Netanyahu: “L’Iran resta una minaccia”
“Se non fosse stato per i nostri sforzi che hanno aperto la strada alle sanzioni su Teheran, l’Iran avrebbe ottenuto un’arma nucleare molto tempo fa”. Così il Primo ministro d’Israele Benjamin Netanyahu ha commentato, nel corso della riunione di gabinetto di inizio settimana, la notizia della revoca delle sanzioni sull’Iran. Nelle scorse ore infatti la responsabile della diplomazia europea Federica Mogherini in una conferenza stampa congiunta a Vienna, con il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif, ha dato annunciato l’entrata in vigore dell’accordo sul nucleare e la conseguente sospensione delle sanzioni sul regime di Teheran sia da parte dell’Europa sia da parte degli Stati Uniti. “La posizione d’Israele è e rimane esattamente la stessa: impedire all’Iran di ottenere le armi nucleari. Ciò che è chiaro è che Teheran ora dirigerà i suoi mezzi per finanziare attività terroristiche nella regione e nel resto del mondo e Israele è pronto a gestire questa minaccia”, l’analisi di Netanyahu. Il Premier si è poi rivolto alla comunità internazionale chiedendo uno stretto controllo sulle attività iraniane e ribadendo la necessità di prevedere l’immediato reintegro delle sanzioni in caso di violazioni dell’accordo sul nucleare. Un’intesa contro cui il capo del governo di Gerusalemme si è sempre pronunciato contrario, raggiungendo livelli di scontro decisamente elevati con l’amministrazione Usa guidata dal presidente Barack Obama. Nonostante i tentativi di Netanyahu, l’accordo non è stato affossato dal Congresso americano e ora, dopo la revoca delle sanzioni, 30 miliardi di dollari saranno subito a disposizione del regime degli Ayatollah. Haaretz riporta che indagini ufficiali di funzionari iraniani hanno fissato l’importo totale dei beni iraniani congelati all’estero a 100 miliardi di dollari. Anche l’embargo petrolifero europeo è pronto a terminare. Già circa 38 milioni di barili di petrolio si trovano in riserve galleggianti dell’Iran, pronti ad entrare nel mercato, secondo l’Agenzia internazionale per l’energia.
L’Iran non è l’El Dorado
Not so fast, non così in fretta. Così ammoniva l’Economist poche settimane dopo la firma dell’accordo sul nucleare iraniano, rivolgendosi a uomini d’affari e delegazioni governative ansiose di fare business in un paese da 80 milioni di abitanti e con una delle più ingenti riserve di petrolio del globo. Da quando l’intesa è stata finalizzata lo scorso luglio, e persino nei mesi precedenti, tra Teheran e le capitali del mondo, occidentale e non, il traffico è stato frenetico. Il tutto in attesa del “Giorno dell’Implementazione”, previsto per inizio 2016, in cui le sanzioni dovrebbero essere effettivamente superate.
Eppure, potrebbe essere imprudente affrettarsi a dipingere la Repubblica degli Ayatollah come un El Dorado per curare economie sofferenti.
L’accordo raggiunto è stato oggetto di molte discussioni e critiche dal punto di vista politico e morale, sollevando interrogativi come se sia giusto sospendere le sanzioni a un regime che quotidianamente viola i diritti umani dei propri cittadini, fornisce armi a gruppi terroristi e minaccia l’esistenza di altri Stati sovrani, in particolare Israele. Interrogativi che non hanno scalfito l’entusiasmo di businessmen e fautori della realpolitik. Poco si è riflettuto però sull’aspetto delle profonde incognite che circondano il paese dal punto di vista economico, come spiega a Pagine Ebraiche Rony Hamaui, docente di Economia monetaria all’Università cattolica di Milano, direttore generale di Mediocredito italiano e autore, insieme a Marco Mauri, di Economia e finanza islamica. Quando i mercati incontrano il mondo del Profeta (Il Mulino). “La ragione per cui l’Iran esercita una simile attrattiva in Occidente è la grande fame di nuove opportunità creata da un contesto in cui tutti i principali paesi emergenti, i cosiddetti Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica ndr), sono oggi in crisi. Così gli imprenditori cercano sbocchi diversi, e la diplomazia è sempre più spesso attività di facilitazione degli affari”, sottolinea Hamaui.
Così non erano passati pochi giorni dalla firma dell’accordo a Vienna, che il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius sbarcava a Teheran, in una tra le molte visite della regione da parte di leader occidentali, incluso il ministro degli Esteri italiano Paolo Gentiloni. Visite che costituiscono un preludio al grande viaggio del presidente iraniano Hassan Rohani in Europa, Italia compresa, che doveva tenersi a metà novembre, rimandato a gennaio dopo gli attentati di Parigi. “È vero che in Iran le sanzioni hanno creato una domanda repressa, ma hanno anche prosciugato i fondi per finanziarne la soddisfazione”, scrive ancora l’Economist, menzionando la drastica caduta dei prezzi del petrolio, nepotismo, imprevedibilità legale, inflazione galoppante.“Come spesso accade, negli affari come in altri contesti, si tenta di dimenticare il rischio che le opportunità comsostiene portano. Si dice che i mercati abbiamo memoria molto corta – rimarca ancora Hamaui – Per esempio ci si scorda facilmente dei casi di commesse non pagate in seguito agli embarghi”.
A caratterizzare l’Iran poi vi è un altro fattore ancor più trascurato. “Teheran è uno dei tre paesi al mondo con una finanza completamente islamizzata – ricorda Hamaui – Per volontà degli ayatollah, l’intero settore rispetta la sharia. Questo comporta che tutti i contratti di natura finanziaria osservano due o tre regole fondamentali, dai tassi di interessi limitati, all’impossibilità di ottenere fondi da attività non consentite secondo la legge islamica”.
Elementi che il professore spiega essere davvero poco conosciuti in Occidente. “Per muoversi in modo appropriato in un contesto del genere, ci vorrebbe una consapevolezza che a mio parere manca, una vigilanza diversa, una comprensione della cultura locale, che è sciita e non araba, per certi aspetti più laica, per altri più intransigente. Ma da quello che posso riscontrare, l’approccio rimane alquanto superficiale”.
Rossella Tercatin, Pagine Ebraiche Gennaio 2016
(17 gennaio 2016)