Un Paese, due società

Schermata 2017-12-10 alle 21.16.28In economia nulla è assicurato una volta per sempre. Allo stato attuale delle cose, Israele attira circa il 15% degli investimenti planetari di venture capital nel settore della sicurezza e dell’innovazione informatica. Altri settori estremamente promettenti sono quelli della tecnologia agricola e idrica, i servizi sanitari digitalizzati e la tecnologia finanziaria. Insieme alla Silicon Valley (che potrebbe tranquillamente secessionare dagli Usa, per quanto riguarda le sue dinamiche di evoluzione, essendo un soggetto a sé rispetto al resto del Paese), il distretto industriale e tecnologico di Tel Aviv costituisce il secondo ecosistema dell’innovazione più dinamico al mondo. Lo testimoniano i voli diretti tra San Francisco e Tel Aviv. Eppure, poco più di trent’anni fa le cose non stavano per nulla in questo modo. Ancora negli anni Ottanta il rischio di un default delle finanze pubbliche era immediatamente dietro l’angolo. Dopo la guerra di Yom Kippur la spesa per la difesa era salita al 30% del Prodotto interno lordo. Nel 1984 il debito pubblico ammontava a circa il 300% del Pil mentre il tasso inflattivo aveva raggiunto il livello record del 450% l’anno. Roba da rimanere strozzati con le proprie stesse mani. Nell’ultimo decennio il debito si è assestato fisiologicamente al 62% del Pil, l’economia cresce ad un tasso medio tra il 3 e il 4% annuo, la disoccupazione viaggia intorno al 4,3%, la bilancia dei pagamenti è in attivo, la moneta nazionale si è rivalutata in due anni del 13%. Israele non ha subito nessuna fase recessiva (due trimestri consecutivi di produzione in calo) dal 2000 in poi.
Rimane il fatto che il Paese presenta una struttura economica fortemente divisa. L’high-tech conta un decimo dell’occupazione complessiva mentre una rilevante parte della restante forza lavoro è impiegata in settori a basso tasso di innovazione e con un livello di produttività piuttosto contenuto. I tassi di povertà sono inoltre molto pronunciati, colpendo in particolare modo sia i settori tradizionalmente più deboli della società israeliana (dagli ultra-ortodossi agli arabi, entrambi con tassi di fertilità media molto più elevati degli altri gruppi) sia le generazioni più giovani, che devono confrontarsi con un mercato del lavoro sempre più deregolamentato.
Il rischio che le due economie, quella dell’innovazione globalizzata e quella della produzione più tradizionale, fortemente localistica, non comunichino è percepito da molti analisti come un fattore che potrebbe incidere nel determinare crisi nella struttura economica israeliana per i tempi a venire. L’estrema volatilità delle start-up e, più in generale, dell’high-tech fa sì che sì che entrambi cerchino perennemente nuove allocazioni, più profittevoli e sicure. Inoltre, l’effetto di trascinamento che l’innovazione dovrebbe generare sui settori economici meno tecnologici non è per nulla scontato e men che meno duraturo. La caduta benefica è, infatti, estremamente selettiva. Al riguardo, sarebbe importante che le start-up non fossero vendute dai loro creatori alle grandi corporation internazionali dell’informatica ma si sviluppassero come aziende autonome e durature. Un altro indice insoddisfacente è quello offerto dal Pisa, il Programme for International Student Assessment, che rivela come una parte consistente degli studenti israeliani presentino lacune strutturali in molti campi di studio. Il problema non si pone per le molte eccellenze individuali che il Paese coltiva ma ricade immediatamente su quella fascia media di futuri lavoratori che entreranno a fare parte dei mercati meno avanzati. Un fattore decisivo, in questi ultimi due decenni, nella crescita economica d’Israele non è stato l’aumento di produttività ma l’incremento di forza lavoro, generato anche dal ridimensionamento del Welfare State. In quarant’anni l’incidenza della spesa pubblica sul Pil si è dimezzata, permettendo di realizzare politiche di rientro dal debito ma lasciando una parte della società israeliana priva di alcune importanti tutele. Sul lungo periodo tutto ciò è destinato a pesare, allargando la platea dei soggetti più fragili rispetto alle competenze richieste dai mercati del lavoro. Già da adesso, peraltro, nelle valutazioni della Banca mondiale sugli indici di facilità nel fare impresa il Paese è passato dal 26mo al 52mo posto, con una forbice crescente tra bassi salari e prezzi crescenti. Non di meno, nelle statistiche internazionali il costo medio della vita è valutato come superiore di circa il 20% rispetto alla Spagna e del 30% nei confronti della Corea del Sud. Le concentrazioni imprenditoriali mantengono inoltre forti capacità oligopoliste, che orientano all’insù l’andamento dei prezzi, a partire dall’edilizia e dai trasporti. Un ulteriore fattore che in prospettiva inciderà è la forte sperequazione tra il Pil pro capite israeliano, che nel 2015 aveva raggiunto i 35.700 dollari all’anno, e quello della Cisgiordania, pari a 3.700 dollari annui e di Gaza, ammontante a 1.700 dollari. La coesistenza di due comunità nazionali con differenze così marcate è destinata a pesare per i tempi a venire, riflettendo una parte dei problemi di quella più debole su quella più forte.

Claudio Vercelli