JCiak – L’avvocata e la ministra

Advocate_3_720_405_90L’avvocato più celebre d’Israele in questo momento è una donna. Si chiama Lea Tsemel, è israeliana e da cinquant’anni difende i palestinesi: dalle femministe ai fondamentalisti, dagli attivisti non violenti ai militanti armati. Molti la considerano una traditrice, per altri è un’alleata preziosa. Lei dice di volere solo giustizia.
Il nome di Tsemel sarebbe rimasto confinato nelle aule di tribunale, se a lei non fosse dedicato un documentario, The Advocate. In questi giorni al Biografilm di Bologna dopo essere stato al Sundance e aver vinto alcuni premi in giro per il mondo, il lavoro ha trionfato al DocAviv Festival appena concluso a Tel Aviv e, come da copione, per la gioia dei media subito ha scatenato la furibonda reazione del ministro della Cultura Miri Regev.
Promotrice di una legge sulla lealtà culturale, la ministra non è nuova a sparate del genere. Fra le più éclatanti – al punto da provocare la pacata ma ferma reazione di Nechama Rivlin z’l’ – quella contro Shmuel Maoz, Leone d’Argento a Venezia con Foxtrot, accusato dalla Regev di infangare l’onore dell’esercito. Questa volta la ministra condanna “la scelta di fare un film centrato su un avvocato che rappresenta, sostiene e parla in nome di chi mina l’esistenza dello Stato d’Israele, usa il terrorismo contro i suoi soldati e il popolo e ottiene supporto pubblico e legale da Tsemel”. E dalle parole ai fatti, esorta Mifal Hapays, la lotteria nazionale che ha finanziato il premio, a rifiutare il riconoscimento.
A invocare l’intervento di Regev, racconta Haaretz, era stata Choosing life, un’associazione che riunisce famiglie colpite dal terrorismo. “Tsemel da cinquant’anni rappresenta terroristi che hanno assassinato israeliani, fra cui molti dei nostri figli, mogli, mariti, fratelli e altri parenti”, scriveva l’associazione. “Finanziare un premio per chi difende i terroristi in tribunale è sputare in faccia alle famiglie in lutto. Questo folle film dovrebbe rappresentare lo Stato d’Israele agli Oscar internazionali, il che è stupefacente e ripugnante”.
Regev aveva rincarato la dose, affermando che la descrizione in chiave positiva di Tsemel “non può lasciare indifferente chi teme per il futuro d’Israele” e che “nessun effetto cinematografico può nascondere il lavoro di Lea Tsemel contro lo Stato d’Israele e il suo popolo”.
Le precisazioni sono seguite a ruota. Non è stato il ministero della Cultura a finanziare il film, che si è avvalso dei fondi del ministero della Finanza e delle autorità locali tramite il Pays Council for culture and arts. Il premio non va a Leah Tsemel ma, come sempre accade, ai filmakers. Il film non è detto finisca agli Oscar perché per i documentari i criteri sono diversi da quelli in vigore per i film. E comunque, né Regev né la portavoce dell’associazione avrebbero visto The Advocate.
The Advocate, diretto da Rachel Leah Jones e Philippe Bellaiche e frutto di una coproduzione Israele/Canada/Svizzera, mescola realtà, animazione e girati d’archivio per descrivere un ritratto a tutto tondo di una donna coraggiosa che ha scelto di battersi per i diritti umani come definiti dalla stessa legge israeliana che tutela le minoranze. Tsemel sa che il suo è un impegno controverso. “Mi hanno chiamata traditrice, sinistrorsa, avvocato del diavolo. Ma sono tempi in cui suonano come complimenti”. “Tutti meritano una buona difesa – conclude – e i palestinesi possono essere difesi nelle corti israeliane. Dal momento che possono essere difesi, devono esserlo. E io sono fra quelli che lo fanno”.

Daniela Gross