Lo Stato e il pluralismo del diritto

Schermata 2017-05-07 alle 17.31.46Hanina Ben-Menahem si è formato alla facoltà di Legge della Hebrew University, dove ora insegna, e a Oxford, dove ha ottenuto il suo dottorato. È specialista in filosofia del diritto e in filosofia del Mishpat ivri [diritto ebraico]. Gli interessi di Ben-Menahem, giurista e filosofo, spaziano da Nietzsche al Rambam senza trascurare gli aspetti di attualità legati a Israele. È proprio attraverso questo intrecciarsi di competenze teoretiche e preoccupazioni di carattere sociale che Ben-Menahem mostra l’attualità e l’interesse, anche per l’ebraismo secolare, dei temi provenienti dal Mishpat ivri.

Professore, lei ha sostenuto il carattere pluralista del diritto ebraico, cosa si intende con questo? E, prima ancora, come definiamo il diritto ebraico rispetto alla tradizione orale [Torà she-be-al pe] che già presentava un chiaro côté normativo?
La storia del diritto ebraico ha 2000 anni, tutto quello che c’è stato prima, nell’epoca biblica e in quella successiva fino all’inizio dell’Era Volgare non è considerato tale perché non abbiamo sufficienti conoscenze storiche di quel periodo, per cui si parla di diritto ebraico a partire dall’epoca della Mishnà. Da quel momento in poi esso si evolve, come vediamo dai due Talmudim, e tale evoluzione prosegue nel periodo dei Gheonim e successivamente nei differenti centri in Europa e in Africa settentrionale. Fino alla fondazione dello Stato di Israele il diritto ebraico si è sviluppato sotto il dominio di potenze straniere, si parlava solo di diritti che venivano concessi alle diverse comunità di giudicare i propri appartenenti secondo le proprie istituzioni. Il mishpat ivri è maturato nella vastità della Diaspora, attraverso forme molto differenti tra loro. Non è quindi possibile parlare di un unico diritto ebraico, ma di una pluralità di versioni, nello spazio e nel tempo, con un denominatore comune. L’idea fondamentale che, a mio giudizio, ha apportato alla filosofia del diritto è proprio l’istanza comunitaria, la possibilità di parlare di pluralismo giudiziario all’interno di un unico sistema. Ciò non è facilmente accettabile per il pensiero giuridico moderno dove è privilegiata la centralizzazione, ove si deve avere una Corte suprema che stabilisca cosa devono fare gli organismi inferiori.

Lei ha scritto, in Sugiot ba-mishpat ha-ivri [Questioni di diritto ebrai- co], che il Rambam voleva “cancellare la mahloqet”, la disputa o controversia giudiziaria tra le diverse opinioni in merito di Hala- khà. Dal suo punto di vista il tentativo di uniformità messo in atto dal Rambam andava contro il carattere pluralista del diritto ebraico?
Mi sono molto occupato del Rambam. È possibile dire che questi volesse fare una rivoluzione nella Halakhà e che – Barukh ha-Shem – non vi sia riuscito. A mio giudizio voleva introdurre la concezione greca di un’unica verità che uniformasse tutto il mondo della Halakhà, ma quel mondo si è sviluppato per mezzo di molte discussioni e questo è il suo grande punto di forza. Sicché possiamo dire che egli abbia tentato di “grecizzare” la Halakhà. È molto positivo il fatto che fosse favorevole allo studio della filosofia, della scienza, della fisica; aveva un pensiero aperto al mondo, ma nelle questioni di Halakhà voleva ridurre i margini di libertà dell’uomo, che dovevano essere collocati in una cornice fissa, da lui stesso delineata. Voleva realizzare una rivoluzione nel curriculum studiorum degli ebrei, ove non sarebbe più stato obbligatorio studiare la Ghemarà poiché sarebbe bastato lo studio della Torà e del suo libro, il Mishné Torà. La mahloqet era un fenomeno contro il quale si opponeva con decisione. Scriveva in una forma univoca, come se non vi fosse alcuno spazio per un altro pensiero. Nei suoi scritti di Halakhà non condivide con il lettore i dubbi che, presumibilmente, poteva nutrire. Non dice: io sostengo questo ma è possibile che sia anche altrimenti; invece scrive direttamente la decisione nel suo esito finale. Il modus operandi del Rambam non è adeguato a quello della Halakhà. Dicono infatti i nostri saggi che vi è spazio per studiare le due opinioni, la mia e anche la tua, perché attraverso lo studio della mahloqet potrà arrivare un terzo e dire qualcosa di differente, fare un hidush [rinnovamento].

