I terroristi si fermano (anche) con i big data

Schermata 2017-05-14 alle 21.32.57Il 2 dicembre 2015, Tashfeen Malik e il marito Syed Rizwan Farook fanno fuoco sui colleghi di quest’ultimo al party natalizio dell’Inland Regional Center di San Bernardino, California, dove l’uomo lavora come ispettore sanitario. Quattordici persone rimangono uccise e oltre venti ferite. Qualche settimana dopo, suscita indignazione la notizia che Malik, che aveva ottenuto il visto per entrare negli Stati Uniti proprio per sposare Farook, cittadino americano originario come lei del Pakistan, aveva postato sui propri profili dei social network messaggi inneggianti alla jihad, che nonostante gli approfonditi controlli dell’autorità per l’immigrazione non erano in precedenza emersi. Nell’era della condivisione di vita, immagini e opinioni su internet, le simpatie per radicalismi e terrore spesso non fanno eccezione. E così, per i servizi di intelligence, monitorare nel modo più esaustivo possibile quanto pubblicato nel mare dei nuovi media diviene una sfida fondamentale, soprattutto per la prevenzione. Un lavoro che costituisce uno dei capisaldi delle forze di sicurezza israeliane. Secondo quanto riportato in un recente articolo di Haaretz, sono stati centinaia i potenziali attacchi evitati in meno di un anno, con 2200 palestinesi fermati nelle loro fasi preparatorie dallo Shin Bet (servizio per gli affari interni) o dall’intelligence militare, e altrettanti nominativi trasmessi alle forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese perché li gestissero direttamente.
“Lo Shin Bet e l’intelligence militare stanno cooperando su questo tema dalla fine del 2015 quando l’ondata di attacchi rischiò di trasformarsi in inondazione” spiega l’esperto di affari militari del quotidiano Amos Harel. “Venne fuori che parenti e conoscenti seguivano l’esempio dei ‘lupi solitari’ in base alla copertura degli attacchi sui media palestinesi, per non parlare delle reazioni sui social network. Nonostante la maggior parte degli assalitori avessero agito da soli, le autorità scoprirono che in molti avevano in qualche modo rivelato le loro intenzioni. Per Shin Bet e intelligence militare la difficoltà maggiore si rivelò distinguere tra i commenti di approvazione sui social network e coloro che esprimevano un effettivo proposito di passare all’azione. Nel giro di pochi mesi, i due organi sviluppano un sistema che iniziò a dare risultati”.
Harel ricorda come la diminuzione degli attacchi al coltello e utilizzando automobili come armi per investire i passanti che hanno caratterizzato gli ultimi anni senza mai davvero cessare (solo in uno degli ultimi episodi verificatosi durante la festa di Pesach a essere accoltellata in centro a Gerusalemme è stata la studentessa britannica ventitreenne Hannah Bladon) può dipendere da tanti fattori, dalla maggiore efficienza dell’Esercito di Difesa israeliano alla migliore cooperazione della leadership palestinese, fino allo sviluppo della consapevolezza in seno alla società palestinese stessa che gli attentati non contribuiscono a raggiungere lo Stato o qualunque altro obiettivo. E tuttavia, l’aver ridotto il numero e la portata delle violenze, fa notare l’analista “potrebbe essere un impressionante successo ottenuto dal nuovo direttore dello Shin Bet Nadav Argaman, che ricopre l’incarico da un anno”. Una delle sue mosse più significative è stata proprio quella di unificare la divisione incaricata di raccogliere dati di intelligence attraverso intercettazioni con quelle specializzate nell’uso delle nuove tecnologie. Già perché collaborare e scambiare i dati fra diverse agenzie ed entità è uno dei passaggi chiavi per rendere la prevenzione antiterrorismo sempre più efficace, e non solo a livello nazionale. “La divisione geografica tra le varie organizzazioni non funziona più perché in molti casi le reti da combattere attraversano i confini dei paesi e combinano l’attività di più attori in regioni diverse – per esempio, l’assistenza degli iraniani nel contrabbandare armi ai gruppi terroristi della Striscia di Gaza, che coinvolge anche mediatori in Yemen, Libia o Sudan” si legge ancora su Haaretz. Una lezione che stanno pian piano assimilando anche i paesi europei e nel resto del mondo occidentale, dopo che troppe volte specie nel Vecchio Continente, il terrore è riuscito a colpire approfittando propri della fallita comunicazione tra Stati sulla pericolosità di taluni individui. E una delle frontiere in questo senso, sarà proprio la raccolta e condivisione dei big data, quell’insieme di informazioni che ogni utente dissemina su se stesso nel proprio agire virtuale quotidiano, cercando informazioni, acquistando online, utilizzando servizi di geo-localizzazione. La sfida per fermare il terrorismo passa da internet.

Rossella Tercatin

(14 maggio 2017)