Ariel Rathaus, traduzione e poesia
In equilibrio tra due lingue

Ariel RathausAriel Rathaus è figura che si pone – per parafrasare la regista Nurith Aviv intervistata qualche tempo fa per Pagine Ebraiche – «entre»: entre Roma, città natale e di formazione, e Gerusalemme dove è approdato con l’aliyah; entre filosofia e tradizione (ha studiato due anni in yeshivà), entre letteratura italiana, ebraica e israeliana. Mentre alla Hebrew University si è occupato di italianistica, di poesia ebraica in Italia nel Rinascimento e nell’epoca barocca tenendo corsi su Boccaccio e su Petrarca, all’Università degli Studi di Milano ha tenuto corsi di cultura ebraica.

Oltre all’insegnamento all’Università Ebraica, un’attività che ti accompagna da molti anni è quella di traduttore, come è cominciata?
Ci sono arrivato negli Anni ottanta, traducendo in italiano un libro di saggi di Yeshayahu Leibowitz. Successivamente mi sono occupato soprattutto di poesia, ho cominciato con Amichai poi Meir Wieseltier, Natan Zach, ma ci sono state anche due novelle di Agnon uscite da Adelphi. Viceversa le mie traduzioni dall’italiano all’ebraico comprendono più prosa che poesia, anche se ho comunque cominciato da quella, preparando un’antologia di poeti italiani dei primi del Novecento, il cui filo conduttore erano i poeti innovatori: i futuristi, Dino Campana, il primo Ungaretti. Questa antologia riscosse un certo successo perché in Israele c’è un debole per la poesia avanguardistica dei primi del Novecento attraverso il futurismo russo. Tre anni fa ho curato un’antologia di poesie di Primo Levi. Ha suscitato molto interesse perché qui non si sapeva nulla della produzione poetica di Levi, fatta eccezione per la poesia posta in esergo a Se questo è un uomo. Per quanto riguarda la prosa ho tradotto alcuni classici. All’inizio insieme a Gaio Sciloni, con cui abbiamo tradotto La coscienza di Zeno di Svevo, successivamente ho ripreso in mano e portato a termine la sua traduzione del Decamerone di Boccaccio, che era rimasta incompiuta. Da allora ho preso due direzioni. Da una parte mi sono occupato della traduzione di grandi classici: La scienza nuova di Vico e poi il Dialogo dei massimi sistemi di Galileo, cui ho lavorato per cinque anni e che ancora non è uscito. Parallelamente ho tradotto grandi classici moderni, come Calvino, e altri libri di Svevo.

Come vedi questa tua vita al crocevia tra le due lingue? Con quale ti identifichi maggiormente?
Dopo tanti anni sono ancora in dubbio su cosa sia meglio: se tradurre nella lingua che si capisce di più, oppure da questa in una meno familiare. Spesso il problema delle traduzioni è quello di non capire fino in fondo lo spessore dell’originale, le sue risonanze emotive, e lì può aiutare il fatto che sia un madrelingua a sviscerare il testo. L’italiano è la lingua in cui sono cresciuto e ho studiato per tutti gli anni formativi, anche se col tempo ho imparato bene anche l’ebraico, lingua in cui scrivo e nella quale ho persino pubblicato un piccolo libro di poesie, cosa che non mi sognerei mai di fare in italiano.

Perché questo?
Perché l’ebraico è la lingua della mia realtà attuale. E’ in Israele che ho iniziato a pubblicare e quindi mi era naturale farlo nella lingua del paese in cui mi trovavo, in cui mi sentivo maggiormente coinvolto. La mia lingua di scrittura oggi come oggi è l’ebraico, anche se ci ho messo molti decenni ad arrivare a questa sensazione di padronanza.

Come s’intitola questa tua raccolta?
Ha un titolo banalissimo, si chiama Sefer zikhronot: Libro di memorie. Nell’introduzione tiro fuori la vecchia storia di Mnemosine, la madre delle Muse, che è anche la dea della memoria. C’è l’idea che a posteriori uno scrive quello che rimane nella memoria, ciò che alla fine era veramente significativo. Sono ricordi sia italiani che israeliani, non memorie in senso stretto. Sono piuttosto esperienze, il mio vaglio per capire quello che merita di essere conservato. È un libro di schegge sottratte alla dimenticanza perché mi è sembrato che valesse la pena di salvarle.

Come viene recepita e che peso ha nella cultura israeliana la letteratura italiana classica e moderna?
Interessa molto, la narrativa soprattutto; di poesia invece ve ne è poca, non c’è neppure Leopardi, o, per meglio dire, vi sono poesie singole, ma non una buona edizione, però c’è interesse, per esempio, per la Divina Commedia di cui in questi ultimi anni sono uscite ben tre nuove traduzioni.

C’è una simmetria tra com’è percepita la letteratura israeliana in Italia e il posto che ha quella italiana in Israele?
Possiamo dire che vi è un interesse reciproco. Parlavamo di Dante, bisogna però dire che vi è anche interesse per la narrativa italiana moderna e contemporanea, per autori quali Bassani, Elsa Morante, Elena Ferrante. Morante è stata un successo enorme, soprattutto La storia. Altri autori amati sono Ginzburg, Tabucchi, per esempio, e persino alcuni testi di Camilleri, ovviamente senza poter riprodurre il siciliano! Tuttavia penso che siano due interessi di tipo diverso. Da parte israeliana è quello per la narrativa di un paese vicino geograficamente, mediterraneo, per il quale di solito c’è un grande amore. Per il successo della narrativa israeliana in Italia penso che ci siano diversi motivi, uno è ovviamente costituito dall’elemento politico. Poi c’è il fatto che la letteratura israeliana è una letteratura ancora genuina, di un paese che vive in maniera molto profonda i problemi, capace di dare dei messaggi significativi, com’era l’Italia degli Anni ’50-60, quella della grande fioritura narrativa del dopoguerra, o come è stato per la scoperta del mondo della letteratura latino-americana. Più un paese è problematico, più la sua vita è problematica, più le arti si irrorano e si fortificano e acquistano più capacità di espressione.

Se dovessi indicarci qualche autore israeliano emergente, che sia di prosa o di poesia?
In questo periodo leggo poca narrativa e persino poca poesia israeliana contemporanea, mi vengono in mente Etgar Keret, Eshkol Nevo, già molto tradotti. Quello che posso menzionare invece, riguardo alla poesia, è che in Israele è ancora molto radicata nell’esperienza culturale in una maniera in cui in Italia non lo è più da moltissimo tempo. Il fatto che in Israele la poesia venga pubblicata abitualmente nei supplementi letterari del fine settimana dei quotidiani, è per me una cartina di tornasole, mentre in Italia si rifugia nelle riviste specializzate.

Anna Linda Callow e Cosimo Nicolini Coen, Pagine Ebraiche Dicembre 2017