“Mi privarono della lingua madre La riconquistai con l’ebraico”
Anche a guardarla dal punto di vista della lingua la sua vicenda è a dir poco straordinaria. La scrittura letteraria si nutre, in modo inevitabile, dell’idioma materno, di quei suoni e voci che accompagnano gli anni bambini. E solo in casi eccezionali l’espressione artistica ce la fa a sgorgare in una lingua appresa: Nabokov, Conrad, Beckett. Non a caso il grande scrittore rumeno Norman Manea, costretto a lasciare il suo paese dalla dittatura socialista, descrive con profonda amarezza la sua nuova condizione di libertà. “Nell’esilio felice dell’affrancamento, quando potevo, infine, parlare liberamente, mi è stata tagliata la lingua. L’esilio linguistico è, per lo scrittore, una combustione in profondità, il suo Olocausto… ”. Ma nel caso di Aharon Appelfeld i termini si rovesciano. Arriva in Israele nel 1946, quando ha tredici anni e mezzo. La persecuzione nazista lo ha privato dei genitori e del suo mondo. Fuggito da un campo di concentramento sopravvive, bambino, per tre lunghi anni nei boschi e nei campi. Completamente solo, smarrisce le lingue che hanno accompagnato la sua infanzia. Il tedesco, la lingua che la madre amava e coltivava con passione (“Nella sua bocca le parole suonavano limpide come se le avesse pronunciate attraverso un’esotica campana di vetro”).
Ma anche lo yiddish parlato dai nonni che per lui conserva ancor oggi il sapore acidulo della composta di prugne secche. Insieme al ruteno e al rumeno che costellavano la quotidianità della sua Czernowitz. Poco a poco, con fatica immensa, dice addio alle parole madri. Si trova a fare i conti con l’ebraico, che conquista faticosamente giorno dopo giorno. E, anche grazie alla lezione poetica della Bibbia, ne fa uno strumento di purezza cristallina capace di raccontare con potenza e delicatezza le tenebre della memoria, il suo mondo scomparso, la voglia di vivere e di ricostruire. Raggiunto al telefono nella sua casa di Gerusalemme, ripercorre questa traiettoria di vita e arte con toni sommessi e una cortesia rara. Animato da una profonda consapevolezza dell’inestricabile legame tra passato e presente che anima l’intera sua opera.
Aharon Appelfeld, la lingua è uno dei temi centrali dei suoi libri: da Storia di una vita del ’99 a Il ragazzo che voleva dormire, appena pubblicato in Italia da Guanda. Per quale motivo ha un ruolo così importante?
Fino a otto anni e mezzo la mia lingua madre è stata il tedesco. Quando sono arrivato in Israele non avevo più nessuno con cui parlarlo e, ragazzino, ho cominciato a studiare l’ebraico. Ma la lingua madre è come il latte materno. Un uomo che ne viene privato è malato per tutta la vita: la lingua materna non la parli, scorre: quando te la portano via ti si crea dentro una voragine e devi sforzarti in ogni modo di colmarla. Così ho iniziato a studiare l’ebraico e l’ebraico è divenuto la mia lingua madre. È stato un grande sforzo, una fatica impegnativa.
Cosa rimane oggi delle quattro lingue che hanno accompagnato la sua infanzia? Le parla ancora? E come si riflettono sul suo lavoro?
Oggi parlo il tedesco, anche se è una lingua in cui non mi sento del tutto libero. Parlo un po’ di russo, pochissimo rumeno. Ho studiato molto l’yiddish. Volente o nolente, le diverse lingue che conosco influiscono sulla mia scrittura. Non ne sono sempre consapevole, mi vengono a trovare e risuonano nella pagina. In questi anni parlo anche molto inglese, che in Israele come nel resto del mondo è divenuto la seconda lingua, una lingua che valica i confini.
In esilio tanti scrittori smettono di scrivere. Nel suo caso è avvenuto l’opposto.
Forse perché ho iniziato a conquistare l’ebraico a tredici anni e mezzo: un’età in cui non si è più bambini ma non si è ancora divenuti uomini. La mia grande fortuna è che sono arrivato in Israele senza essere andato a scuola. Prima della Shoah avevo terminato soltanto la prima classe. Se avessi studiato di più sarei arrivato nel mio nuovo Paese portando nella testa i libri e i vocabolari su cui avevo studiato. Così ho potuto invece costruire dal nulla e l’ho fatto in ebraico. Altrimenti avrei potuto imparare a comunicare in questa lingua, ma non sarei stato in grado di utilizzarla per la mia scrittura.
