Discorso del consigliere Bruno Orvieto
‘Giorno della Memoria’: discorso del consigliere Bruno Orvieto alla manifestazione tenutasi a Genova
27 gennaio 2005
TRA RICORDO DEL PASSATO E RESPONSABILITA’ DEL PRESENTE
Genova, Palazzo Doria Spinola Sala del Consiglio Provinciale
Signor Presidente delle Provincia, Signor Sindaco, Autorità, Signore e Signori, Sono onorato di rappresentare l’Unione delle Comunità ebraiche italiane a questa cerimonia dedicata al giorno della Memoria e ad una comune riflessione sui tragici avvenimenti accaduti in quell’oscuro periodo che va dal 1938 alla fine della 2^ guerra mondiale.
L’impegno delle Istituzioni sul tema della Memoria è particolarmente significativo in una fase storica come quella che stiamo vivendo, nella quale vocaboli come razzismo e xenofobia tornano ad essere pericolosamente presenti nel vocabolario quotidiano, ed i valori del pluralismo e dell’uguaglianza fra le genti vengono da più parti frequentemente e deliberatamente ignorati. Conservare la Memoria di quanto è accaduto allora, deve aiutarci a far sì, come recita la legge istitutiva del Giorno della Memoria, che “simili eventi non possano mai più accadere”.
Come dicevo, sono qui in quanto Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane; non avete di fronte quindi, né un esperto di storia dell’ultimo secolo, né un oratore specializzato sulla memoria della Shoà. Avete però di fronte un testimone delle persecuzioni razziali che furono poste in atto nel nostro Paese ed in Europa sei/sette decenni fa, come ne è testimone – proprio malgrado – qualsiasi ebreo che fosse già nato e vivesse in Italia nel periodo della Seconda Guerra Mondiale.
E’ in questa veste che, con una certa emozione, mi accingo a parlare in un contesto così alto e mi permetto quindi di cominciare il mio intervento con il racconto dell’esperienza vissuta da me e dalla mia famiglia dall’anno della mia nascita, il 1938, fino alla Liberazione, nel 1945. Non parlerò quindi direttamente della Shoà, della deportazione, dello sterminio di un popolo; argomenti questi che vorrei poter considerare come noti a tutti e che in una giornata come quella di oggi aleggiano nell’aria e tengono impegnate le nostre menti ed i nostri cuori; mi limiterò a rendere una testimonianza ed a trarne qualche riflessione.
Avevo solo 5 mesi quando è uscito il regio decreto legge 17 novembre 1938, n. 1728; il decreto imponeva fra l’altro che sul mio certificato di nascita, come su quello di tutti gli ebrei, venisse apposta l’annotazione ‘appartenente alla razza ebraica’. Ecco da dove comincia il mio percorso attraverso le persecuzioni.
Ho con me il libro pubblicato dalla Camera dei Deputati nel 1998 in occasione del 60° anniversario dell’emanazione della legislazione antiebraica in Italia. Fra i documenti che vi sono riprodotti c’è la pagina della Gazzetta Ufficiale che contiene il decreto che ho appena citato. Si vede una pagina che, per formato, tipo di carattere e disposizione del testo, è del tutto identica ad una pagina della Gazzetta Ufficiale di oggi. E più avanti si trovano le riproduzioni degli ATTI PARLAMENTARI relativi allo sviluppo dell’iter del provvedimento; anche questi hanno aspetto del tutto identico agli ATTI PARLAMENTARI di oggi, a degli strumenti del lavoro quotidiano dei nostri attuali deputati e senatori, maneggiati ogni giorno in continuazione. Pensiamoci un momento, un’infamia come quella del razzismo è passata attraverso le pagine della Gazzetta Ufficiale, come una delle tante leggi e leggine che ancora oggi vi vengono pubblicate e che noi distrattamente leggiamo. Non sono venuto qui per citare Hannah Arendt, ma quando si dice “la banalità del male” . . .
