Qui Roma – Usa, l’alleato da non perdere
Eitan Haber, portavoce dell’ex Primo ministro israeliano Yitzhak Rabin (1922-1995), sarà protagonista di una serata, organizzata dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, al Centro Ebraico Pitigliani di Roma, giovedì 12 novembre (ore 20.30). Un’occasione per discutere e riflettere, a vent’anni di distanza dall’assassinio del premier, in compagnia dei giornalisti Antonio Polito (Corriere della sera) e Anna Momigliano (Rivista Studio).
“Solo quando diventi Primo ministro capisci quanto Israele dipenda in tutto e per tutto dall’America. Sia per quanto riguarda la diplomazia, la sicurezza così come l’economia. A poco a poco i tuoi toni cambiano perché capisci che senza l’America la tua aeronautica è bloccata. E quando non hai l’aeronautica non hai difesa. Puoi davvero fare ben poco senza di loro. Siamo nel taschino dell’America”.
Nel 2013, facendo un bilancio a vent’anni dagli Accordi di Oslo firmati a Washington dal Primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e dal leader palestinese Yasser Arafat sotto gli occhi vigili del Presidente Usa Bill Clinton, Eitan Haber ha dato un quadro chiaro del suo punto di vista in politica internazionale: Israele non può fare a meno degli Stati Uniti.
Una riflessione particolarmente significativa quella di Haber, storico portavoce di Rabin e legato a lui da un sodalizio trentennale, se letta alla luce delle tensioni diplomatiche tra Usa e Israele emerse negli ultimi tempi. In particolare nell’ultimo anno, che ha visto gli attuali leader dei rispettivi Paesi, Barack Obama e Benjamin Netanyahu, contrapposti in posizioni antitetiche e con orizzonti che non sembrano mai coincidere; soprattutto dopo la firma da parte degli Stati Uniti dell’accordo sul nucleare con l’Iran, che ha aperto a Teheran le porte dell’Occidente ed è stato duramente contestato dal governo israeliano.
Proprio oggi è atteso un faccia a faccia tra i due, che si incontreranno a Washington per discutere su nuovi aiuti militari per Israele e riguardo alla situazione in Cisgiordania.
Quello tra Obama e Netanyahu, commentava Haber questa estate sulle colonne di Yedioth Ahronot, sembra essere un scontro non esente da personalismi: “Dicono – ha scritto – che Netanyahu stia camminando in tondo nell’ufficio del Primo ministro e mugugni tra sé e sé e a chi gli sta accanto: ‘Riuscirò sconfiggere Obama!'”. Una lotta, quella ingaggiata dal Premier che, secondo Haber, alla lunga non gioverebbe di certo allo Stato ebraico: “Il problema non è chi dei due vincerà questa guerra. Obama se ne tornerà a Chicago tra un anno e Bibi prima o poi si ritirerà dalla scena politica. Il problema è su di noi, gli israeliani, che potrebbero essere lasciati soli con la bomba atomica iraniana e un’America che potrebbe non dimenticare e non perdonare”.
Analizzando la storia dei rapporti tra Israele e Stati Uniti, non si può non prendere in considerazione l’enorme passo in avanti avvenuto durante la carriera diplomatica e politica di Yitzhak Rabin, le cui scelte vennero discusse e condivise proprio con il suo braccio destro; Eitan Haber.
Particolarmente significativo nell’evoluzione del legame, è stato il periodo in cui Rabin divenne ambasciatore d’Israele negli Stati Uniti (1968-1973) dopo 27 anni di carriera militare e poco prima di prendere il posto del Premier Golda Meir. Come prima mossa, Rabin studiò attentamente le dinamiche politiche americane, il rapporto con la stampa e intuì il ruolo fondamentale assunto dalle organizzazioni ebraiche statunitensi. “Negli ultimi anni della sua vita Rabin aveva capito – dirà poi Robert Lifton, ex presidente dell’American Jewish Congress – quanto fosse centrale avere l’appoggio della gioventù ebraica americana per il futuro d’Israele”. Come ambasciatore negli Usa, cambiò le carte in tavola, appoggiando la candidatura del repubblicano Nixon e contravvenendo alla tradizionale predilezione degli ebrei statunitensi per l’asinello dei democratici.
Una mossa strategica assai astuta che gli permise di creare un sodalizio con il braccio destro del vittorioso Nixon, Henry Kissinger. Fu infatti lo stesso Kissinger nel 1970 a chiedere l’intervento d’Israele, tramite Rabin, per aiutare re Hussein di Giordania a fronteggiare il pericolo proveniente dalla Siria e palestinesi che volevano attentare alla sua leadership e che portò i due paesi a conquistarsi un nuovo rapporto (un primo passo verso la storica pace siglata negli anni ’90). Durante il suo periodo americano, il futuro Primo ministro riuscì poi a creare nuovi canali di comunicazione con l’Egitto e soprattutto venne a contatto con la politica economica vigente negli Stati Uniti.
“Qualcuno si ricorda – scrive Haber – che durante il governo di Rabin negli anni ’90 – l’economia d’Israele è cresciuta 7.4/7.8%? Un miracolo globale”. E se la prima parte della carriera di Rabin fu contrassegnata dalla forte influenza degli Stati Uniti, essa è stata imprescindibile anche nei suoi ultimi e cruciali anni di vita come l’alleato con la A maiuscola e il mediatore che riuscì a portare a casa la firma degli Accordi di Oslo con i quali i palestinesi riconoscevano Israele e Israele si impegnava a cedere alcuni territori.
“Oggi – disse l’allora presidente Bill Clinton, durante il suo funerale – chiedo a tutti voi di guardare questa scena: guardate i leader di tutto il Medio Oriente e del mondo che sono arrivati qui oggi per Yitzhak Rabin e per la pace”. La sua elegia terminava infine con un inequivocabile “Shalom chaver”, ciao amico. Un’amicizia, dopo vent’anni, che sembra da ricostruire.
Rachel Silvera twitter @rsilveramoked
(9 novembre 2015)