Spesso ha ripetuto quanto fosse duro l’ebraico per la sua sensibilità di ragazzo. “Suonava come degli ordini: andare, dormire, sistemare – ha detto in un’intervista – Suonava come fosse sorta dal mare, dalle sabbie che ci circondavano ad Atlit. Non era una lingua che sgorgava da te, era come riempirsi di ghiaia”.
Nel primo periodo della mia vita in Israele ho lavorato in un kibbutz e poi sono stato nell’esercito. La lingua per me era allora molto militare. Adesso non è più così. L’ebraico è ricco di infiniti significati e sfumature e può essere molto dolce e articolato.
In Storia di una vita torna spesso il tema del linguaggio del corpo: lei scrive che il corpo può ricordare ma è al tempo stesso un modo di dialogare con l’altro. Che differenza c’è tra la lingua del corpo e quella della bocca? Dicono cose diverse?
Il corpo registra quanto ci sta intorno tanto quanto la testa. Non lo diciamo mai di una gamba o di una mano, ma tutte le parti del nostro corpo sono antenne sensibilissime capaci di ricordare quanto ci accade e di raccontare le emozioni più profonde in un linguaggio tutto loro.
Una delle sue grandi paure, ha scritto, è quella di perdere l’ebraico. Al punto da sognare spesso di ritrovarsene privato. Perché questo timore?
Perché è una lingua che ho acquisito da ragazzo, non ci sono nato. La lingua acquisita devi sorvegliarla tutto il tempo perché non vi penetri nulla di straniero. L’ebraico è ormai la mia lingua materna. Sogno e scrivo in ebraico. Ma ancora oggi ho paura che se ne vada. Talvolta mi sveglio e questo ebraico imparato con tanta fatica svanisce, scompare. Voglio afferrarlo ma non ci riesco.
Cosa prova quando sente parlare l’ebraico di oggi? È diverso da quello che ha studiato?
In un certo senso sì. Ci sono molto slang e localismi, ma non potrebbe essere altrimenti. Ogni generazione esprime un suo ritmo nella lingua, toglie o aggiunge qualcosa. E poiché Israele è un grande crogiolo di popoli e di culture questa mescolanza si percepisce in modo significativo. Ma non vi è nulla di negativo in tutto ciò. È un pluralismo linguistico che apprezzo molto. Non credo che la lingua vada preservata in una sua fissità: è bello veder convivere tanti suoni e tante sfumature.
Nella Diaspora la conoscenza dell’ebraico ancora oggi è poco diffusa: in che modo ciò influisce sulla percezione di sé?
Se un ebreo vuole essere tale in modo profondo dovrebbe conoscere l’ebraico, così come dovrebbe conoscere i testi fondamentali della nostra tradizione, la filosofia, la mistica. La lingua è parte integrante dell’identità ebraica: non a caso tantissimi studiosi, anche in Italia, nel passato hanno scelto di scrivere in ebraico.
Ha scritto che non ama chi parla in modo troppo levigato e scorrevole perché le dà la sensazione che nel discorso via sia un vuoto nascosto. Come si sente quando guarda la tv o legge i giornali?
Non leggo molto i giornali, lo faccio soprattutto nel fine settimana. Ma seguo con grande attenzione le notizie, come d’altronde tutti noi in Israele. Quello dei media è un linguaggio giornalistico, in genere banale, che non ti tocca e non ti lascia nulla nell’anima. La lingua letteraria lavora in modo opposto perché cerca invece di trasmettere qualcosa. Ma anche la lingua dei giornalisti può essere elevata, profonda, complessa. Basti pensare ai tanti scrittori che hanno fatto questo mestiere. Un esempio per tutti, Hemingway.
A differenza di molti scrittori israeliani non ha mai preso posizioni pubbliche su questioni politiche. Per quale motivo?
La politica mi interessa, non vi si può sfuggire. Ma non penso di doverne discutere sui giornali o in televisione: preferisco parlare di scrittura, d’arte o di vita interiore. D’altronde non si può suonare sia un caffè sia in un’orchestra filarmonica. E la mia musica è quella dell’interiorità e dell’anima: quella della letteratura.
Daniela Gross, Pagine Ebraiche Settembre 2012