Ma torniamo alla mia testimonianza. La mia famiglia viveva a Genova; sì perché sono genovese, anche se da molti anni il lavoro mi ha portato a risiedere lontano, e l’occasione che mi si offre oggi di intrattenermi con voi mi fa sentire un po’ come se per un giorno fossi tornato a casa mia. La mia famiglia, dicevo, nel 1938 viveva a Genova; mio padre lavorava all’Ansaldo, Società a partecipazione statale, che come tale, con l’emanazione del citato regio decreto del 17 novembre 1938 (ai sensi dell’art. 12 lettera f), non poteva più “avere alle proprie dipendenze persone appartenenti alla razza ebraica”. Così da un giorno all’altro mio padre è stato “dispensato dal servizio” (così si diceva) e dallo stipendio; e come lui, i miei zii ed il fratello di mia nonna. I miei nonni paterni, entrambi insegnanti elementari di ruolo, sono stati allontanati dalla loro scuola; ma a Genova, nella Scuola Brignole Sale, era stata istituita una sezione separata per bambini ebrei (la cosiddetta ‘scuola di razza’) e mia nonna è stata assegnata a quella sezione, che ha continuato a funzionare fino al 1943. Forse fra i presenti c’è qualcuno che è stato suo allievo.
Ai nonni era rimasta dunque una pur ridotta fonte di reddito e, ormai ultracinquantenni, ritenevano di non correre particolari pericoli; come molti altri ebrei, dicevano: “noi non abbiamo mai fatto male a nessuno, chi può avercela con noi?” quindi hanno deciso di continuare la loro vita pressoché normale. Altrettanto ha fatto mio padre, che aveva trovato un nuovo impiego presso un’azienda privata di persone amiche. Gli zii invece hanno dovuto cercare altre soluzioni riuscendo fortunosamente ad espatriare.
Quanto ai beni patrimoniali, vale la pena di rammentare che era stato costituito un apposito Ente (l’EGELI) al quale dovevano essere conferiti i beni appartenenti agli ebrei.
Anche a questo proposito vorrei mostrarvi qualche documento: sempre nel libro della Camera, si trova copia del manifesto con il quale il Prefetto di Modena ordina – a privati, banche ed enti – di denunciare “i beni appartenenti a persone di razza ebraica” a qualsiasi titolo da loro detenuti, in applicazione alla disposizione di polizia con cui viene disposto l’immediato sequestro di tutti i beni mobili ed immobili di tutti gli Ebrei. Ma ho anche due documenti originali che voglio farvi vedere: sono i verbali dei sopralluoghi con i quali, prima la Questura e poi – appunto – l’EGELI, hanno inventariato i beni contenuti nella casa dei miei nonni materni a Venezia, confiscati con decreto del 6 giugno 1944.
La mia famiglia, come dicevo, era rimasta a Genova in una situazione della cui precarietà e pericolosità forse non ci si rendeva nemmeno conto.
L’occupazione tedesca diveniva ogni giorno più presente ed oppressiva; ma fra gli ebrei, ripeto, ben pochi avevano la sensazione di quanto grave fosse il rischio che stavano correndo. Del rastrellamento del Ghetto di Roma del 16 ottobre 1943 e della conseguente deportazione di 1023 ebrei romani non passò evidentemente alcuna notizia, se è vero, come è vero che ancora nel novembre del ’43 fascisti e tedeschi potevano irrompere negli uffici della Comunità di Genova e costringere il personale a chiamare al telefono gli iscritti, convocandoli per una riunione. Molti, purtroppo, caddero nel tranello e invece dell’assemblea trovarono la cattura, la detenzione e, infine, la deportazione. Fra di loro lo stesso Rabbino capo Riccardo Pacifici, che fu ucciso al suo arrivo ad Auschwitz.
Noi ci siamo salvati perché per fortuna eravamo partiti da pochi giorni. La famiglia di una affezionata ex-scolara di mia nonna si era offerta di ospitarci nella sua casa di campagna, in una piccola località dell’Appennino savonese. Voglio qui rendere merito pubblicamente e fare nome e cognome di questi Giusti, che, con grande generosità e rischio personale, hanno salvato la vita a sette persone della mia famiglia. Si tratta dell’ing. Eugenio Massa e di sua moglie Giannina; ma anche dei suoi figli e parenti, che vennero poi a trovarsi a condividere, coscientemente, i rischi connessi con la nostra presenza nella loro casa.
