Perché l’acqua rappresenta una risorsa di pace
Nei mesi scorsi Israele e la Turchia hanno firmato un accordo di riconciliazione, che prevede tra l’altro l’impegno della Turchia a costruire nella Striscia di Gaza un impianto per la desalinizzazione dell’acqua di mare e una centrale elettrica, che permetterà di far funzionare un impianto di depurazione degli scarichi fognari. Questo impegno della Turchia è stato accolto con grande soddisfazione dal governo israeliano e segna forse una svolta nel conflitto israelo-palestinese nel campo delle risorse idriche. Perché tale accordo è così importante e a cosa potrebbe preludere?
Occorre premettere che la gestione delle risorse idriche israelo-palestinesi era regolata in teoria dagli accordi di Oslo del 2003; tuttavia con la crisi di quegli accordi si era arenata anche la parte riguardante la gestione condivisa dell’acqua e questo annoso problema era diventato fonte di attriti e recriminazioni tra le parti.
Ma nell’ultimo anno una serie di considerazioni ha indotto le autorità israeliane a un atteggiamento più conciliante. In primo luogo da qualche tempo Israele, grazie anche agli sforzi e alle tecnologie all’avanguardia nella desalinizzazione delle acqua di mare e nella depurazione delle acque reflue, ha aumentato la produzione fino al punto di conseguire un surplus idrico. In secondo luogo, la crisi idrica a Gaza e in Cisgiordania si è acuita e rischia di trasformarsi in emergenza sanitaria, creando consapevolezza in Israele che questo è un pericolo per tutti: a Gaza scarseggia l’acqua potabile e non si dispone di moderni impianti di depurazione, col risultato che gli scarichi fognari di quasi due milioni di abitanti finiscono in parte nel Mediterraneo (a poche decine di chilometri dalle spiagge di Tel Aviv) e in parte nella falda acquifera costiera che viene condivisa con Israele. Nei mesi scorsi le precarie condizioni igieniche della Striscia di Gaza avevano provocato focolai di epidemie; non a caso Netanyahu aveva espresso apprezzamento per l’impegno della Turchia a costruire dei depuratori, commentando che “se a Gaza scoppia una pandemia non c’è barriera difensiva o reticolato che possa impedirne la diffusione in Israele”. In Cisgiordania la situazione è meno grave ma anche lì scarseggia l’acqua potabile e in assenza di depuratori gli scarichi fognari finiscono per scorrere verso il Giordano oppure verso il Mediterraneo.
Alla luce di questo mutato scenario, si sono intensificati gli sforzi diplomatici per convincere le parti del conflitto israelo-palestinese a raggiungere perlomeno un accordo sulla gestione delle acque che, a differenza di un’intesa sui territori, può portare benefici a tutti i contendenti (cosiddette strategie “win-win “). In questo ambito spiccano gli sforzi dell’organizzazione non governativa israeliana “Ecopeace Middle East”, attiva nel campo della cooperazione idrica israelo-palestinese da 22 anni. Nei mesi scorsi questa organizzazione ha chiesto formalmente al Governo italiano di svolgere un ruolo guida per conto della comunità internazionale e fare da mediatore per un “accordo definitivo” (“final status”) tra israeliani e palestinesi in campo idrico. L’attuale contesto è particolarmente favorevole per un accordo, oltre che per i fattori sopra menzionati, anche perché la scoperta dei giacimenti e l’estrazione di gas al largo di Israele mettono a disposizione dei paesi della regione (anche la Giordania è parte in causa) le ingenti quantità di energia necessarie per far funzionare depuratori e impianti di desalinizzazione.
Aviram Levy
(9 ottobre 2016)