed evitare questo insopportabile e astioso tiro al piccione. Una volta dichiarato che non si è d’accordo con un interlocutore, questo non basta ? Il concetto di democrazia è proprio così difficile da interiorizzare ?

Fabio Della Pergola

Marcello Di Segni e molte delle persone che sono intervenute nel dibattito “Medio Oriente, Israele e noi. Opinioni a confronto” hanno una preparazione culturale notevole. Ciò però non li autorizza, forti del loro “saper scrivere” a stravolgere in negativo chi cerca di far valere la propria opinione, opinione che provo a riassumere in poche semplici parole:
La, sicuramente e non teorica, maggioranza degli ebrei della Golà, sono con lo Stato d’Israele e non come continuamente si vuol far credere, con questo o quel partito che è al governo di Israele. La maggioranza, questa sì silenziosa, degli ebrei della Golà, soffre nel vedere che oltre ai già noti antisionisti, che condannano e criticano Israele ad ogni occasione, tralasciando ovviamente ciò che di bello ed incredibile quel paese fa in ogni ora della Sua esistenza, debbano assistere al linciaggio mediatico di questo Stato da parte di ebrei che, spesso, l’unico legame solido che hanno con Esso è qualche vacanza. Tutti noi sappiamo che come tutte le democrazie, anche quella israeliana è imperfetta, guai se non lo fosse, ma è una democrazia dove la propria dirigenza viene scelta e votata dai suoi cittadini, ebrei, arabi, cristiani, drusi, ecc. ecc. Il mio invito alla vigilia di Kippur? Certamente non è quello di prendere una lezione di ebraico (anche se è fondamentale che ogni ebreo sappia quanto meno barcamenarsi nella lingua ebraica), ma di lasciare agli antisemiti il godimento nel denigrare lo Stato d’Israele. A noi, ebrei della Golà, l’onere e l’onore di sostenere Israele comunque e qualunque sia la dirigenza politica scelta dai suoi cittadini. E per piacere, perché sostengo senza se ne ma Israele ora che al governo c’è Netanyau allora sono di destra, mentre quando sostenevo con lo stesso entusiasmo Israele quando al governo c’era Rabin Z.L., ero di sinistra? No cari miei ero, sono e sarò sempre e soltanto un ebreo che ama il suo Popolo e che ama Israele. Senza se né ma.
E nel cercare di essere seri……chatimà tovà

Settimio Mino Di Porto