Erano stati proprio i signori Massa, persone molto in vista nella società genovese e quindi presumibilmente bene informate, a trasmetterci la sensazione del pericolo sempre più grave che stavamo correndo e ad insistere perché ci trasferissimo, in assoluto segreto, nella loro seconda casa. Così siamo passati alla clandestinità: io, i miei genitori, i miei nonni paterni e due pro-zii, che ci hanno raggiunto dopo poco tempo.
La casa dei Massa era un intero edificio di ampie dimensioni. Sembrava che, pur con tutti i condizionamenti ed i rischi imposti dalla nostra clandestinità, si fosse trovata una soluzione che avrebbe potuto consentire una vita quasi normale. Ma non passò molto tempo che la situazione venne a mutare radicalmente: una mattina, alcune camionette militari, italiane e tedesche, vennero a fermarsi davanti alla porta di casa. Ne scesero ufficiali e sottufficiali, che, ispezionato l’edificio, comunicarono che il secondo piano dello stesso, quello che occupava la mia famiglia, da quel momento sarebbe stato requisito ed intimarono di liberarlo entro poche ore, per far posto al comando di un loro distaccamento assegnato a quella località. Di fronte alla nuova situazione i nostri generosi e coraggiosi ospiti hanno assunto quella che ritenevano fosse l’unica decisione giusta: si sono ristretti, o più precisamente ammassati, in poche stanze ed hanno assegnato a noi tre camere del loro primo piano, dove ci hanno tenuto nella più assoluta riservatezza, non rivelando mai a nessuno la nostra identità né il nostro stato di ebrei in clandestinità. E’ così che abbiamo trascorso i successivi 18 mesi.
E’ stata dura, ma alla fine siamo arrivati, provatissimi ma indenni, all’aprile del 1945, quando i partigiani, anticipando gli alleati, hanno preso possesso dei luoghi ed hanno posto fine al nostro incubo.
Il mio bilancio personale può dirsi, nonostante tutto, particolarmente fortunato, se si pensa che nessun mio parente stretto è finito nei campi di sterminio. Ma non è stato così purtroppo per la maggioranza delle famiglie ebree italiane, a partire da quella di mia moglie, il cui nonno, catturato a Ferrara dagli agenti della Questura repubblichina, fu internato a Fossoli e poi deportato ad Auschwitz da dove non fece ritorno.
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Spesso si identifica tutto ciò che di antiebraico ci fu nel ventennio con i lager nazisti e comunque con il periodo 1943-45, quello cioè del dominio tedesco e della Repubblica di Salò; in realtà, come abbiamo visto, le politiche razziste ed antisemite si svilupparono assai prima nel nostro Paese. Fin dal 1938 sono state poste in vigore leggi razziste e liberticide; provvedimenti che nulla avevano da invidiare, quanto a durezza e puntiglio, a quelli posti in atto dalla Germania nazista; cosiddette leggi razziali, ma in realtà divenute leggi assassine (come le definisce il Caffaz), perché gli ebrei deportati nei lager furono individuati assai spesso attraverso gli elenchi previsti dalle leggi italiane.
Il primo atto ideologico che rendeva ufficiale il “razzismo fascista” è il cosiddetto MANIFESTO DEGLI SCIENZIATI RAZZISTI, elaborato presso il Ministero della cultura popolare su indicazioni di Mussolini e pubblicato su tutti i quotidiani il 15 luglio 1938. Era così chiamato perché firmato da una decina di docenti universitari, alcuni meno conosciuti, ma altri ben noti scienziati, ed era costituito da un delirante “decalogo” per affermare l’esistenza delle razze, del loro concetto biologico e di una “pura razza italiana di civiltà ariana”; veniva inoltre fissato il dovere di non alterare i caratteri fisici e psicologici degli italiani ed altre tragiche amenità di questo genere. Il punto 9) del decalogo stabilisce che gli ebrei non appartengono alla razza italiana.
