A Gerusalemme il Sigd dà voce ai Beta Israel
L’ebraismo etiope in festa nella Capitale

Schermata 2017-11-19 alle 22.14.12Migliaia di ebrei etiopi si sono radunati giovedì scorso a Gerusalemme (sulla Tayelet Haas che guarda la città vecchia) per la festività Sigd (nella lingua gheez, Prostrazione), che celebra il rinnovo dell’alleanza tra il popolo ebraico, Dio e la Torah. Per secoli questo giorno era l’occasione per gli ebrei etiopi, noti anche come Beta Israel, di ricordare il sogno di tornare un giorno a Gerusalemme, diventato nella seconda metà dello scorso secolo realtà. “Questa festività è riuscita a preservarci nei secoli, ad alimentare in noi il desiderio di tornare nella nostra terra, ad unirci e non mischiarci, a sognare e pregare nonostante le difficoltà. Ed eccoci qui”, ha raccontato in passato rav Sharon Shalom al Portale dell’ebraismo italiano.
Sono passati più di 40 anni da quando la comunità etiope è arrivata in Israele per la prima volta, ma Sigd è stata dichiarata festa nazionale solo nel 2008. La storia dell’emigrazione in Israele dei Beta Israel – letteralmente ‘casa d’Israele’, nome con cui si indicano gli ebrei etiopi – è iniziata alla fine degli anni ’70, quando minacciati da carestie e dalle repressioni del governo etiope cominciarono a lasciare il paese, dove vivevano sparsi in centinaia di piccoli villaggi per lo più al nord, per dirigersi verso il Sudan, a maggioranza musulmana e ostile nei loro confronti.
Dopo alcune discussioni di tipo costituzionale e anche halachico, queste ultime legate alle commistioni con la cultura etiope presenti nell’ebraismo dei Beta Israel e al fatto che essi erano costretti a professare il loro culto di nascosto – molti di loro si convertirono volontariamente o forzatamente al cristianesimo, sono chiamati Falash Mura – nel 1977 il governo israeliano decise di applicare la Legge del ritorno anche agli ebrei etiopi. I Beta Israel vennero trasportati in territorio israeliano in maniera massiccia attraverso un ponte aereo, con tre diverse operazioni che si susseguirono negli anni ’80. L’Operazione Mosè e l’operazione Giosuè partirono dal Sudan, mentre nel 1991 l’Operazione Salomone partì dalla capitale etiope Addis Abeba, e così pur con gravi perdite nei tragitti vennero trasferiti più dei tre quarti della comunità.
Ma anche una volta arrivati in Eretz, la vita non fu sempre rosea per i Beta Israel. L’integrazione non fu facile, soprattutto perché gli ebrei etiopi erano abituati a vivere in una società di tipo tribale e agreste, e dunque l’incontro con l’Israele moderna causò un certo disagio. Per gli strati più giovani della comunità, soprattutto grazie alla scuola e all’esercito, il passaggio fu meno drammatico, tuttavia rispetto al resto degli israeliani si registra tutt’oggi tra gli quelli di origine etiope un livello di povertà più elevato, accanto a un livello di scolarizzazione più basso. A raccontare le vicende dei Beta Israel, anche una mostra al museo Beit Hatfutsot di Tel Aviv, inaugurata nel 2016 in occasione del trentennale dall’operazione Mosé: le foto di Doron Bacher e le interviste della regista Orly Malessa raccontano il difficile iter di integrazione della comunità proveniente dall’Africa, che in Israele ha sofferto anche nel recente passato di discriminazioni e la cui voce a lungo è rimasta inascoltata. “Non abbiamo visto, non abbiamo agito correttamente e non abbiamo ascoltato”, aveva affermato il presidente d’Israele Reuven Rivlin nel giorno dedicato dalla Comunità ebraica etiope alla memoria di coloro, famigliari e parenti, che morirono nel tentativo di raggiungere Schermata 2017-11-19 alle 21.50.34Israele (circa 4mila persone). Nella mostra al Beit Hatfutsot quella storia – parte anche dell’attualità del Paese – torna in modo chiaro a vivere e conferisce voce e dignità a migliaia di persone. Voce che i giovani etiopi continuano a far sentire come è accaduto proprio la scorsa settimana a Gerusalemme con slogan e magliette dedicati a Avraham Mengistu, trentenne di origine etiope che nel settembre 2014 ha scavalcato la barriera di sicurezza nei pressi di Zikim – a sud di Ashkelon – e si è introdotto nella Striscia di Gaza. Il ragazzo soffre di disturbi psichici e da tre anni è nelle mani di Hamas, il gruppo terroristico che controlla Gaza. “Avera Mengistu è ancora viva”, si leggeva sulle t-shirt dei ragazzi, che chiedono al governo israeliano di impegnarsi per riportarlo in Israele.

(Immagine in basso di Alessandro Camillo)