Elie Wiesel, un convegno a Torino
Memoria, narrazione, ebraismo e filosofia
“Elie Wiesel. Tra memoria, narrazione, ebraismo, filosofia” il titolo dell’incontro organizzato dal Comunità e dal Gruppo di Studi Ebraici di Torino che ieri pomeriggio, seguito con grande attenzione da un folto pubblico, ha ripercorso la figura e l’opera di Elie Wiesel, premio Nobel per la pace scomparso lo scorso luglio. Introducendo il pomeriggio Tullio Levi ha ricordato come per la perdita di fiducia in Dio e nell’umanità per 10 anni Wiesel non volle parlare della sua esperienza ad Auschwitz e solo il Premio Nobel per la letteratura François Mauriac – che ne divenne negli anni grande amico – riuscì a persuaderlo a narrare la sua esperienza. Il suo manoscritto – 865 pagine, in yiddish, scritto nel 1954 con il titolo Un di Velt Hot Geshvign, “E il mondo rimase in silenzio”, venne considerato dagli editori “troppo morboso” e venne pubblicato solo nel ’58 in Francia come La Nuit, in una versione di molto ridotta, per poi arrivare negli USA due anni dopo. Considerato uno dei capolavori della letteratura sulla Shoah prima di comparire in Italia dovette attendere ancora, fino al 1980. Mauriac, nella prefazione de La Notte, ha scritto: “Il ragazzo che ci racconta qui la sua storia era un eletto di Dio. Non viveva dal risveglio della sua coscienza che per Dio, nutrito di Talmud, desideroso di essere iniziato alla Cabbalà, consacrato all’Eterno. Abbiamo mai pensato a questa conseguenza di un orrore meno visibile, meno impressionante di altri abomini, ma tuttavia la peggiore di tutte per noi che possediamo la fede: la morte di Dio in quell’anima di bambino che scopre tutto a un tratto il male assoluto?”
Un interrogativo, quello sull’assenza di Dio, ricorrente nell’opera di Wiesel: ne Il Processo di Shamgorod, del 1979, durante la vicenda Dio è posto sul banco degli imputati proprio per non essere stato capace di difendere i suoi figli. Un problema che, ha continuato Levi, ritorna anche nell’ultimo dei suoi libri, A cuore aperto, scritto a 82 anni, dopo un intervento cardiaco: prima di perdere coscienza per l’anestesia, Wiesel ripercorre tutta la sua vita e pensa a quel che direbbe a Dio se dovesse incontrarlo. Una sola parola: “Perché?”
Emozionato ed emozionante è stato l’intervento di Daniel Vogelman, intitolato “Wiesel in Italia”, che ha raccontato il suo incontro con l’autore di quello che è stato il primo volume pubblicato dalla casa editrice da lui fondata, la Giuntina. Giovane editore, figlio di un sopravvissuto, ha ricordato come il rapporto con Wiesel sia stato per lui importante anche forse per una necessità di conoscenza e incontro dovuti alla sua storia familiare, in una saldatura fra scelte professionali e vissuto personale di grande portata emotiva. Ha così molto colpito il pubblico presente con il suo racconto, che ha ripercorso la storia degli inizi della casa editrice, le prime scelte editoriali e anche l’impegno personale nel tradurre il testo di Wiesel, pubblicato da Giuntina nel 1980.
“Nel 1986, nel ricevere il premio Nobel per la pace, Elie Wiesel iniziò il suo discorso ricordando una leggenda chassidica. Il Baal Shem Tov, vedendo i dolori del suo popolo, si diede da fare per affrettare l’avvento del Messia. Per punire il suo tentativo di interferire nella Sua guida del mondo, Dio lo inviò in un luogo lontano con il suo servitore. Lì, il Baal Shem si accorse di aver scordato tutti i suoi poteri misteriosi e di non poter quindi far ritorno a casa. Non ricordava preghiere, non ricordava nulla. Finché il suo servitore disse che si ricordava un’unica cosa: l’alfabeto, e cominciò a recitarlo, e il Baal Shem con lui. E con quello il Baal Shem riacquistò la memoria, e con la memoria la capacità di far ritorno a casa”. Con queste parole rav Roberto Della Rocca ha aperto il suo intervento – “Esilio, memoria, ebraismo” – in cui ha sottolineato come il solo modo per dar senso all’esilio, per evitare che ne venga cancellata l’esperienza, sia riempirlo di coscienza presente, una coscienza che, insieme alla memoria, è ciò da cui l’ebraismo trae da sempre il senso della propria esistenza. Importante quindi narrare, tramandare, mettenere per iscritto, e non scordare mail il dovere del ricordo. Ha continuato citando Wiesel, quando dice che “L’indifferenza non è soltanto un peccato, è la punizione”, il segno, ha aggiunto, della disumanità dell’uomo. Come anche Primo Levi, Wiesel ha espresso più volte il timore che la gente smetta di credere alla realtà della Shoah, tramutatasi negli anni in un fastidio, un impedimento alla pacificazione generale, una annotazione logora da chiudere nell’archivio della storia, magari dopo la debita edulcorazione dei testi scolastici.
