Qui Torino – Testimonianze dall’inferno

wolfSarà proiettato questa sera al Centro sociale della Comunità di Torino “Wolf”, il documentario di Claudio Giovannesi in cui David Meghnagi intervista Wolf Murmelstein, ex internato con il padre al campo di Teresienstadt. L’intervista riguarda la controversa storia del padre, il rabbino Benjamin Murmelstein, ultimo Presidente del Judenrath di quel campo. Riprendiamo qui l’intervista fatta a Meghnagi e pubblicata lo scorso anno da Pagine Ebraiche

Una vita mai fuori dall’ombra della tragedia

Una vita caduta nel silenzio. Una prigione solitaria in cui non c’è spazio per la condivisione del dolore. Sulle spalle un’eredità difficile con cui confrontarsi, incompresa da molti, in particolare da chi si affretta a dare un giudizio storico senza appello, dimenticandosi che le storie dei sopravvissuti alla Shoah non possono essere valutate con superficialità. “Ci vuole tempo per comprendere”, afferma David Meghnagi, psicoanalista nonché ideatore e direttore del Master internazionale di secondo livello in Didattica della Shoah presso l’Ateneo di Roma Tre. Tempo che Meghnagi ha dedicato nel consolidare l’amicizia con Wolf, il figlio del rabbino di Vienna Benjamin Mulmerstein, noto per essere uno dei membri del Consiglio ebraico di Terezin. Un uomo la cui pesante eredità è ricaduta sul figlio Wolf. A questo complesso e delicato rapporto Meghnagi, affiancato dal regista Claudio Giovannesi, ha dedicato il documen- tario Wolf, prodotto da Vivo Film con Luce Cinecittà.

Professor Meghnagi, come nata l’idea di questo documentario?

Ho conosciuto Wolf Mulmerstein molti anni fa. Mi telefonò per incontrarmi. Ricevendolo nel mio studio, mi disse: “Non sono qui per un’analisi”. “Ho bisogno di confrontarmi con qualcuno che possa capire”. Ascoltando ho avuto il pensiero che avrei dovuto realizzare un giorno un documentario o un libro a due voci, che aiutasse a rendere il suo dolore più condiviso. Passarono anni. Poi tre anni fa, resi partecipe del mio progetto Luciano Sovena, amministratore delegato dell’istituto Luce. All’incontro era presente Giovanna Pugliese che ha frequentato il nostro Master. Sovena accolse positivamente l’idea e m’indicò un regista giovane, Claudio Giovannesi. Non è stato facile convincere Wolf Murmelstein. Alla fine accettò.

La chiave di questa storia è il ruolo del padre di Wolf, che si autodefinì l’Ultimo degli ingiusti per il ruolo che ebbe nel ghetto di Terezin.

Terezin non era “un ghetto” nel senso tradizionale del termine. Era un “ghetto – campo”, istituito artificialmente e che servì a far sparire molti ebrei del Reich senza creare troppi sospetti. Con inganno molti anziani furono spinti ad acquistare una casa dove vivere “in una città per ebrei”. Molti deportati avevano dei parenti non ebrei, altri erano studiosi noti, musicisti, politici, persone decorate nella Grande guerra. Qualcuno avrebbe potuto chiedere di loro. Terezin funzionò come specchio per le allodole per ingannare i funzionari della Croce Rossa.

La Storia dei Consigli non è molto nota.

Parliamo di una tragedia nella tragedia. Dopo lo sterminio nel più totale silenzio del mondo, gli ebrei hanno dovuto sopportare la beffa di essere accusati di non essersi difesi e di avere collaborato alla loro distruzione. In realtà la storia dei Consigli è la storia di strategie diverse di sopravvivenza in situazioni impossibili e d’isolamento totale. Parlare di collaborazionismo in questi casi è un falso. Gli ebrei sono vittime. Ovviamente le vittime non sono tutte uguali e la zona grigia di Primo Levi è più complessa di quanto lui stesso non lasci trasparire nel suo ultimo libro. Per valutare il comportamento dei Consigli bisognerebbe studiare il contesto storico. Per capire la situazione bisogna ricordare la politica attendista dei sovietici, della resistenza polacca, la decisione americana di non bombardare le strade che conducevano ai campi. Questo è il vero dato da cui bisogna partire per comprendere la complessa e tragica situazione in cui si trovarono ad operare i consigli ebraici. Eppure la ‘amidà’ non venne meno e furono molti gli episodi di eroismo.

