Sei giorni, una grande vittoria
ma con un prezzo da pagare

èstoriaDa dodici anni Israele addestrava meticolosamente il suo esercito allo scontro. Come disse un generale egiziano, “mentre loro si preparavano alla guerra, noi facevamo parate militari”. Solo in mezzo ai nemici, in sei giorni l’esercito israeliano spazzo via l’aviazione e resistenza egiziana a sud, mise in fuga i giordani a Gerusalemme, prese il controllo della West Bank e conquistò le alture del Golan. Una vittoria gloriosa che cambierà la storia ma a un prezzo che Israele continua a pagare, come spiegavano ieri Ahron Bregman, ex ufficiale di artiglieria delle forze di difesa israeliane e docente del dipartimento di Studi Militari del King’s College di Londra, e lo scrittore e regista Simon Dunstan, esperto di tecnologia militare. I due esperti erano infatti protagonisti dell’ultima giornata di èStoria, il Festival goriziano dedicato all’approfondimento storico, di anno in anno sempre più punto di riferimento culturale per comprendere i legami tra passato e presente. A dimostrarlo, proprio l’incontro tra Bergman e Dunstan in cui, a cinquant’anni dal conflitto, il pubblico ha avuto l’opportunità di avere un quadro chiaro della Guerra dei Sei giorni e delle sue conseguenze.
“La chiave per la vittoria fu l’attacco all’Egitto con l’operazione Moked, che in ebraico significa focus – ha spiegato Dunstan, autore di La Guerra dei Sei Giorni. 1967: Sinai, Giordania e Siria, LEG editore – Tutti gli aerei erano a disposizione dell’aviazione israeliana per quel fatidico 5 giugno. Solo uno non era utilizzabile a fronte di un esercito egiziano che poteva contare solo sul 30 per cento dei velivoli della sua aviazione, che comunque furono spazzati via (400 aerei furono distrutti in tre ore)”. “Per farvi capire quanto l’operazione in Egitto fosse importante bastano le parole di Ezer Weizman, capo di Stato maggiore: alla fine del 5 giugno, primo giorno del conflitto, disse ‘abbiamo vintola guerra’”. Da una parte c’era un esercito pronto, disciplinato, con chiari piani di guerra, dall’altra, armate inefficienti gestite in modo clientelare da ufficiali impreparati, hanno raccontato Dunstan e Bregman. Quest’ultimo si è poi soffermato sulla figura di Moshe Dayan, allora ministro della Difesa d’Israele e grande eroe di guerra. “Dayan aveva una benda nera su di un occhio ma nonostante quell’unico occhio buono, vedeva più in là della maggior parte dei suoi contemporanei. In molti credono che sia stato lui a spingere per l’occupazione dei territori durante la guerra dei Sei giorni, ma non fu così: disse all’esercito, ‘non occupate la Striscia di Gaza perché ci sono troppi rifugiati lì, se lo farete rimarremo incastrati in questa situazione per anni’. Disse, ‘non occupate il Canale di Suez perché saremo molto vicini all’Egitto e ci sarà una nuova guerra. Non occupate la West Bank né Gerusalemme perché rimarremo incastrati con i luoghi sacri’. E così è stato”, la conclusione di Bregman. Secondo l’analista Dayan, un uomo che al fronte rimaneva sempre in prima fila (diceva, “se su di una pallottola c’è scritto il nome di Moshe Dayan, mi raggiungerà comunque, anche se mi nascondo dietro una roccia”), era profondamente pessimista e incapace in politica di farsi valere. Per questo – e per la spinta della destra di Menachem Begin – i suoi consigli rimasero inascoltati.

(29 maggio 2017)