In base a quanto lei ci ha descritto, però, il carattere pluralista del diritto ebraico sembrerebbe legato a doppio filo alla condizione diasporica, in questo senso sarebbe dovuto venir meno con il ritorno a una sovranità ebraica in terra di Israele?
Quando fu fondato lo Stato si cominciò a parlare di un diritto che potesse essere espressione della sovranità ebraica ritrovata. Personalmente ritengo che questa sia un’idea estranea al diritto ebraico che non ama una centralizzazione come quella ricercata dal diritto occidentale. Preferisce essere diviso, privo di una struttura istituzionale gerarchica tale per cui si possa dire che la norma si origina dall’alto per discendere progressivamente in basso. Sicché il tentativo di fondare un diritto ebraico nello e dello Stato d’Israele è ai miei occhi molto problematico. Personalmente ritengo che si dovrebbe conservare l’idea che ogni comunità abbia il suo proprio orientamento normativo. Si dice che questa concezione comunitaria sia tipicamente diasporica, personalmente ritengo invece che sia il tratto distintivo del diritto ebraico.

Per cui secondo lei il diritto ebraico in luogo di essere una fonte per il diritto nazionale, come una parte dello scacchiere politico israeliano vorrebbe, dovrebbe declinarsi su base comunitaria?
Sì, poniamo: Bnei Brak o Zfat vogliono gestirsi attraverso il riferimento al diritto ebraico? Bene, che lo possano fare! Il punto è che ciò non sia qualcosa di univoco e vincolante per tutto Israele. Penso che ci convenga custodire l’idea di una struttura comunitaria, analogamente a quanto avviene negli Stati Uniti dove vi è una legge federale e le leggi dei singoli Stati. Israele è incomparabilmente più piccola, ma ritengo che la stessa idea si possa attuare anche qui.

Questo per quanto concerne la sua visione. Quali sono, invece, allo stato attuale i rapporti tra diritto ebraico e diritto israeliano?
Ci sono stati tentativi affinché la Knesset legiferasse secondo il diritto ebraico, ma c’è stata molta opposizione e sono falliti. L’unico ambito che in Israele è regolato dal diritto ebraico è il diritto di famiglia. Oltre a questo ci sono singole leggi emanate nello spirito del mishpat ivri, ma sono una minoranza molto esigua. Vi sono poi molti tribunali privati che giudicano in base a esso ma questo viene fatto in modalità volontaria, quando da ambo le parti vi è accordo nel ricorrervi, come è tipico dell’arbitrato.

Y. Leibowitz, grande talmudista, scienziato e filosofo israeliano, prese posizione contro l’assenza di una netta divisione, sul modello illuminista, tra Stato e religione in Israele. Lei cosa ne pensa?
È corretto, in Israele non vi è una netta divisione, ad esempio, come si diceva, nel diritto di famiglia. Personalmente vorrei che Stato e religione fossero due categorie distinte. Vi sono però modelli differenti: vi è quello americano ove lo Stato non sostiene nessun istituto religioso, e vi è quello inglese ove vi è divisione ma lo Stato finanzia i diversi istituti religiosi in modo eguale. Sono d’accordo con Leibowitz, penso che lo Stato debba svincolarsi da questa sorta di abbraccio con la religione. Lo Stato deve permettere all’ebraismo di svilupparsi, ma il diritto ebraico non deve dettare legge. Questo significa: chi vuole contrarre matrimonio secondo il diritto ebraico vada dal rav, ma ad essere obbligatorio deve essere solo un contratto di tipo statale, indipendente dalla religione. Oppure, prendiamo l’esempio dello Shabbat. In accordo a quanto dicevo prima, penso che lo Shabbat debba essere gestito da ogni singola comunità sulla base di ciò che vuole, mentre allo stato attuale vi è una legge di tipo nazionale. Ciò non è positivo. È senz’altro preferibile che ciascuna comunità si organizzi secondo il proprio ordine normativo. A Gerusalemme la maggioranza non vuole che gli autobus circolino di Shabbat? Benissimo, ma che non debba valere anche per Tel Aviv. Questi problemi sussistono perché vi è ancora un legame profondo tra Stato e religione, e questo è ciò che dobbiamo cambiare. Siamo sufficientemente adulti, come Stato, per poterlo fare. Ma vi è ancora molta pressione da parte dei gruppi e partiti religiosi. L’argomento secondo il quale è necessaria una legge unica in tutto il paese mi pare scorretto, e questo precisamente in virtù della storia del diritto ebraico che ci ha insegnato la possibilità di essere un insieme di comunità ove ciascuna presenta delle caratteristiche distinte, anche negli aspetti di Halakhà.

Cosimo Nicolini Coen

(7 maggio 2017)