Fauda, la serie che racconta il caos al confine

L’ultimo endorsment a Fauda, la serie israeliana di successo acquistata da Netflix, è arrivato dal celebre scrittore e sceneggiatore americano Stephen King. Anche lui è rimasto affascinato dalla storia di Doron, l’ex comandante dei Mistaravim (unità d’élite addestrate per introdursi in Cisgiordania e Gaza e combattere il terrorismo palestinese) che sceglie di tornare operativo quando si ripresentano davanti a lui i fantasmi del passato: Abu Ahmed, alias “la Pantera”, il terrorista di Hamas che Doron pensava di aver ucciso in realtà è vivo e sta preparando la sua vendetta contro Israele. Nonostante le richieste della moglie, l’ex comandante torna tra i suoi vecchi compagni di armi con l’obiettivo di uccidere Ahmed una volta per tutte. Era stato infatti lui la prima volta a premere il grilletto contro il terrorista, pensando di averlo ucciso. Fauda, caos in arabo, racconta così nel corso di 12 episodi l’ultima missione di Doron – interpretato da Lior Raz, creatore della serie assieme al giornalista Avi Issacharoff -, cercando di mettere in luce le complessità di tutti i personaggi, israeliani e palestinesi. A dare credibilità soprattutto a questi ultimi, il fatto che siano interpretati da attori arabi e che i dialoghi si svolgano (nella serie originale) in ebraico e in arabo.
“Nessuno in Israele parlava dei veri palestinesi alla televisione”, spiegava alla stampa ebraica Issacharoff, a lungo corrispondente per Haaretz, oggi firma del sito Walla e del Times of Israel. “Sentivamo costantemente del conflitto sui media, tutto il giorno, ogni giorno. Ma non c’era nessuna serie drammatica che mostrava l’altra parte dall’interno”. Ed è quello che Fauda cerca di fare: i personaggi non sono appiattiti su una realtà monodimensionale di buoni e cattivi, emergono le fragilità di ciascuno, al di qua e al di là del confine. Un confine presentato come molto meno netto di quanto si possa immaginare. A partire dal titolo, in arabo.
fauda-scene“In arabo Fauda significa caos – spiegava in un’intervista alla Bbc Lior Raz, lui stesso con un passato nelle unità speciali di Tsahal, l’esercito israeliano, – Sul finire degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, iniziò la prima intifada. La popolazione araba iniziò a usare la parola ‘fauda’ come modo per dire ‘andiamo a dimostrare’. Ma dalla parte israeliana, i soldati sotto copertura iniziarono a usare ‘fauda’ quando qualcuno scopriva che erano ebrei o israeliani e quando la loro copertura saltava. Avrebbero chiamato al walkie-talkie – prosegue l’attore – dicendo ‘ascolta, siamo in fauda’. Era il codice per farsi venire a recuperare”. Poi Raz si sofferma sul perché ha scelto di sviluppare la serie prendendo in considerazione anche l’altra parte: “eravamo in studio, e ho detto a tutti: ‘Sentite, io voglio essere in grado di poter interpretare ciascuno di questi personaggi della serie. E perché questo sia possibile, si suppone debbano avere un carattere completo e una vita propria’. In Israele, la gente non sa bene che volto ha l’altra parte. Sono seduto qui a Tel Aviv e a 10 minuti da me c’è una città palestinese. Ma la gente a malapena ci pensa. Non vogliono parlarne. Abbiamo voluto mostrare a tutti quello che sta succedendo lì”.
Secondo la scrittrice Nurith Gertz, docente di letteratura e cinema alla Israel’s Open University, la trama di Fauda fa riferimento a due nazioni che si confrontano in una sfida all’ultimo sangue, ma “attraverso il suo linguaggio televisivo raffigura una serie di possibilità simultanee che creano una società in cui gli individui non si fondono nei molti o non sono assimilati a loro, ma vivono al loro fianco”. Secondo Gertz Fauda cattura i traumi di entrambe le parte, riuscendo a mantenere viva l’identità dei singoli personaggi, evitando eccessive generalizzazioni. Un esperimento di laboratorio, scrive, per raccontare il conflitto tra le due realtà.

Daniel Reichel

(19 febbraio 2017)