Qui Torino – “Il flebile filo della memoria”
Presentato al Museo Diffuso di Torino, “Il flebile filo della memoria” è uno spettacolo che rende il pubblico protagonista, un pubblico che mai avrebbe pensato di ritrovarsi in scena, o meglio, di unirsi agli attori e ritrovarsi atapultati in medias res in un’atmosfera tutt’altro che surreale. Anzi, così realistica da rimanere sconvolti.
Non c’è sipario, non c’è palco, non ci sono sedie. Lo spazio non è diviso tra attori e pubblico. Da un corridoio fa capolino un uomo in uniforme beige, fa segno di seguirlo. Si entra in una stanza semibuia e si viene investiti da ordini in tedesco misto a italiano: “Avanti! Schnell! Veloci!”. Bisogna avvicinarsi. Una donna vestita di nero afferra a turno un braccio di coloro che erano il pubblico e vi avvolge attorno una fascia di cotone su cui è stampato un numero. “Tu a destra!”, “Tu a sinistra!”. Un uomo apre davanti agli occhi dei malcapitati una sacca di tela: “Metti qui i tuoi effetti personali”, poi comincia a fare domande e davvero ci si trova a rispondere: “Quanti anni hai?, Hai tatuaggi?, Apri la bocca e fai vedere i denti!”. Smistati in due gruppi, istintivamente si cerca lo sguardo degli amici. Da cui si è stati separati. Improvvisamente la donna urla: “ Alle docce!”. Il pubblico deve entrare in un tendone bianco, tutti insieme. Qualche istante di silenzio.
Non sapevo dove guardare. Su una spalla avevo ancora la mia borsa, con una mano stringevo il sacco di tela e sentivo sul braccio la presenza di quella fascia col numero. Il confine tra finzione e realtà era svanito in pochi minuti. Non erano docce, non eravamo in un campo di concentramento. Eppure riuscivo a stento a pensare a cosa in realtà fossi venuta a fare lì.
Ma ecco che su una parete bianca del tendone cominciano ad essere proiettate immagini di volti, di denti, di corpi ammassati come fossero ormai carcasse svuotate. Mi guardo intorno.
Attorno a noi fuori dal tendone gli attori recitano, parlano, cercano di raccontare la deportazione, la distruzione, la liberazione, il ritorno facendo capo a testimonianze reali di sopravvissuti alla Shoah. Le voci ci ammoniscono di ricordare, di non dimenticare, quasi come se fosse una legge. Elencano alcuni nomi o cognomi di deportati, e ti si gela il sangue ogni volta che senti un David, un Luzzatto. Le ultime immagini sono accompagnate dalle note di Gam Gam, gli attori non parlano più e lasciano il posto alla musica. Un sorriso fa capolino sul mio volto, non guardo mia mamma, ma so che sta sorridendo anche lei. È un sorriso amaro, fatto di compartecipazione, di inteso coinvolgimento, di profondo sgomento, ma allo stesso tempo quelle note, quei nomi conosciuti ti danno la sensazione di sapere davvero chi sei. Ora più che mai sai qual è il tuo ruolo e sai qual è il tuo compito. Tu devi essere colui che porta avanti il ricordo, la memoria, il rispetto e l’impegno futuro.
Aprono il tendone, ci fanno uscire. Porgono ad ognuno una foto e una pietra e ci invitano a poggiarli per terra. “Per non dimenticare!”, ripetono, perché ad oggi non ci resta che un flebile filo di memoria ed è nostro dovere fare in modo che non si spezzi.
I quattro attori abbozzano un inchino. Lo spettacolo è finito. Parte un applauso lungo, intenso, sentito e la realtà torna pian piano ad invadere l’atmosfera.
Trenta minuti di performance, ogni secondo è stato vissuto due volte: da spettatore e da protagonista.
Lo spettacolo è stato realizzato dalla compagnia teatrale “Lontani dal Centro”, impegnata dal 2003, anno della fondazione, nella sperimentazione di contaminazioni tra le diverse discipline artistiche e nella ricerca di una nuova relazione con il pubblico. La loro idea di far teatro nasce dalla volontà di creare una reale comunicazione con il pubblico per rispondere ad un bisogno impellente di condividere con esso il loro cammino.
Alice Fubini
(26 gennaio 2015)