Di fronte a questo quadro c’è la storia di un figlio, cresciuto nella solitudine paterna. Chi è Wolf Mulmerstein?

La vita di Wolf è occupata dalla storia del padre. È schiacciata da un’esperienza terribile che si è tradotta in un esilio interiore. Non è che la comunità non abbia testimoniato il suo affetto. Al “Tempio dei giovani” lo Yizchor per il padre è stato letto da Shalom Bahbout. Quando il dolore è grande, la necessità di empatia lo è altrettanto. Nel corso delle riprese, ci siamo trasferiti a Praga dove si teneva un raduno di sopravvissuti a Terezin. Wolf non è venuto per motivi di salute ma anche per la difficoltà a vivere un impatto emotivo così forte. Ci siamo andati noi e da lì lo abbiamo messo in contatto con una signora che aveva conosciuto il padre; poi con Toman Brod, storico della Shoah deportato a Terezin e poi Auschwitz. Nel corso delle riprese ho proposto a Wolf di andare insieme in Israele. Il suo sogno era di piantare un albero. Chi sa che un giorno non lo faremo insieme. Una scena toccante è la visita al rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni. Poi gli ho chiesto di visitare insieme la tomba del padre. Non ci è voluto venire. Ci sono andato da solo. Il luogo in cui è sepolto il padre, in origine ai margini, è ora la parte centrale del cimitero. La tomba è vicina al tempietto. Non lontano c’è la tomba della Spizzichino, che è stata ad Auschwitz. La memoria è in movimento, anche gli spazi che la definiscono

È cambiato qualcosa nell’arco del percorso?

Dopo la guerra, i sopravvissuti hanno costruito una comunità basata su un dolore condiviso, di cui Wolf non faceva parte. Il padre viveva con una pistola puntata alla tempia e non parlava mai. Wolf è cresciuto nel silenzio, in un alone di colpa che si è trascinato in famiglia dal processo di Praga fino a Roma. Il percorso che abbiamo fatto insieme è stato un atto di restituzione, non so quanto riuscito.

Una riconciliazione che non c’è stata dunque per una mancanza di condivisione di un’esperienza tragica come quella della Shoah?

I sopravvissuti portano con sé un fardello, quello di essere riusciti a tornare quando magari chi era davanti a te non ha avuto la stessa sorte. Non tutti hanno la forza di convivere con questa terribile esperienza del dolore. Coloro che sono riusciti a fare internamente i conti con la propria esperienza, ne sono usciti trasformati. Da vittime sono diventati testimoni e profeti. Mi chiedo spesso come abbia potuto l’ebraismo reggere una frattura così grande nel tempo e nello spazio, a continuare a credere e vivere. proposito di comprensione della Shoah, sembra si stia sviluppando nella società una pericolosa forma di banalizzazione legata alla Shoah, addirittura insofferenza nei confronti del Giorno della Memo- ria. Quanto è pericoloso questo clima? Il 27 gennaio è la data che simbolicamente segna la fine del nazismo. Avere presente questa data non è solo un monito per il passato, ma una memoria del futuro. Senza l’elaborazione di quel che ha significato la tragedia della Shoah, l’idea stessa di un’Europa democratica sarebbe impensabile. L’istituzionalizzazione di questo processo è un atto necessario. Nessun ricordo può essere coltivato se non è, almeno in parte, ritualizzato. Tocca a noi fare in modo che i riti non si svuotino di contenuto, che mantengano la loro carica di significato. La banalizzazione e la trivializzazione non sono cominciate oggi. Erano all’opera anche prima. Immaginare una società senza questi pericoli è irrealistico. Il Talmud insegna che in ogni generazione ognuno deve pensare se stesso come se egli “fosse uscito dall’Egitto”.

Daniel Reichel
Pagine Ebraiche, febbraio 2014

(10 marzo 2015)