Tea for Two – Terre promesse
Quando penso a me stessa (cosa che, a causa di un orribile narcisismo di ritorno, accade assai spesso) mi rendo conto di essere molto ebrea. In particolare lo sono, perché aspiro ad un altro luogo. Il popolo ebraico per anni è vissuto con l’idea di una terra perfetta nella quale sarebbe tornato prima o poi. L’ha arredata di etica e vasi colmi di fiori e l’ha lastricata di buone intenzioni. La nostra è una religione molto umana; tanto da seguire un percorso umanissimo: ad un certo punto il vagheggiamento romantico cede il posto ad una forza sconosciuta che porta alla realizzazione di quel medesimo vagheggiamento. Ecco allora che quella terra lontana e sospesa inizia ad avvicinarsi sempre più ed a diventare concretezza. Ahi ahi, nessuno considera il trauma di veder realizzati i propri sogni nei quali ci si rifugia quando la realtà ci delude con una certa costanza. Il trauma di passare dal filosofeggiare a zappare. Il rischio di affogare la propria identità in una marea di disillusione. Il vuoto che lascia l’aspirazione perduta.
La forma mentis che tanto ci caratterizza non può però svanire da un giorno all’altro: abbiamo tutti la nostra Israele galleggiante di salvataggio. Quando prendo una musata dalla vita vera, quando chiudo porte nella speranza di portoni o semplicemente quando a tavola si parla di cibo (un tema a me piuttosto inviso: se stai mangiando perché parlarne? Se non stai mangiando perché parlarne?) comincio a veleggiare verso lidi soleggiati. Inizio ad arredare la mia terra di fantasia, ad accostare zolle di prato su zolle di prato ed a scrivere un codice di comportamento con i cuoricini sulle ‘i’. E ringrazio i realizzatori di sogni ma anche i sognatori.
Rachel Silvera, studentessa
(28 ottobre 2013)