rassegna stampa
Insegnare a capire, per educare alla pace

“L’Unesco alla sua fondazione aveva sostenuto che la guerra si trova in primo luogo nella mente. Ed ha voluto promuovere un’educazione per la pace. Ma non può che essere banale insegnare che la pace è meglio della guerra, cosa evidente in tempo di pace. Il problema si pone quando lo spirito guerresco sommerge le mentalità. Educare alla pace significa quindi lottare per resistere allo spirito guerresco”. Sono parole di Edgar Morin (Repubblica, 12 febbraio), che scrive anche: “Nella storia delle società umane abbiamo avuto modo di osservare molte manifestazioni di fanatismo religioso, nazionalista, ideologico. Ogni volta si usa la parola ‘terrorismo’ per denunciarne le azioni mortifere, ma è una parola che testimonia solo il nostro terrore e non spiega che cosa muova gli autori degli attentati. E soprattutto, per diverse che siano le cause a cui si votano i fanatici, il fanatismo ha sempre una struttura mentale comune. Ecco perché da vent’anni raccomando che nelle nostre scuole venga introdotto l’insegnamento della conoscenza, cioè anche l’insegnamento di ciò che provoca i propri errori, le proprie illusioni e le proprie perversioni”.
A lezione di laicità. Lo stesso giorno Repubblica racconta i corsi di “educazione morale e civica” varati in Francia dal governo socialista dopo gli attentati a Charlie Hebdo: un’ora a settimana dalla prima elementare fino al Baccalauréat. “Quando deve spiegare ai suoi alunni cosa significa il termine ‘laïcité’, Anne Doustaly procede al contrario. ma non è una guerra dello Stato contro la religione, non è una forma di discriminazione dei credenti . L’insegnante di storia e geografia comincia con togliere benzina dal fuoco: il tema è ormai incandescente”. La legge che stabilisce la separazione tra Stato e Chiesa risale a più di un secolo fa ma il dibattito è tornato acceso sui banchi di scuola e per molti ragazzi è un concetto ancora vago, spesso male interpretato. Secondo un sondaggio realizzato su un campione di alunni delle medie solo il 38,8 per cento dei giovani è ateo, mentre la maggioranza si definisce credente: 30,4 per cento cattolici, 25,5 musulmani, 1,7 protestanti e 1’1,6 ebrei. E dal 2004, quando è stata approvata la legge per bandire il velo e altri simboli religiosi negli istituti, gli insegnanti si ritrovano sempre più spesso di fronte all’ostilità di alcuni alunni e la ministra dell’Istruzione Najat Vallaud-Belkacem ha annunciato che nell’ultimo anno sono stati segnalati 150 incidenti legati al principio di laicità, in aumento del 10 per cento.
Contro la sentenza.Camillo Langone, sul Foglio del 12 febbraio ritorna sulla sentenza del Tar dell’Emilia Romagna, scrivendo: “A rigor di etimo una scuola laica è una scuola senza sacerdoti ma piena di cristiani praticanti, magari anche di frati (un frate non ordinato si dice frate laico e per molti anni fu il caso addirittura di san Francesco, che infatti non celebrava messa). Poi naturalmente corre l’accezione parassitaria di laico come sinonimo di ateo, utilissima per chi non ha il coraggio del proprio nichilismo e dell’alfa privativa. Ateo si capisce troppo bene che significa senza Dio, meglio confondere le acque rubacchiando nel vocabolario altrui”. E continua: “… mi costringe a essere pedante e a fare un altro rilievo etimologico: cultura deriva precisamente da culto, dire che la religione non fa parte della cultura è come dire che le patate non fanno parte del puré. Per giunta la benedizione in oggetto non era prevista in orario scolastico bensì dopo la fine delle lezioni, e coi bambini accompagnati dai genitori, come per gli spettacoli un po’ porno. Forse proprio per queste modalità tanto relativistiche e rispettose il consiglio di istituto aveva dato il via libera a stragrande maggioranza”. E conclude, senza abbandonare lo spirito polemico che percorre tutto l’articolo “…ma nella scuola come la intende lei (l’insegnante intervistata) non si fa cultura, si fa deculturazione”.

Ada Treves twitter @atrevesmoked

(19 febbraio 2016)