Trump e il vertice con Bibi
Il grande disordine libico, che per l’Italia si identifica con una immigrazione massiccia pronta a riesplodere nella prossima primavera, dovrà fare a meno del palestinese Fayyad che a molti, anche agli italiani, pareva un valido mediatore di pace. L’ambasciatrice statunitense all’Onu ha il merito di aver evitato ogni ambiguità: gli Usa non riconoscono uno Stato palestinese, e la nomina di Fayyad proposta dal Segretario generale Guterres, se approvata dal Consiglio di sicurezza, lancerebbe «un segnale sbagliato» . Anche perché non sono più accettabili le parzialità del Palazzo di vetro contro Israele. Vanamente Guterres ha replicato che l’economista di scuola americana ed ex premier palestinese era stato scelto per i suoi meriti. E vanamente l’Autorità palestinese ha parlato di discriminazione identitaria, mentre Israele invece si compiaceva.
Trump ha voluto lanciare i «suoi» segnali: Guterres ci consulti prima di prendere iniziative; ricordiamoci che i palestinesi sono osservatori, non membri dell’Onu; è finito il tempo di Obama e delle astensioni Usa su risoluzioni critiche verso Israele; e soprattutto, la Casa Bianca non vuole turbare la visita che il premier Netanyahu farà a Washington tra pochi giorni. In quella occasione, accanto alla conferma della grande amicizia che ha già ripetutamente espresso verso Israele, Trump intende discutere il nodo irrisolto dei nuovi insediamenti ebraici in Cisgiordania, il possibile trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, e un rilancio dei negoziati di pace tra israeliani e palestinesi forse con l’aiuto di Giordania, Egitto e Arabia Saudita.
Si può capire allora che la designazione dell’incolpevole Fayyad sia parsa alla Casa Bianca un elemento di disturbo in un momento cruciale. Ma resta, intatto, il problema della Libia. Tanto più che il Dipartimento di Stato, in un comunicato, si è schierato a spada tratta dalla parte del «Governo di accordo nazionale» che ha sede a Tripoli ed è guidato (ironicamente con il pieno appoggio dell’Onu) da Fayez al Serraj. Posizione non nuova per gli Usa, e sulla carta pienamente coincidente con quella italiana. Ma gli ultimi sviluppi sul tema Libia-migranti avevano fatto pensare a una evoluzione che evidentemente non si è rivelata possibile, o che non è ancora matura. Il memorandum d’intesa sottoscritto il 3 febbraio scorso da Gentiloni e dal traballante Serrai, nel migliore dei casi, potrebbe garantirci la benevolenza di Tripoli e forse la sorveglianza di alcuni tratti di costa. Ma anche questi risultati minimi sono fortemente in dubbio fino a quando il generale Haftar non sarà positivamente coinvolto nella trattativa, la Cirenaica non sarà più divisa come è oggi dalla Tripolitana, e la Libia avrà un solo esercito nazionale. Chi può convincere, allora, Haftar e Bengasi a mostrarsi ragionevoli? Di sicuro l’Egitto e la Russia, perché la Francia è indebolita dal voler tenere i piedi in troppe staffe. E poi, si aspettava Trump. Che con l’egiziano al-Sisi è in grande cordialità e che vuole dialogare con Putin, anche se il dialogo difficilmente si spingerebbe fino ad accettare una nuova base militare russa sulla costa della Cirenaica. Il Dipartimento di Stato vuole segnalare che l’aggancio di Haftar risulta troppo problematico? Oppure si tratta di una posizione di partenza prima di parlare con il Cairo e con Mosca? Con Trump tutto è possibile, anche per il meglio. Ma intanto la Libia affonda, e proietta i suoi tormenti sull’Italia.
Franco Venturini, Corriere della Sera, 12 febbraio 2017