Qui Roma – Sistina, svelato il segreto ebraico
Presentato all’Accademia di Francia il volume di Giovanni Careri “La torpeur des Ancêtres. Juifs et chrétiens dans la chapelle Sixtine” (Editions EHESS 2013). Intervistato da Pagine Ebraiche, il direttore del Centro di storia e teoria delle arti di Parigi (CEHTA) racconta il suo lavoro per riportare alla luce dalla cappella Sistina gli ebrei di cinque secoli fa e il pregiudizio della Chiesa. A partecipare alla presentazione del libro, oltre all’autore, Pietro Montani (La Sapienza), Gaetano Lettieri (La Sapienza), Micol Forti (Musei Vaticani) e il direttore dell’Accademia Éric de Chassey.
Affaticati, malinconici, ripresi nei momenti della vita privata e domestica: donne in gravidanza, madri che allattano i figli, anziani stanchi e appesantiti nel pensiero e nelle membra, lavoratori di mestieri vincolati alla sussistenza quotidiana. Sono gli ebrei della Cappella Sistina, in Vaticano, testimoni nell’intenzione ideologica della Chiesa della corporeità e della condizione più terrena e meno alta possibile, tanto lontani dal grande progetto escatologico della storia cristiana, quanto necessari a definirne i confini e spiegarne l’incompiutezza. È questa la nuova interpretazione della grande opera di Michelangelo Buonarroti presentata dallo storico dell’arte romano Giovanni Careri, direttore di studi presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales (EHESS) e del Centre d’Histoire et de Théorie des Arts di Parigi, nel suo volume La Torpeur des Ancêtres. Juifs et chrétiens dans la chapelle Sixtine, uscito per le edizioni EHESS e non ancora tradotto in lingua italiana. Incontrato nel corso di un suo breve soggiorno di studio a Venezia, il professor Careri ha messo in luce i punti cardine della sua teoria, “non tanto legata alle fonti scritte, quanto piuttosto a ciò che è possibile trarre dall’osservazione delle immagini”, come egli stesso ha spiegato. Tale lettura iconologica è stata possibile solo in seguito al restauro degli affreschi della Cappella, iniziato negli anni Ottanta, che ha consentito una migliore visibilità delle singole pitture.
Com’è iniziata la sua ricerca sui soggetti dipinti nella volta che conosciamo come “antenati”?
Nel 2003 la storica dell’arte americana Barbara Wisch notò la presenza di cerchi gialli sulle braccia degli antenati. Il giallo era il colore associato all’ebraismo nella Roma papale del sedicesimo secolo e tali bracciali erano dei contrassegni della discriminazione, indossati dagli ebrei per essere distinti dai cristiani, affinché questi ultimi potessero regolare i loro rapporti con essi. Simboli di segregazione infamanti, il segno dell’esclusione dalla collettività che già allora era costretta a subire la comunità ebraica del tempo. Il riferimento non poteva essere privo di significato.
Una rivelazione che l’ha spinta ad analizzare con altro occhio i dettagli del capolavoro michelangiolesco. Che cos’è emerso?
La volta è disseminata da figure di uomini e donne che rispondono ai canoni delle più comuni rappresentazioni antiebraiche. La figura femminile intenta a rattoppare una veste di colore giallo altro non è che una straccivendola, com’erano definite le donne ebree del ghetto romano che avevano il veto di confezionare abiti nuovi e dunque ricucivano stoffe di recupero; profili quasi caricaturali maschili fanno riferimento in maniera allusiva all’icona dell’usuraio o all’ebreo errante, stancamente appoggiato al proprio bastone. Tale scelta iconografica muove da un intento preciso: riprendendo gli stereotipi dell’antisemitismo religioso dell’epoca, Michelangelo ha voluto cristallizzare nell’ebreo l’emblema della pesantezza della carne e della vita biologica, terrena. Esclusa dallo spirito.
