Dopo Copenhagen – Il futuro dell’Europa

w-je-suis-copenhagenNon ci sarà un’altra Bruxelles. Non ci sarà un’altra Parigi. Non ci sarà un’altra Copenhagen. Eppure, al di là dei moniti e delle parole di rito, le uniche considerazioni che suonano dolorosamente vere sono quelle di Jay Michaelson, editorialista dell’americano Forward: “non c’è nessuna ragione perché quanto accaduto non accada nuovamente”. “Abbiamo assaggiato l’amaro sapore della paura e della debolezza che il terrorismo vuole creare”, ha dichiarato il primo ministro danese Hellen Thorning-Schmidt, ma gli ebrei danesi quell’indigesto boccone se lo aspettavano. Nelle varie cronache nazionali e internazionali si riportano le emozioni della Comunità ebraica di Copenhagen: “siamo sotto shock ma non siamo sorpresi”, il leitmotiv delle dichiarazioni. “Il livello della minaccia contro la società e la Comunità ebraica è alto da molto tempo; tutti erano al corrente di questo, e ora è accaduto quel che accaduto”, afferma Jeppe Juhl, rappresentante della Comunità ebraica danese. “I terribili fatti di sangue delle scorse ore, l’agguato alla sinagoga Krystalgalde e il precedente attacco al convegno sulla libertà d’espressione, dimostrano come gli eventi di Parigi non siano un caso isolato ma parte di una comune strategia per diffondere terrore e insicurezza tra la popolazione”, aveva dichiarato il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna a poche ore dall’attentato di Copenhagen, in un messaggio di cordoglio inviato al presidente della Comunità ebraica della Capitale danese Dan Rosenberg Asmussen. E ora? Cosa accadrà dopo Copenaghen, si chiede sulle pagine del Times of Israel David Harris, direttore esecutivo dell’American Jewish Committee (AJC). “Ci saranno le visite alle sinagoghe, gli eventi di solidarietà, le dichiarazioni di angoscia e le prese di posizione collettive e risolute. Ma cambieranno davvero qualcosa? Questo è da vedere”, afferma Harris che in otto punti illustra all’Europa quali siano, a suo avviso, le prime mosse da fare per contrastare il crescente antisemitismo e la minaccia terroristica, tra cui: capire che l’antisemitismo non è un attacco agli ebrei ma è un assalto ai valori europei; smettere di assimilare l’antisemitismo all’islamofobia; chiamare le cose come stanno, ovvero denunciare chiaramente la matrice islamista dei recenti sanguinosi attacchi che hanno sconvolto l’Europa. “Ultimo ma non meno importante, è capire che la barbarie jihadista che l’Europa ha toccato con mano non è molto differente da ciò che Israele sta affrontando da decenni – scrive Harris – Perché allora l’Europa continua a fare distinzioni quando in realtà queste non esistono?”. E il confronto Israele-Europa è tornato agli onori delle cronache dopo il rinnovato invito del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu agli ebrei europei a fare l’Aliyah, ad emigrare (letteralmente, salita) in Israele. “Il terrorismo non è una ragione per emigrare in Israele”, il commento del rabbino capo di Danimarca Jair Melchior. Ma la riflessioni che apre l’appello di Netanyahu sono molteplici: “se gli ebrei emigrassero in massa in Israele spinti dalla paura e dalla sensazione di non essere tutelati come cittadini sarebbe una doppia sconfitta sia per gli ebrei che per l’Italia e per l’Europa – l’analisi del presidente dell’UCEI Gattegna – Vorrebbe dire che l’Europa non è in grado di difendere i diritti fondamentali sanciti nelle carte costituzionali di tutti gli Stati. Vorrebbe dire che gli ebrei non godrebbero degli stessi diritti degli altri cittadini, tra i quali è prevista la libertà di espatriare e di emigrare ma non certamente la costrizione a farlo”.
Le Comunità ebraiche d’Europa e in particolare italiane, afferma il presidente UCEI, non sono “straniere” ma sono parte integrante del tessuto sociale dei diversi paesi a cui appartengono, in cui hanno costruito radici plurisecolari e di cui sono orgogliosamente cittadine. Eppure sembra mancare nel mondo circostante questa consapevolezza. A porre il problema, in modo forse sin troppo crudo, lo scrittore spagnolo Gabriel Albiac in un suo editoriale pubblicato dal quotidiano Abc e reinterpretando la famosa battuta sugli ebrei e i ciclisti: “bisogna uccidere i ciclisti e gli ebrei”, dice il barbaro. Chiede l’uomo civilizzato, “perché i ciclisti?”. La chiave di lettura di Albiac appare sin troppo macabra, eppure dopo Tolosa, dopo Bruxelles, dopo Parigi, dopo Copenaghen, l’Europa dovrebbe abbandonare le parole e difendere in modo efficace l’ebraismo del Vecchio Continente, come invocava oggi Moshe Kantor, presidente del Congresso ebraico europeo. Altrimenti, “non c’è nessuna ragione per credere che quanto accaduto non accada nuovamente”.

Daniel Reichel

(16 febbraio 2015)