“Le mie lezioni con Rav Hartman”

“Se voglio sapere quanto frum (religioso, osservante in yiddish ndr) è una persona, non vado a vedere nel suo bagno se ha strappato la carta igienica prima di Shabbat, ma guardo quanti poveri siedono alla sua tavola il venerdì sera!”. Così tuonava e rideva rav David Hartman, nato a Brooklyn nel 1931 e morto a Gerusalemme negli scorsi mesi. Il Beit Midrash vibrava della sua passione “da haredì nei toni, da uomo che cerca una sua verità nei contenuti”, amava dire un mio amico, assieme al quale spesso frequentavo le affollate lezioni del lunedì sera nel Machon Shalom Hartman, l’istituto di Gerusalemme dedicato dal rav alla memoria del padre. Entrando in una sua lezione sapevi che molto probabilmente ti saresti sentito urlare addosso. La cosa più fastidiosa che potevi dirgli era: “Sono d’accordo con te”. I motivi per cui Hartman è stato un faro intellettuale e una luce spirituale per generazioni di ebrei e non ebrei, persone diversissime fra loro, sono molti e complessi e non possono prescindere dal carisma e dal fascino umano che emanava da un Maestro in cui l’acume e il bisogno di onestà e criticità si accompagnavano al più profondo amore e al chesed per il suo popolo e per tutta l’umanità. Hartman amava “vedere ebrei felici, che mangiano per la strada, nei tavoli dei caffè all’aperto…”. “I love my people, what can I do?” era una delle sue frasi ricorrenti. In lui convivevano il bisogno di stabilire molto in alto l’obiettivo a cui puntare e una pragmatica e amorevole tolleranza per il reale. “Il centro dell’esperienza ebraica deve essere il Sinai, non Auschwitz”, diceva. “Il Sinai è il modello per una comunità viva che mira a tradurre in azioni un mondo di giustizia, solidarietà e cura del prossimo. Continuare ad abitare gli orrori passati non rinnoverà la nostra passione per una vita di giustizia”. Come diceva rav Joseph Dov Soloveitchik, di cui rav Hartman fu allievo: “Il popolo ebraico non è stato messo in questo mondo soltanto per combattere l’antisemitismo.” Ricordo rav Hartman che racconta i due opposti comportamenti di Abramo di fronte alla giustizia divina: discute per salvare Sodoma, ma accetta in silenzio il sacrificio di Isacco. Dobbiamo dare fondo a tutta la nostra capacità di sentire il dolore dell’altro, di porvi rimedio, di opporci ad esso. Questo è Chesed. Diverso è l’atteggiamento quando si tratta di noi, del nostro soffrire, spiega Hartman, e il pubblico, i suoi studenti, lo seguono con gli occhi e col respiro. L’equilibrio, delicatissimo, è fra l’umana intuizione di cosa sia morale, il nostro soggettivo senso di giustizia e la totale sottomissione al volere divino. “Esiste la Torah, esistono le leggi ed esistiamo noi, che siamo obbligati a interpretarle secondo la nostra comprensione, assumendocene la responsabilità in ogni generazione”. Il rav si scaglia contro il rabbinato di Israele che non prende decisioni, per paura, su questioni che provocano sofferenze diffuse: le agunot, donne incatenate in matrimoni dai quali non riescono a uscire e i mamzerim, persone che senza averne colpa si trovano nella condizione di non potersi sposare secondo la halakhah. Rav Hartman batte il pugno sul tavolo contro qualsiasi ebreo che non azioni il proprio giudizio morale sulle mitzvot, su chi “esegue e basta”. Non tutto è però amaro, nelle sue lezioni, a cominciare dalle dispense color pastello che raccolgono le parole di tutta la nostra storia morale e intellettuale, da Rambam a Soloveitchik, da Chazal a Eliezer Berkovitz, e forse è proprio questo a renderlo unico: la profondità nell’ascolto dell’altro, l’assunzione di responsabilità nell’agire per il bene del prossimo e della collettività (ebraica e non ebraica) si accompagnano alla leggerezza e alla gioia, vera simchah chassidica, nel vivere la propria vita con ironia, senza un’ombra di autocommiserazione. Ancora una volta il doppio modello di Avraham: tentare il tutto per tutto per salvare il prossimo, ma farsi carico delle proprie prove in silenzio. Una rivoluzione gioiosa, quella proposta e vissuta da rav Hartman, e non è un caso che si sia ricongiunto ai suoi padri proprio nel primo giorno di Adar, in cui si incomincia ad aggiungere simchah, gioia, per incamminarsi verso Purim, verso il “venaafochu”, quello stravolgimento in maschera capace di sovvertire l’ingiustizia.

Miriam Camerini, Pagine Ebraiche maggio 2013

(23 maggio 2013)