Israele – La firma che fa naufragare i negoziati

abbas firmaMolto rumore per nulla. Il titolo della tragicomica opera shakespeariana riassume gli umori di molti commentatori israeliani e internazionali in merito ai negoziati di pace tra Israele e Autorità nazionale palestinese. Trascinatesi per mesi, con aperture reciproche seguite da reciproche accuse, le trattative rischiano ora di fermarsi al capolinea. A mettere in crisi i già delicati equilibri, lo spettacolo offerto ieri in diretta televisiva dal leader dell’Anp Mahmoud Abbas (nella foto). Per riconquistare il controllo su una West Bank sempre più divisa e in cerca di nuovi timonieri, Abbas, davanti ai riflettori, ha firmato un documento diretto ad ottenere, attraverso l’ammissione in agenzie Onu e organismi internazionali, il riconoscimento della Palestina come stato. Un modo per aggirare i colloqui di pace e forzare la mano a Israele affidandosi alla comunità internazionale. La doppia via di Abbas (che avrebbe assicurato il proseguo del suo impegno sul fronte dei trattati) non è piaciuta a Israele e nemmeno ai mediatori americani, con il segretario di Stato Usa John Kerry costretto a far saltare l’incontro previsto per ieri sera con il presidente dell’Anp. “I negoziati tra israeliani e palestinesi – scrive su Yedioth Ahronoth Nahum Barnea, una delle più autorevoli firme del giornalismo israeliano – sono la versione diplomatica del caso dell’aereo malese: sono scomparsi dal radar. Per otto mesi sono rimasti da qualche parte, senza segnali di decesso, senza segni di vita. Il buonsenso ci dice di annunciarne lo schianto, ma le parti coinvolte insistono che l’aereo è ancora in volo”.

Sull’aereo fino a ieri, prima del dirottamento a sorpresa di Abbas, sembravano dover salire diversi passeggeri, tra cui Jonathan Pollard, l’uomo che da 29 anni è recluso in un carcere del Texas per aver passato informazioni segrete a Israele, grazie alla sua posizione di analista all’interno dell’intelligence americana. Condannato per spionaggio nel 1987, Israele inizialmente non confermò il suo coinvolgimento per poi ritornare sui suoi passi fino a conferire a Pollard la cittadinanza israeliana nel 1995. Lo stesso Pollard sembrava fino a ieri la carta di scambio, giocata dagli Usa, per convincere il governo di Gerusalemme a liberare l’ultima tranche di prigionieri palestinesi, scarcerazione prevista in accordi precedenti con l’Anp. Non solo, il premier Benjamin Netanyahu sembrava propenso a procedere al congelamento della costruzione di insediamenti nella West Bank per un periodo di otto mesi, riferiscono i quotidiani israeliani e americani. Concessioni che, secondo l’analista militare di Haaretz Amos Harel, sarebbero state viste dai palestinesi come un successo di Abbas: 400 detenuti, con forse il coinvolgimento di nomi importanti, liberati senza dover ricorrere al brutale metodo usato con Gilad Shalit (il caporale israeliano rimasto nelle mani dei terroristi di Hamas per cinque anni e poi scambiato per mille prigionieri dal governo Netanyahu). Ruvido il commento di Harel sulla liberazione di Pollard.“La fanfara lacrimosa che accompagnerà il ritorno a casa del figlio perduto Pollard sarà un’espiazione sufficiente” per far superare all’opinione pubblica e alle opposizioni politiche la scarcerazione dei 400 palestinesi e il congelamento degli insediamenti, afferma Harel. Tutto scombinato dall’ultima presa di posizione di Ramallah, sempre più divisa in fazioni e con il presidente dell’Anp, come raccontavano oggi anche i giornali italiani, costretto a fronteggiare diversi possibili successori. Il gesto in diretta tv voleva essere un modo per Abbas di riprendere le redini ma il rischio è che si sia compromesso sia agli occhi dei suoi sia della controparte e dei mediatori. Per Avi Issacharoff, commentatore di Times of Israel, la cerimonia della firma di ieri – quella che ha fatto saltare i nervi a Israele e Usa – è stata “un superflua e pomposa performance dell’Autorità palestinese”. Secondo Issacharoff, Abbas non è riuscito a convincere i palestinesi, che già bollavano le trattative come un fallimento, di essere l’uomo forte che cercano. E le rassicurazioni, dall’altra parte, che i negoziati continueranno non suonano molto convincenti.
Gli Stati Uniti puntavano sul processo di pace per recuperare a livello internazionale quella credibilità che negli ultimi tempi è apparsa in crisi. Ma, sostiene Nahum Barnea, non si può far fare la pace a chi non vuole o non ci crede. E, ancora secondo il giornalista, entrambe le parti in gioco hanno interesse a trascinare nel tempo le trattative. “Il problema non è di Kerry. Il problema è nostro, palestinesi e israeliani – scrive Barnea – I palestinesi avrebbero potuto essere le persone più avanzate tra le nazioni arabe di oggi, godere di un regime democratico e una vita comoda. Stanno perdendo anni preziosi, perdendo generazioni. L’occupazione continua è perpetuare il loro insulto, la loro debolezza, la corruzione delle loro istituzioni e la loro dipendenza da donazioni esterne. Il loro unico conforto è che possono continuare a coltivare il sogno di una grande Palestina, dal fiume Giordano al mare”. Barnea però non è tenero nemmeno con Israele. “Il nostro problema è molto peggio. Una continuazione della situazione attuale necessariamente ci trasformerà in uno stato di apartheid, ostracizzati in Occidente, moralmente danneggiati, divisi al nostro interno. La fase successiva sarà uno stato bi-nazionale. Netanyahu lo sa. E tuttavia, non riesce a smettere”. Mediatori non servono, afferma il giornalista, perché ciascuna parte continuerà a minacciare o accusare l’altra di voler far fallire il negoziato. “Kerry non offre rimedi al difficile conflitto ma al massimo un’aspirina”. Almeno su questo punto, la firma di Abbas di ieri sembra aver dato ragione a Barnea.

Daniel Reichel twitter @dreichelmoked

(2 aprile 2014)