Segue la prima legge antisemita (R.D.L. 5 settembre 1938 n. 1390) che espelleva tutti gli ebrei dalle scuole pubbliche di ogni ordine e grado. Vale la pena di ricordare almeno la data di questo provvedimento, perché segna l’inizio dell’attività legislativa razzista del Governo italiano e con essa del suo impegno ufficiale nell’azione contro i ‘diversi’ – 5 settembre 1938.
E’ bene ricordare che improvvisamente persero il lavoro circa 200 insegnanti e dovettero interrompere gli studi negli istituti pubblici 200 studenti universitari, 1.000 nelle scuole medie e 4.400 nelle elementari (questi ultimi, fra l’altro, sottoposti al vincolo dell’istruzione obbligatoria).
Pensate a cosa significa per un bambino essere allontanato dalla scuola, lasciare i suoi compagni, la classe, la maestra….pensate!
Contestualmente al provvedimento sulla scuola, un altro decreto veniva emesso per sancire l’espulsione degli ebrei stranieri o divenuti italiani a partire dal 1919.
La DICHIARAZIONE SULLA RAZZA approvata il 6 ottobre 1938 dal Gran Consiglio del fascismo è il successivo documento quadro, da cui discendono gli altri provvedimenti legislativi. Con il già citato decreto del 17 novembre 1938 venivano integrate le norme per l’espulsione degli ebrei dalle scuole, divenivano fuorilegge i neo-matrimoni misti, venivano espulsi gli ebrei dalle forze armate (150), dalle industrie, dai commerci, dalle libere professioni (2500, con soddisfazione dei concorrenti) dagli enti pubblici in genere (400) e da enti privati (500). Come osserva Ugo Caffaz nella sua prefazione ad un libretto pubblicato dalla Regione Toscana nel 1988 per il 50° anniversario delle leggi razziali, con la cacciata degli ebrei si vennero a creare nuovi posti di lavoro e nuove possibilità di carriera. Non risulta ci siano stati rifiuti a subentrare agli ebrei nei vari posti lasciati vacanti.
Una attenzione particolare va riservata, considerandola una inutile conseguenza dell’e¬conomia di guerra, alla precettazione civile degli ebrei a scopo di lavoro, decisa il 6 maggio 1942. Le ragioni addotte per poter avviare al lavoro «schiavistico» gli ebrei furono di due ordini: l’impiego di tutte le risorse disponibili per lo sforzo bellico (o forse più la «dimostrazione» dell’impiego) e, come si legge nelle carte della Direzione Generale Demografia e Razza, per rispondere positivamente alle proteste che sarebbero venute sulla condizione di privilegiati (sic!) degli ebrei esenta¬ti dal servizio militare e quindi dalla guerra.
Dopo l’otto settembre la Repubblica Sociale Italiana ha un ruolo di primo piano nella caccia agli ebrei e nella spoliazione dei loro beni. La “carta di Verona”, del 14 novembre 1943 sanciva che “gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri, durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica”; una ordinanza subito seguita ne disponeva l’internamento, con sequestro immediato dei loro beni. Nel mese di dicembre ebbe luogo un’ondata di arresti, tutti finalizzati alla consegna ai tedeschi per la deportazione.
Se in Italia molti ebrei si sono potuti salvare questo è dovuto al fatto che anche negli anni dell’occupazione tedesca sono esistiti nel nostro paese migliaia di “Giusti”, eroi spesso anonimi, che salvarono, a rischio della propria vita, intere famiglie di ebrei perseguitati.
