Comunità arabe d’Israele,
al lavoro per l’integrazione
Nonostante l’ondata di violenze che da alcuni mesi è tornata a colpire Israele, la cosiddetta intifada dei coltelli, il 31 dicembre il Consiglio dei ministri ha approvato un aumento senza precedenti degli stanziamenti pubblici a favore della minoranza araba, finalizzato a favorirne lo sviluppo e l’integrazione nell’economia israeliana. Quali sono le misure adottate, quali le motivazioni di questa decisione, inaspettata da parte di un governo di destra, e quali le chance di una effettiva attuazione delle misure?
Innanzitutto, il pacchetto di misure consiste principalmente nell’aumento della quota del bilancio dello Stato che va a beneficio delle comunità arabe, quota che attualmente è molto inferiore a quella che spetterebbe in base alla percentuale della popolazione (gli arabi sono il 20 per cento della popolazione israeliana). A regime il piano aumenterà la spesa pubblica a favore di questa minoranza di quasi 4 miliardi di dollari rispetto al volume di spesa attuale; l’intervento è di grande portata sia perché l’importo è di tutto rispetto (l’1,3 per cento del prodotto lordo israeliano, in proporzione è come se il Tesoro italiano aumentasse di 20 miliardi di euro l’anno il sostegno al Sud), sia perché è un aumento permanente e non una tantum. L’intervento interessa principalmente quei settori dove le comunità arabe sono più svantaggiate e che ne frenano maggiormente la crescita economica: il trasporto pubblico locale (dove finora solo il 7 per cento della spesa statale andava alle comunità arabe), la pubblica istruzione (ci sono pochi arabi nelle università israeliane), la partecipazione al mercato del lavoro (i tassi di occupazione maschili e femminili sono molto più bassi rispetto agli israeliani non arabi), l’edilizia pubblica, la sanità pubblica, i servizi pubblici locali, il turismo.
Quali sono le motivazioni che hanno indotto il premier Netanyahu ad adottare un provvedimento così coraggioso? La motivazione è duplice. Da un lato la volontà di inviare un segnale distensivo alla minoranza araba, in un momento di timori di radicalizzazione di quest’ultima e di forti tensioni etniche a causa della cosiddetta intifada dei coltelli. Dall’altro lato vi è il grido d’allarme lanciato da molti anni dagli esperti economici israeliani (tra questi la banca centrale): il fatto che il 20 per cento della popolazione israeliana sia poco integrata nell’economia del paese (in termini di partecipazione alla forza lavoro, di istruzione, di infrastrutture) rappresenta un freno per lo sviluppo dell’intera economia, la quale, in presenza di un altro 20 per cento della popolazione che si autoesclude dal circuito produttivo (gli ebrei ultraortodossi), presto potrebbe trovarsi a corto di manodopera qualificata in tutti i settori; per usare una metafora, il motore dell’economia israeliana sta viaggiando con solo tre dei quattro cilindri a disposizione e presto potrebbe surriscaldarsi e vedersi costretto a ridurre la velocità. In conclusione, sebbene ci sia una lieve incertezza circa l’effettiva attuazione di questo piano di sostegno alla minoranza araba (timori attenuati dal fatto che non richiede aumenti di spesa ma solo una redistribuzione delle spese ordinarie), è opinione condivisa che si tratti di un provvedimento lungimirante e, caso piuttosto raro, un esempio di strategia “win-win” , ossia quella che porta benefici a tutte le parti in causa.
Aviram Levy, economista