Quale ruolo assumono queste figure nel complesso pittorico?
Sono figure necessarie al progetto storico e teologico generale della Cappella, realizzata secondo una forte carica ideologica, oltre che artistica. Nella visione escatologica della storia cristiana, c’è qualcosa che resiste al compimento del giudizio universale. Questo qualcosa è identificato nell’ebreo, raffigurato ripetutamente come negligente, spiritualmente ottuso e ritardatario nella conversione, perché incapace di accedere alla verità della rivelazione. Gli ebrei servono dunque ai cristiani per raccontare le proprie origini, la propria storia e il proprio destino.
Nel suo studio spiega che le raffigurazioni in questione non aiutano tanto a definire gli ebrei del tempo, quanto piuttosto a mettere in luce l’idea che il mondo cristiano coltivava di essi e di se stesso.
Esatto. Gli ebrei avevano in realtà un ruolo negoziabile nella capitale della cristianità. Erano mantenuti in separatezza, eppure costantemente a contatto con i cristiani, come provano le numerose norme tese a evitarlo. Ebreo era il medico del papa, perché un cattolico non era considerato adatto ad essere testimone della decadenza del pontefice, ed ebrei erano numerosi intellettuali in casa di umanisti cristiani, perché gli unici in grado di leggere i testi antichi ma non, tuttavia, di comprenderne il significato voluto dalla Chiesa. Gli ebrei rappresentavano, in sostanza, l’irriducibile “altro”, che non consentiva la composizione entro un corpo unico, l’uniformazione nel nome divino, come avrebbe dovuto essere secondo il disegno cristiano. E l’insistenza sulla loro immersione nella sussistenza, nella vita biologica e nella cura della casa, la macchia di essere come colpiti da un torpore di matrice terrena che li rendeva incapaci di cogliere la rivelazione, serve a spiegare perché i cristiani dovettero sollecitarne, anche violentemente, le conversioni.
Gli ebrei ne escono come rappresentativi della lentezza, del ritardo, della ripetizione. È quanto l’artista pensava di essi?
Non possiamo considerare le pitture di Buonarroti quali testimonianze di un suo pensiero antisemita come lo intenderemmo oggi. Questo, più che altro, era il valore a essi attribuito, tanto che egli stesso fece uso della figura dell’ebreo per autoritrarsi. Come emerge dalla lettura delle sue rime, Michelangelo non si considerò mai un buon cristiano, si sentì sempre spiritualmente tiepido, incompleto, in ritardo. E l’ebreo, stereotipo del tempo che non avanza, dell’inerzia e della stanchezza della carne, condensava in sé tutti gli elementi funzionali a rappresentare il suo tormento interiore.
La novità del suo testo è il volgere lo sguardo ai dettagli del ciclo degli antenati michelangioleschi, leggendovi, per la prima volta, un valore religioso non neutro, bensì negativo, in rapporto alla rivelazione della divinità cristiana presente ovunque negli affreschi della Cappella Sistina.
Fermi, o meglio infermi nella loro religione, gli ebrei secondo la Chiesa dovevano apparire incapaci di accedere alla sola verità. Ai loro corpi senza energia e alle loro attività terrene, si contrappongono le manifestazioni gloriose degli angeli forti e atletici del Giudizio universale. La continuità spaziale che unisce le due genealogie porta contemporaneamente una discontinuità di significato, nel contrasto che oppone gli antenati umili e ripetitivi agli atteggiamenti ieratici e dignitosi dei papi, delle sibille e dei profeti. Eppure in tali raffigurazioni tanto poco eroiche quanto profondamente umane, passa un ulteriore messaggio di grande interesse: l’antenato ebreo altro non è che l’immagine del cristiano reale, quello che componeva la gran parte del corpo ecclesiale alla vigilia della Riforma.
(disegno di Giorgio Albertini)
Vanessa Maggi, Pagine Ebraiche, maggio 2014
(21 maggio 2014)