E’ altrettanto vero peraltro che ciascuno degli ebrei deportati ed uccisi nei campi di sterminio deve la sua cattura anche a qualche italiano, diciamo di “buona volontà” che, in ottemperanza alle leggi fasciste e naziste, denunciò, a volte per denaro, catturò, consegnò e uccise. 1951 sono stati gli arresti condotti da italiani “ariani” dei loro concittadini ebrei. In altri 332 casi, l’arresto venne condotto congiuntamente da italiani e tedeschi. Sono solo numeri, cifre che possono apparire prive di significato, eppure a ciascuno di questi numeri corrisponde un essere umano: un uomo, una donna, un vecchio od un bambino. Furono 68 i bambini nati tra il 1943 e il 1945 che vennero deportati. Oggi, 27 gennaio -giorno della memoria- per quanto queste cifre possono sembrare appartenere al pallottoliere dell’orrore, mi sembra doveroso ricordarle a voi e a me. E’ solo in questi ultimi tempi, dopo anni di ricerche e di lavoro, che si è arrivati a determinare un numero complessivo: 7579 sono i deportati ebrei identificati dall’Italia. Ma a questa cifra bisogna aggiungere 900 – 1000 persone di cui non si conosce l’identità. I sopravvissuti sono stati 837.
Dal libro della Memoria di Liliana Picciotto, un libro speciale che trovate in quasi tutte le famiglie ebraiche, in segno di commemorazione di tutte le vittime, vi leggo qualche nome fra i più di 7.500 elencati:
FINZI SILVIO, nato a Ferrara il 31.12.1877, figlio di Amico e Zamorani Tarquinia, coniugato con Bolaffio Lina. Ultima residenza nota: Ferrara. Arrestato a Ferrara il 15.11.1943 da italiani. Detenuto a Ferrara carcere, Ferrara tempio, Fossoli campo. Deportato da Fossoli il 22.02.1944 ad Auschwitz. Ucciso all’arrivo ad Auschwitz il 26.02.1944. Fonte 1b, convoglio 08. Silvio Finzi era il nonno di mia moglie.
Un altro esempio potrebbe essere il Rabbino capo di Genova: PACIFICI RICCARDO, nato a Firenze il 18.02.1904, figlio di Mario e Borghi Gilda, coniugato con Abenaim Wanda. Ultima residenza nota: Genova. Arrestato a Genova il 03.11.1943 da italiani e tedeschi. Detenuto a Genova carcere, Milano carcere. Deportato da Milano il 06.12.1943 ad Auschwitz. Ucciso all’arrivo ad Auschwitz l’11.12.1943. Fonte 1a, convoglio 05.
Ultimo esempio, quello di un nome noto a tutti: “LEVI PRIMO: nato a Torino il 31 luglio 1919, figlio di Cesare e Luzzatti Ester. Ultima residenza nota Torino. Arrestato a Brusson (AO) il 13 dicembre 1943 da italiani. Detenuto ad Aosta caserma, Fossoli campo. Deportato da Fossoli il 22 febbraio 1944 ad Auschwitz. Matricola numero 174517. Liberato ad Auschwitz il 27 gennaio 1945”.
Liberato ad Auschwitz oggi, 60 anni fa. Proprio Primo Levi, il chimico-scrittore, tra i primi a raccontare cosa accadde nei campi di sterminio nazisti, ha scritto ne “I sommersi e i salvati”: “E’ successo, quindi può succedere di nuovo. Questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire”.
Proprio per questo oggi, a tanti anni di distanza è doveroso interrogarsi su due questioni importanti, perché se da un lato è fondamentale, per comprendere il tempo e il mondo che viviamo, tramandare la memoria di quegli eventi; è altrettanto doveroso sforzarci di “fare” perché non accada mai più. La memoria di allora deve avere come conseguenza la responsabilità nel presente; altrimenti resta l’equivalente di un monumento abbandonato.
Un pastore evangelico deportato a Dachau, Martin Niemoeller, scrive: “Prima vennero per gli ebrei, e io non dissi nulla perché non ero ebreo. Poi vennero per i comunisti, ed io non dissi nulla perché non ero comunista. Poi vennero per i sindacalisti, ed io non dissi nulla perché non ero sindacalista. Poi vennero per me. E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa”.
Negli stessi anni una mano ignota ha graffiato sui muri di un campo di sterminio la frase “Io sono qui, e nessuno racconterà la mia storia”.
A noi resta il dovere di dare torto ad entrambi.