Israele – Negoziati, banco di prova per il governo

governoNaftali Bennet, ministro dell’Economia, chiede scusa al premier Benjamin Netanyahu per aver messo in dubbio la sua politica. Anzi chiede scusa a metà. Intanto Tzipi Livni, ministro della Giustizia, sulla sua pagina di Facebook pubblica un messaggio al vetriolo contro il collega Bennet. Poche settimane prima il ministro della Difesa Moshe Yaalon mette in imbarazzo il governo criticando aspramente il segretario di Stato Usa John Kerry, autogol mal digerito dal primo ministro d’Israele. In sostanza, che l’ultima amministrazione israeliana targata Netanyahu, emersa dalle elezioni del gennaio 2013, non fosse così solida lo si era capito da tempo, dall’inizio. Ora però la tensione interna rischia di creare fratture insanabili nella coalizione e tutto, o quasi, ruota attorno al progetto di pace presentato da Kerry per risolvere il conflitto con i palestinesi.
Un tentativo che secondo l’analista del New York Times Thomas Friedman è “l’ultimo treno” che israeliani e palestinesi possono prendere per portare a termine una soluzione che preveda al fianco di Israele uno stato palestinese. Nell’idea di Kerry, ha ricordato Friedman, l’accordo passa per il riconoscimento da parte palestinese di Israele come stato ebraico, il ritiro israeliano dalla Cisgiordania con la previsione di un rafforzamento delle sicurezza nella strategica Valle del Giordano. Lo smantellamento non includerebbe però tutti gli insediamenti, con il mantenimento di alcuni blocchi in cambio di altro territorio israeliano da consegnare ai palestinesi come compensazione. Fuori dagli accordi anche la possibilità di un ritorno dei profughi palestinesi in Israele. Questa ricostruzione è stata ripresa da tutti i media israeliani e ha creato un piccolo siparietto con protagonista il giornale Haaretz: Friedman, infatti, ha dichiarato di non aver fatto nessuno scoop ma di aver semplicemente riportato i fatti già raccontati da Haaretz (cosa che il quotidiano israeliano ha prontamente fatto notare).
Interessante però la riflessione dell’analista americano in merito alle tensioni interne alla coalizione di governo israeliano. “Nonostante Netanyahu abbia iniziato a preparare il terreno per il piano statunitense – se si va avanti su queste basi, anche se con diverse riserve, la coalizione di governo collasserà. Netanyahu – scrive Friedman (traduzione riportata da Il Post) – perderà l’appoggio della maggior parte del suo stesso partito, il Likud, e tutti i suoi alleati a destra. In breve, per andare avanti Netanyahu dovrà costruirsi una nuova base politica attorno ai partiti di centro. Per fare questo, Netanyahu dovrebbe diventare, in qualche misura, un nuovo leader – superando la sua innata ambivalenza nel trattare con i palestinesi e diventando il sostenitore più entusiasta in Israele riguardo l’accordo dei due Stati”.
Netanyahu al momento sembra trovarsi su un cavallo complicato da gestire, di cui quando riesce a riprendere in mano le briglie al contempo perde le staffe. Il premier, incassate le scuse – non scuse di Bennet (che aveva apostrofato il premier affermando che “i nostri avi e i nostri discendenti non perdoneranno il leader israeliano che rinuncerà alla nostra terra e dividerà la nostra capitale”) ora deve far fronte al sempre più aspro confronto tra il suo ministro dell’Economia e la Livni, ministro di Giustizia ma anche a capo della delegazione che si occupa dei negoziati con i palestinesi. La Livni ha accusato di fatto Bennet di volere l’apartheid in Israele, di volere un paese senza equità, giustizia e diritti. Intanto anche Yair Lapid, ministro delle Finanze, aveva bacchettato il collega nonché capo del partito HaBayt Hayeudi per le sue posizioni riguardo ai negoziati. Con un certo allarmismo, Lapid ha poi messo in guardia coalizione e paese del rischio che il fallimento delle trattative potrebbe costare economicamente molto caro a Israele, avviando un processo di boicottaggio dei prodotti israeliani da parte dell’Unione Europea.
Dita puntate, dunque, da una parte e dall’altra di quello che dovrebbe essere lo stesso schieramento, con Netanyahu costretto a prendere una posizione chiara sul futuro, a riorganizzare la sua coalizione e le voci che lo sostengono. Ogni tentennamento appare come un passo più vicino verso la crisi di governo. Non scegliere è sempre possibile ma si ricadrebbe nell’immobilismo che da anni caratterizza la politica israeliana. Un immobilismo sottolineato ancor di più dalla scomparsa del decisionista Ariel Sharon, l’ultimo, a prescindere dal giudizio storico, ad aver dato una vera scossa alla questione israelo-palestinese. Ora un’opportunità di smuovere nuovamente le acque Netanyahu ce l’ha: è il treno americano (nella definizione di Friedman). Sarà Bibi a dover decidere se salire o meno. Una volta fatto, avrà anche chiaro con chi continuare il viaggio e difficilmente al suo fianco troverà sia Bennet sia Livni.

Daniel Reichel

(31 gennaio 2014)