Israeliani e palestinesi, le opzioni
per cambiare lo status quo
Dal ruolo americano nel rilancio del processo di pace tra israeliani e palestinesi, al quadro di cosa accade nei territori palestinesi fino alla lotta contro il terrorismo islamista. Diverse le tematiche, legate alla sicurezza, su cui si è confrontato un pool di esperti in occasione della conferenza su Medio Oriente e terrorismo organizzata a Bruxelles dall’Eipa, la Europe Israel Press Association. Tra le questioni toccate, l’interrogativo sul futuro dei negoziati tra Israele e palestinesi che l’amministrazione Usa guidata dal presidente Trump ha messo in cima alle priorità della sua agenda. “Non è una scelta scontata quella del presidente Trump – ha spiegato Mike Herzog (nell’immagine), ex generale israeliano e dal ’93 coinvolto ai massimi livelli nei negoziati con i palestinesi – Ma non è ancora chiaro cosa abbia in mente Washington: vuole portare avanti negoziati bilaterali? Pensa a un altro modello? Vuole concentrarsi su alcuni punti piuttosto che altri? Quale sarà il coinvolgimento dei Paesi arabi?”. Per il momento, ha sottolineato Herzog, ci sono pochissime informazioni su quale sarà l’approccio americano. Gli emissari Usa hanno incontrato e posto domande a diplomatici ed esperti di entrambe le parti ma a differenza del passato non è stato creato un vero team che si occupi dei negoziati. “Jason Greenblatt, inviato speciale per il processo israelo-palestinese, David Friedman, ambasciatore americano in Israele, e Jared Kushner, consigliere per il Medio Oriente, sono le persone che se ne occupano ma non c’è un vero team come nelle precedenti amministrazioni”. Il che, ha spiegato l’ex generale di Tsahal, non è necessariamente un male. Oltre a questa differenza sul fronte Usa anche la situazione sul terreno è cambiata: per Herzog, sia israeliani sia palestinesi hanno meno spazio di manovra rispetto al recente passato. “In Israele, metà del governo non crede nei negoziati; tra i palestinesi, la situazione è ancora più caotica e disfunzionale di quanto non fosse prima”. Queste sono solo alcune delle note negative per un eventuale rilancio del processo di pace. Di positivo, secondo l’analista, il coinvolgimento sotto una diversa prospettiva dei Paesi arabi. E ne è un esempio la ricostruzione dei rapporti tra Egitto e Striscia di Gaza: il Cairo, con l’intermediazione (un po’ a sorpresa) di Mohammed Dahlan, ex leader di Fatah a Gaza, ha deciso di riaprire e rinnovare il valico di Rafah. Da qui passano prodotti di prima necessità come medicine e alimenti (come accade per il valico di Kerem Shalom, sotto giurisdizione israeliana) e, in cambio di queste forniture, il generale egiziano Al Sisi – che con Israele ha buoni rapporti – ha chiesto a Hamas garanzie, tra cui l’impegno nella lotta contro Daesh. La pressione egiziana sul movimento terroristico che controlla con sempre più difficoltà la Striscia potrebbe essere un buon deterrente contro le violenze, hanno spiegato gli analisti.
Rimanendo sul fronte arabo, un coinvolgimento nel processo di pace dell’Arabia Saudita, su invito degli Stati Uniti, potrebbe dare buoni frutti. Almeno secondo un altro dei protagonisti dell’incontro di Bruxelles, Yossi Kuperwasser, già direttore generale del Ministero degli Affari strategici ed ex capo della divisione dell’intelligence dell’esercito israeliano. Parlando con Pagine Ebraiche, Kuperwasser ha sottolineato che “lo status quo non piace a nessuno, né a israeliani né ai palestinesi, ma per il momento non ci sono alternative valide. L’Arabia Saudita potrebbe aiutare a fare pressione sui palestinesi affinché smettano di rivendicare Haifa e, ma questo sarebbe un grande risultato, finanzino i terroristi e le loro famiglie”. Per Kuperwasser quest’ultima questione è centrale per il possibile rilancio dei negoziati: “è molto difficile che l’Autorità nazionale palestinese si lasci convincere a smettere con queste sovvenzioni ma, se dovesse farlo, sarebbe un punto sicuro da cui partire per i colloqui”. Per Israele è prioritario che i palestinesi dimostrino di impegnarsi per garantire la sicurezza dei suoi cittadini: basta quindi con le istigazioni alla violenza, testimoniate anche da Bassem Eid, relatore palestinese all’evento dell’Eipa e fondatore del Palestinian Human Rights Monitoring Group di Ramallah. Eid sostiene che uno dei problemi principali è proprio l’istigazione alla violenza nelle scuole palestinesi: “io non voglio che mio figlio impari che è giusto suicidarsi, attaccando gli israeliani. Che questo è il modo per fermare l’occupazione. Quale leader può permettere che i suoi figli vadano a morire?”. Per Eid l’atteggiamento palestinese deve cambiare radicalmente ed è a questo che punta la sua ong. Ma a prescindere dagli sforzi dei singoli, la situazione è ancora troppo caratterizzata da contrasti e, come ha spiegato Kuperwasser, “lo status quo al momento rimane l’unica alternativa”. In attesa che gli Stati Uniti o chi per loro mostrino le proprie carte.
Daniel Reichel
(12 luglio 2017)