La notte, testimonianza diretta della deportazione, racconta una scena indimenticabile: l’impiccagione, ad Auschwitz, di due adulti e un bambino. Questa testimonianza, di valore assoluto, pone in tutta la sua forza la questione teologica della “eclisse di Dio” che, nel pensiero di Wiesel, non ha nulla a che vedere con l’ateismo. “Se c’è un tempo per pregare, c’è un tempo per porre delle domande a Dio, e un terzo tempo in cui, in assenza di risposte, non resta altro da fare se non intentare un processo a Dio. Tutta la grandezza della tradizione ebraica, tutta la sua forza, non sono forse in grado di intentare all’Eterno un processo per aver lasciato assassinare sei milioni di individui del suo popolo, di cui un milione e mezzo bambini? Quale re permetterebbe che si perpetrasse un simile, incommensurabile delitto? In quale altra tradizione religiosa è possibile immaginare, concepire un processo a Dio?”, ha continuato rav Della Rocca, aggiungendo che dalla frequentazione dell’opera di Elie Wiesel abbiamo imparato che le domande: “Credi in Dio? Dio esiste o no?” sono domande non ebraiche. L’esclamazione “Dio è morto” per l’ebraismo è un non-senso assoluto, e nell’intera sua opera Wiesel ha messo le basi di una riflessione e di una protesta teologiche che conferiscono alla fede una sua espressione tragica ma irriducibile.
Di taglio differente l’intervento di Piero Stefani, intitolato “Wiesel lettore della Bibbia” in cui il professore, docente di Filosofia della religione, ha ricordato i due poli fra cui si è mosso Wiesel: da un lato la tradizione chassidica di cui era erede, che ha avuto una grande importanza ed è stata sicuramente centrale in molti suoi scritti, dall’altra la riflessione sui temi della Shoah. Due ambiti uniti dal caratteristico continuo ricorso alle domande che punteggiano i testi, in un rincorrersi continuo di interrogazioni, dubbi, richieste che attraversano le pagine
Appoggiandosi a testi come Personaggi biblici attraverso il Midrash e Cinque figure bibliche, il professor Stefani ha ricordato come siano costanti i riferimenti ai comportamenti individuali, che pongono però domande universali, a partire dal midrash su Bereshit, e sulla doppia creazione. La domanda che Dio pone all’uomo è un “Dove sei?” che va rivisto alla luce di una interpretazione allegorica, in una richiesta che significa “Dove ti poni? Dove sta la tua umanità?”. L’assenza di domanda è per Wiesel un momento negativo, un silenzio, una rottura, il dialogo è fondamentale e positivo, e lo sono anche i dubbi sulla natura di Dio e sul senso della divinità dopo la Shoah: alla mancanza di domande segue il silenzio dell’uomo, e, appunto, l’assenza del dialogo. E importantissimo, come evidenziato anche dall’analisi del suo racconto di figure bibliche, resta il modo di essere dell’ebraismo, incentrato sul fare, in una esigenza concreta di rispondere operativamente a qualsiasi difficoltà la vita presenti, in un primato dell’azione su una condotta speculativa. A Concludere l’incontro David Sorani ha ricordato come la figura di Wiesel sia stata quella di testimone e vittima della distruzione, della lacerazione dell’ebraismo mitteleuropeo, immagine di rottura di un mondo, così come di un intellettuale che denuncia l’uccisione della civiltà e lo sconvolgimento del rapporto religioso – Dio “muore” con il prigioniero impiccato sulla forca nel piazzale di Auschwitz – e dell’ordine morale. Dopo aver messo Dio sotto accusa – come ha fatto nel Processo di Shamgorod – occorre assumersi il compito difficile e penoso di ricostruire ogni cosa da capo, e rimane il vuoto, l’assenza, come suggerisce ne Il quinto figlio, il figlio che non può porre domande al Seder di Pesach perché non c’è più. La dimensione religiosa “negativa” legata alle prime opere di Wiesel, ha continuato Sorani, matura poi un una visione filosofica, problematica, che si sviluppa nella questione teologica, che attanaglia anche altri scrittori pensatori: che ne è di Dio dopo Auschwitz? La sua visione cambia col tempo, per arrivare a una faticosa ma positiva “risalita” che dai primi scritti in cui Wiesel si pone come testimone dell’annientamento e del male assoluto di Auschwitz porta alla necessità di riemergere, e di recuperare un ebraismo che non è morto. E con il positivo contributo dell’ebraismo occorre “recuperare” Dio e l’umanità con i suoi “valori”, in una ricerca di elementi costruttivi e positivi in n percorso che è stato anche di continuo impegno per la difesa dei valori e dei diritti umani.
Ada Treves twitter @atrevesmoked
(6 febbraio 2017)