Periscopio – K

lucreziAvevo annunciato, mercoledì scorso, che avrei parlato – dopo Kalooki nights, di Jakobson – di un secondo, eccellente romanzo che mi è capitato di leggere di recente, e che mi ha fatto avvertire l’esigenza di condividere, con i lettori di questo notiziario, alcune delle profonde emozioni che mi ha suscitato la sua lettura. Si tratta di un libro che ha in comune, con quello di cui ho già scritto, il carattere fortemente tragico, mirabilmente accentuato dall’apparenza comica e grottesca, fatta di un umorismo duramente intriso di angoscia, dolore e disperazione; ma che, rispetto all’opera del grande scrittore britannico, si colloca, in un certo senso, all’opposto, in quanto, se le “Nights” di Jakobson descrivono la tragedia del rapporto oscuro e inconciliabile tra ebrei e gentili – e quindi, in un certo senso, l’apparente destino di eterna incomunicabilità, instabilità e sofferenza, tanto degli uni quanto degli altri -, l’opera a cui faccio ora cenno non tratta di un conflitto “tra diversi”, ma va dritto va al cuore, con inusitato coraggio, di un dramma che tutti accomuna, e che è il messaggio nascosto dell’esistenza umana, il senso dell’essere uomini, l’inesplicabile enigma della vita, dell’amore e del dolore. Perché tutti, nel romanzo – buoni e cattivi, forti e deboli, colpevoli e innocenti -, appaiono uniti, alla fine, da un identico destino, la cui cifra resterà racchiusa, fino alla fine dei tempi, in una muta domanda senza risposta: quanto spazio c’è, nella vita di ogni singolo uomo, affinché in essa possa entrare qualcosa della vita degli altri uomini? Chi è destinato a vincere, alla fine, nell’eterna lotta tra egoismo e sollecitudine, solitudine e compassione?
L’autore di Karoo – questo (dal nome del protagonista) il titolo del romanzo (edito da Adelphi, e tradotto in italiano, come abbiamo già detto, da Milena Zemira Ciccimarra) -, Steve Tesich (scomparso nel 1996), sorprendentemente, non è stato uno scrittore di professione, bensì uno sceneggiatore di Hollywood, che traspone nell’opera, evidentemente, buona parte della sua esperienza lavorativa di creatore di trame narrative. Ma la trama che affronta, stavolta, appare di straordinaria ambizione, in quanto coincidente con lo stesso disegno della creazione. Il protagonista, partito da una base di assoluto cinismo, anaffettività e aridità d’animo, si troverà coinvolto, da imprevedibili e beffarde circostanze, in una specie di gioco di società, che sembrerà dargli lo straordinario potere, come Dio, di fare e disfare la vita di altri uomini. Ma questo potere divino si ritorcerà crudelmente, alla fine, contro di lui, facendogli capire che quello della creazione è tutt’altro che un “gioco” divertente. E alla fine, partirà, come un nuovo Ulisse, alla ricerca di quel Dio da cui si è sentito ingannato, o che, forse, ha creduto lui di potere ingannare.
Nel finale del romanzo, la mitologia greca e la mistica ebraica – di cui Tesich si rivela magistrale conoscitore – si coniugano in un affresco epico, nel quale gli dei dell’Olimpo si stagliano, nello spazio e nel tempo, accanto al Dio unico, come astri lontani, in un universo oscuro e desolato, il cui unico vero protagonista è il rimpianto dell’amore non vissuto: “per quanto Ulisse possa amare, e per quanto ami, adesso sa che neanche un istante di non amore potrà mai essere recuperato. Mai”.
Alla fine, Karoo-Ulisse incontrerà davvero il Signore. Ma, diversamente dall’incontro di Giacobbe, o di Mosè, Dio non si accorgerà di lui. E, forse, è meglio così, perché neanche il Creatore potrebbe consolarlo del non amore da lui vissuto, delle occasioni perdute e sprecate. E, smarrito per sempre nell’immensità dello spazio-tempo, condannato a eterno rimpianto e infinita solitudine, a Ulisse non resterà che pronunciare silenziose parole di preghiera, destinate a non essere ascoltate da nessuno: “Benedetta sia ogni creatura vivente. Padre, madre, fratelli, sorelle, figli della terra, benedette siano le vostre vite, poiché esse sono la gioia del mondo”.

Francesco Lucrezi, storico