Tre colpi al cuore d’Israele
“Vent’anni sono passati da quando le tre pallottole di un ignobile assassino ebreo hanno spezzato la vita di Yitzhak Rabin, lasciando un vuoto enorme nel cuore del popolo. Ricordo quel momento come se fosse oggi. Ed anche il bagliore di speranza negli occhi delle decine di migliaia di cittadini, radunati nella piazza per far sentire il loro entusiastico appoggio contro la violenza e per la pace”.
Shimon Peres, allora ministro degli Esteri, racconta così quel 4 novembre del 1995, il giorno in cui Israele assistette all’omicidio politico che cambiò la storia. Lo ricordano tutte quelle persone che quel giorno a Tel Aviv affollavano Kikar Malchei Israel, la piazza dei Re di Israele, poi rinominata Kikar Rabin, piazza Rabin. Ma lo ricordano anche tutti quelli, in Medio Oriente e non, che appresero la notizia dalla voce del capo dell’ufficio di Rabin Eitan Haber, a cui toccò fare l’annuncio fuori dalle porte dell’ospedale: “Il governo di Israele annuncia con costernazione, enorme tristezza e profondo dolore, la morte del Primo ministro e ministro della Difesa Yitzhak Rabin, assassinato stasera a Tel Aviv. Il governo si riunirà tra un’ora per compiangerlo, sia la sua memoria di benedizione”. Quei tre spari, partiti dalla pistola di un ebreo estremista, colsero di sorpresa chi pensava di vivere il momento di massima speranza di un processo di pace che dopo la firma degli accordi di Oslo sembrava essere a una svolta.
A premere il grilletto fu Yigal Amir, venticinquenne iscritto al secondo anno della facoltà di legge a Herzliya, figlio di genitori ultraortodossi immigrati dallo Yemen. Il biografo di Rabin Dan Ephron ha ascoltato tutti i nastri e le trascrizioni della dettagliatissima e imperturbabile confessione di Amir e ne ha descritto il passaggio “da scontento attivista di estrema destra a omicida fanatico”. Mentre gli accordi di Oslo prendevano forma concreta, Amir cominciò a organizzare varie manifestazioni nella convinzione che Rabin stesse mettendo in pericolo la sicurezza dei cittadini israeliani, e in particolare gli abitanti degli insediamenti, e cercò anche di crearsi il suo piccolo esercito personale. Ma l’idea dell’assassinio, spiega Ephron, nacque circa un anno prima di quando fu messo in atto, quando Amir incontrò inaspettatamente Rabin al matrimonio di un amico a Tel Aviv. “Stupito da quanto vicino potesse arrivare al primo ministro – racconta – e per giunta con una pistola in grembo, egli promise di non lasciarsi sfuggire l’opportunità una seconda volta. ‘Un giorno mi dispiacerà se non lo uccido’, si disse”.
Amir condivise i suoi piani solo con il fratello e con un amico, ma furono in molti quelli che comunque gli sentirono esprimere il desiderio di vedere Rabin morto e addirittura di essere lui a ucciderlo. “Le forze di sicurezza israeliane – scrive Dexter Filkins sul New Yorker – erano concentrate sul terrorismo palestinese, e usarono poche risorse per rintracciare gli estremisti israeliani. Gli agenti dello Shin Bet erano al corrente di quelle chiacchiere inquietanti nei circoli estremisti, ma non erano preparati alla minaccia”.
E su questo si concentra la denuncia del regista israeliano Amos Gitai, che alla Mostra del cinema di Venezia ha presentato il suo ultimo film intitolato Rabin the last days, in cui ricostruisce l’ultimo giorno di vita di Rabin riesaminando tutti i documenti della commissione che indagò sul suo omicidio. “La commissione aveva mandato solo sul collasso operativo nella scena del delitto, non sull’incitamento che armò la mano del killer”, ha affermato Gitai in un’intervista al Corriere della sera.
Il clima era dunque piuttosto teso, con alcuni atti di violenza e opinioni fondamentaliste che si diffondevano negli ambienti di cui Amir faceva parte. Nelle settimane precedenti quel 4 novembre, tre rabbini estremisti residenti in Cisgiordania scrissero che sarebbe stato accettabile uccidere Rabin in quanto egli aveva secondo loro tradito il popolo ebraico, sulla base del principio del “din rodef”, ossia il dovere di uccidere un uomo colto a inseguirne un altro indifeso. Amir stesso disse poi negli interrogatori di aver consultato vari rabbini in merito.
Così i giorni passarono, e mentre gli accordi di Oslo entravano in vigore, in realtà gli attacchi terroristici continuavano, cosa che creò un po’ di disillusione nell’opinione pubblica e fece sì che le fazioni anti-Oslo cavalcassero il clima di insicurezza per indebolire Rabin sul piano politico. Ma a quella manifestazione ai primi di novembre c’erano migliaia di persone, e proprio mentre il primo ministro invocava la pace, la violenza lo fece tacere con tre pallottole nella schiena.
Quelle che seguirono furono ore frenetiche: la corsa in ospedale, l’interrogatorio di Amir, controllato e impassibile (“Non voglio che le persone pensino che sono pazzo, altrimenti non raggiungerò il mio obiettivo di mobilitarle”), la notizia del decesso, le riunioni del governo, la gelida soddisfazione dell’assassino, che chiese gli venisse portata della grappa per brindare.
Una soddisfazione che sconvolge, ancor più di fronte alle considerazioni dello scrittore israeliano Edgar Keret. “La storia è piena di assassini politici che hanno ottenuto l’effetto opposto di quello auspicato dai loro esecutori. L’assassinio di Martin Luther King promosse il processo di uguaglianza dei neri e quello di Lincoln non ripristinò la schiavitù negli Usa. Quello di Rabin, invece, ha realizzato il progetto dell’assassino, e fermato il processo di pace”. E la domanda che aleggia in ogni pagina scritta sull’argomento è: “Cosa sarebbe successo se quel 4 novembre 1995 non ci fosse mai stato?”.
Francesca Matalon twitter @fmatalonmoked
(Nell’immagine in alto Rabin canta la canzone per la pace Shir laShalom durante la manifestazione del 4 novembre 1995, in basso la prima pagina del New York Times dopo l’assassinio)
(4 novembre 2015)