Tel Aviv, laboratorio per l’integrazione

Eretz - sostituzione 2Noam Bar Levy è laureato in Scienze e storia del Medio Oriente all’Università Tel Aviv e in urbanistica all’Università Ebraica di Gerusalemme. Assistente di due parlamentari di Avodà alla Knesset e portavoce di Stav Shafir “la rossa”, ha curato un progetto per la regolamentazione delle condizioni e dei prezzi degli immobili in affitto, cruccio per molti giovani israeliani. Oggi lavora nel “Innovation Team” della municipalità Tel Aviv – Yafo dedicandosi al tema dei rifugiati e dei lavoratori stranieri.

Noam, anzitutto puoi darci il punto della situazione?
La maggior parte dei lavoratori stranieri sono richiedenti asilo, di questi i più provengono dal Corno d’Africa. Per un certo periodo ogni giorno arrivavano rifugiati attraverso il Negev. Israele non sapeva che cosa fare. Li si accettava, venivano portati in centri di detenzione e dopo qualche mese liberati con un biglietto per Tel Aviv. E dov’è la stazione centrale degli autobus a Tel Aviv? Nel zona sud della città. Così arrivavano in un quartiere già povero e lì si installavano.

Sappiamo che i rapporti tra i residenti di questa zona e i lavoratori stranieri/richiedenti asilo non sono dei migliori…
Si è creata una grande tensione tra i richiedenti e gli abitanti del sud Tel Aviv che si sono trovati a essere minoranza nel loro quartiere. Improvvisamente hanno visto tutto trasformarsi. Le insegne dei negozi in lingue sconosciute, alimenti africani. A questo bisogna aggiungere il problema demografico, strutturale a Israele. Comunque sono convinto che la questione centrale sia di ordine economico: la zona sud era già problematica prima e non poteva che esserlo di più con l’arrivo di nuovi poveri.

Certo ci sono i problemi sociali. Ma le istituzioni come hanno reagito a questa situazione?
Penso alla Germania, lì lo Stato ha adottato nel passato recente (fino ai nuovi provvedimenti dell’ottobre 2016) un metodo preciso, i richiedenti ricevono lo status di rifugiato. Israele non può permetterselo. Allo stesso tempo Israele ha firmato la Carta Internazionale e dato che il Sudan e l’Eritrea sono qualificati come stati pericolosi non può respingere i richiedenti. Quindi il richiedente non riceve lo statuto di rifugiato e allo stesso tempo non viene rimandato indietro. Sui documenti è scritto: “infiltrato regolare senza permesso di lavoro”. È intervenuta la Corte Suprema con una sentenza che sostanzialmente diceva: “non è permesso agli infiltrati di cercare lavoro”, ma anche – sulla base di un’altra norma: “è proibito alla polizia di imporre ai proprietari il licenziamento di infiltrati”.

Gli effetti di questa situazione li vediamo nelle cucine di ogni locale di Tel Aviv. Oltre ai richiedenti ci sono i loro figli, eventualmente nati in Israele…
Ogni anno la municipalità di Tel Aviv deve inserire i bambini dei richiedenti asilo nelle scuole materne e come reazione i genitori residenti ritirano i loro bambini. Di recente la municipalità ha deciso di aprire una scuola secondaria ai figli dei richiedenti. Ci sono state manifestazioni dei residenti contro questa decisione che concentrava tutti i figli dei profughi in un’unica zona, in più assegnandole una posizione privilegiata, vicino al parco. Così la municipalità ha cercato un altro luogo, dovendo allo stesso tempo attenersi alla sua policy che è quella di individuare una struttura prossima alla zona di residenza degli utenti. Hanno individuato una scuola che è un vero status symbol dell’alto livello d’istruzione per gli olim russi i quali vi mandano i loro figli anche quando abitano in zone lontane, spesso fuori da Tel Aviv.

Quindi la municipalità ha potuto utilizzare la policy della vicinanza per riservare ai figli dei richiedenti asilo, che risiedevano nella zona, un posto nelle scuole invece che agli olim russi, che risiedevano lontano?
Non solo. Oltre a questa policy, che permette di dire “tel avivim prima di tutti”, c’è anche il diritto–dovere dei ragazzini, vincolante per le istituzioni, ad essere inseriti nelle strutture. Così hanno deciso che dall’anno prossimo i figli dei richiedenti asilo saranno assegnati a quella scuola.

Ora però raccontaci qualcosa del tuo lavoro specifico in questo ambito.
Il progetto si occupa della convivenza delle diverse comunità: convivere, non per forza amarsi. Secondo noi si deve fare in modo che le diverse comunità stiano bene in quanto tali, dopo si può lavorare alla convivenza. A questo scopo abbiamo chiesto alle diverse tipologie di popolazione i servizi di cui sentivano di aver bisogno. Per quanto riguarda i profughi, il principale problema è rappresentato dagli adolescenti: dopo l’orario scolastico non hanno attività e finiscono in strada. Questi adolescenti imparano l’ebraico, studiano cos’è il sionismo e la storia dell’ebraismo. Si formano come israeliani e poi a 18 anni che cosa succede? Non entrano in Zahal. Il conflitto identitario è grande, a ciò si aggiungono le condizioni di povertà. Abbiamo proposto alla municipalità di organizzare dei centri sportivi e ricreativi, per fare attività di gruppo, dalle gite all’aiuto nei compiti a casa. Non possiamo risolvere il loro problema di identità dal punto di vista politico ma possiamo dare un significato alla loro vita, fornire una cornice dentro la quale si sentano di appartenere.

Mentre per quanto riguarda le necessità dei residenti?
La necessità più grande è quella della sicurezza. L’idea è di formare giovani che aiutino gli anziani a uscire, affinché non si sentano estranei nelle proprie strade e negozi. Inoltre è necessario un ragionamento più complesso. Tel Aviv guarda a se stessa come metropoli. L’immigrazione è un fenomeno comune di tutto il mondo occidentale, quindi si tratta di trasformare la cosa da negativa in positiva. Un punto di partenza è la cultura culinaria, qualcosa che tutti possono amare, attraente proprio per la sua diversità. Guardiamo a New York, cos’è successo lì? Le culture straniere, ad esempio quella cinese, sono diventate un punto di forza della metropoli, ci siamo detti: “bo naase China Town beTel Aviv” [facciamo una China Town a Tel Aviv].

Cosimo Nicolini Coen

(29 gennaio 2017)