Onu, il flop di Abu Mazen
Gli Stati Uniti non hanno dovuto nemmeno apporre il veto. La risoluzione palestinese all’Onu, da mesi al centro del dibattito diplomatico internazionale, si è risolta in un nulla di fatto: non sono bastati gli otto sì del Consiglio di Sicurezza per far passare la mozione in cui si fissava a un anno il termine per il conseguimento della pace con Israele e si ordinava la “fine dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi entro il 31 dicembre 2017”. Ad astenersi all’ultimo momento la Nigeria, facendo così mancare il nono voto necessario ai palestinesi per ottenere la maggioranza in seno al Consiglio e far approvare la risoluzione. Bocciata dunque la strategia di Abu Mazen, presidente dell’Autorità nazionale palestinese, di usare l’Onu per forzare la mano al governo di Gerusalemme, che ha sempre ribadito che l’unica via per raggiungere la pace è il negoziato. Ma bocciato anche il tentativo della Francia di inserirsi come possibile terza parte tra israeliani e palestinesi. Parigi – che ieri ha votato sì alla risoluzione nel Consiglio di Sicurezza, assieme a Cina, Russia, Argentina, Cile, Ciad, Giordania e Lussemburgo – infatti si era fatta promotrice in queste ultime settimane di un testo palestinese più morbido per poi doversi scontrare con il rifiuto di Ramallah. Rifiuto che non ha impedito al corpo diplomatico dell’Eliseo di votare a favore della mozione palestinese. Un modus operandi, rilevano gli analisti, rimasto indigesto agli Stati Uniti e al segretario di Stato Usa John Kerry. Tanto che le parole dell’ambasciatrice Usa all’Onu Samantha Power suonano taglienti sia all’orecchio palestinese sia a quello francese. Per la Power la proposta presentata ieri ai quindici paesi del Consiglio di Sicurezza era “inutile, irresponsabile e rischiava di far cadere la situazione in una spirale verso il basso”. “Il fallimento della risoluzione palestinese dovrebbe insegnare ai palestinesi stessi che le provocazioni e i tentativi di imporre misure unilaterali a Israele non porteranno a nulla”, ha dichiarato il ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman, lanciando il suo messaggio anche a quei paesi che alla risoluzione hanno dato il proprio appoggio. Leggasi Francia. Ma in Israele, in cui oggi si svolgono le primarie del Likud con il premier Benjamin Netanyahu praticamente certo di vincere sullo sfidante Danny Danon, non può veramente sorridere dopo ieri.
“Israele ora ha un po’ di spazio per respirare – commenta sul Times of Israel l’analista Raphael Ahren – niente di più”. Il voto francese non è infatti un bel segnale e rientra nelle diverse mozioni approvate da alcuni parlamenti europei nell’ultimo mese a favore del riconoscimento della Palestina. La Gran Bretagna, che ieri si è astenuta, ha comunque fatto sapere che in linea di principio “sostiene diversi punti presenti nella risoluzione – le parole di Mark Lyall Grant, ambasciatore britannico presso le Nazioni Unite – È con grande dispiacere che ci asteniamo”. La Cina, con cui Israele negli ultimi anni ha cominciato ha costruire un intenso scambio commerciale, ha votato sì: anche loro sono a favore del ritiro israeliano entro i confini del ’67. Del voto favorevole russo a Gerusalemme nessuno si è stupito: il Cremlino è in guerra con Washington e sostiene da tempo il regime siriano di Assad, nemico di Israele.
Nemmeno il no statunitense, afferma Chemi Shalev su Haaretz, è da interpretare come una grande vittoria. La proposta americana per la pace tra palestinesi e israeliani rimane quella portata avanti da Kerry, le cui posizioni non hanno trovato grandi sostenitori nell’ultimo governo israeliano, Yair Lapid e Tzipi Livni a parte (i due ministri espulsi da Netanyahu ai primi di dicembre). L’atteggiamento americano rispetto a Gerusalemme e Ramallah dipenderà molto dai risultati delle elezioni israeliane del prossimo 17 marzo. Intanto i palestinesi dopo la bocciatura di ieri, continuano a seguire la via diplomatica: l’Anp vorrebbe far riconoscere la Palestina come membro della Corte penale internazionale per poi portarvi Israele con l’accusa di presunti crimini di guerra. In tutto questo Hamas, il movimento terroristico che controlla Gaza e che teoricamente siede assieme all’Anp in un governo di unità, accusa Abu Mazen di aver agito da solo e quindi di aver fallito da solo. Un fallimento che secondo alcuni sarebbe invece stato preventivato da Abu Mazen stesso: a Ramallah avrebbero avuto paura del veto Usa, una scure che avrebbe potuto incrinare in modo pericoloso i rapporti con Washington. Da qui la scelta di presentare la mozione ieri e non aspettare il nuovo anno e soprattuto la nuova configurazione del Consiglio di Sicurezza Onu, più favorevole ai palestinesi. In altre parole Abu Mazen si sarebbe autosabotato per non rompere i rapporti diplomatici con gli Usa. Interpretazione difficile da considerare attendibile visto che la Nigeria ha cambiato idea solo all’ultimo, astenendosi.
Daniel Reichel
(31 dicembre 2014)