PAGINE EBRAICHE APRILE 2021 - L'INTERVISTA A NATAN SHARANSKY

"Giocare a scacchi mi ha salvato la vita"
  

Nel corso di questa pandemia, obbligati nelle nostre case, abbiamo riscoperto il nostro tempo. Molti hanno scelto di trascorrerlo recuperando giochi e passatempo del passato, dalle carte agli scacchi. E proprio a questi ultimi, diventati ancor più popolari grazie a una recente serie televisiva, Pagine Ebraiche ha dedicato l'ultimo dossier a cura di Ada Treves, pubblicato sul numero di aprile attualmente in distribuzione. Come spiegano i protagonisti del dossier, il legame tra ebraismo e scacchi ha radici profonde e diverse. Un concetto espresso anche da Natan Sharansky, figura tra le più significative del nostro presente, che al giornale dell'ebraismo italiano ha raccontato come gli scacchi lo abbiano aiutato a sopravvivere nei lunghi anni di prigionia in Unione Sovietica.

Alla radio l’agente del Kgb ascolta le ultime mosse della seconda epica sfida a scacchi tra Anatolij Karpov e Garri Kasparov. Alza il volume in modo che dalla sua cella d’isolamento il prigioniero Natan Sharansky possa sentire. In carcere sanno che Sharansky è un bravissimo scacchista. Anzi, le guardie pensano che sia un po’ matto perché gioca di continuo partite mentali. “Ne avrò fatte a migliaia. Mi hanno salvato dall’impazzire – racconta a Pagine Ebraiche – Soprattutto in quelle interminabili giornate di isolamento: oltre 400, passate al buio, al freddo e senza nessuno con cui parlare. Grazie agli scacchi la mia mente è rimasta allenata e salda. Sono stati la mia sopravvivenza intellettuale”. Le strategie applicate sulla scacchiera, aggiunge, lo hanno anche preparato agli innumerevoli interrogatori subiti dal Kgb nel corso di nove lunghi anni di prigionia, tra carceri e campi di lavoro sovietici. “Cercavano sempre di prendermi di sorpresa, ma io arrivavo preparato, avevo anticipato nella mia testa le loro possibili mosse”. Quando si svolge la seconda sfida tra Karpov e Kasparov, nel 1985, Sharansky sta per finire la sua interminabile detenzione. È in cella dal 1977 con l’accusa di spionaggio a favore degli americani. Mosca non ha gradito le sue campagne a difesa dei diritti umani. In particolare a favore dei refusnik, gli ebrei a cui l’Unione Sovietica impedisce di emigrare in Israele. Tra loro, lo stesso Sharansky che, spiega, da giovane immaginava di diventare un campione di scacchi, non delle libertà. “Mia madre insegnò a me e mio fratello a giocare. E la scacchiera divenne ben presto il mio modo di esprimere la mia libertà. Nel gioco, la tua mente è libera di articolare ogni ragionamento. Di vagare senza paura di essere confinata. Lo racconta bene la serie La regina degli scacchi. Nell’immaginare le diverse e quasi infinite mosse, hai la possibilità di superare ogni limite, ogni barriera”. E il giovane Sharansky sa sin da giovanissimo che il suo è un paese pieno di limiti e barriere.


“Quando avevo 5 anni mio padre mi prese da parte e mi disse che era morto Stalin. Mi disse che era un miracolo, che con la sua morte un’ulteriore tragedia per il popolo ebraico era stata evitata. Ma mi avvisò: una volta arrivato all’asilo, comportati come tutti gli altri. E mi ricordo che lì tutti piangevano e cantavano canzoni per l’amato Stalin. E così feci anch’io: iniziò così la mia doppia vita da sovietico, consapevole di pensare una cosa ma dirne un’altra”. Gli scacchi però rappresentano un’eccezione: qui il giovanissimo Sharansky ha piena libertà di espressione. E a 15 anni diventa piuttosto bravo, vince i tornei, batte giocatori più grandi, gioca partite contro se stesso, anche mentalmente. “Pensavo fosse un’abilità totalmente superflua e invece in prigionia si è rilevata molto utile”. Inoltre per Natan gli scacchi sono un’inconsapevole legame con l’identità ebraica, che in Unione Sovietica deve essere celata. “È una cosa che ho notato solo entrando anni dopo in una yeshiva in Israele. Quando ho visto questi studenti studiare seduti in coppie, sfidarsi sull’interpretazione dei testi, ho fatto un collegamento con gli scacchi. Loro partecipavano a una competizione millenaria che ha permesso a intere generazioni di affilare le propri menti, sviluppare logica e ragionamento. E noi in Unione Sovietica, che non sapevamo neanche cosa fossero il Talmud o la Mishnah, avevamo trovato la nostra alternativa”.


Non è un caso, aggiunge l’ex dissidente, se tanti campioni di scacchi sovietici fossero all’epoca ebrei. Sarà proprio l’identità ebraica, come ricordato, a portare Sharansky lontano dagli scacchi: la presa di coscienza dei diritti violati degli ebrei e la volontà di denunciarli apertamente, lo trasformerà negli anni ‘70 e ‘80 in un eroe. Ma lo porterà anche alla lunga prigionia e a rispolverare l’utile scacchiera mentale. Qui, nell’85, posiziona le pedine di Kasparov e Karpov, grazie alle indicazioni della radio alzata dalla guardia. “Kasparov per noi rappresentava i dissidenti, mentre Karpov era l’immagine dell’establishment sovietica. Così, calcolando le mosse, fu una soddisfazione dire alla guardia: ‘Questa volta avete perso’. E sentire l’urrà di tutti i detenuti”.

Daniel Reichel, Dossier Scacchi - Pagine Ebraiche Aprile 2021

INTERVISTA A ELÈNA MORTARA, CURATRICE DEL MERIDIANO SUI PRIMI SCRITTI

"La biografia di Roth sono i suoi libri"
  

Si infiamma il dibattito sulla figura di Philip Roth. La ragione sta in due libri in uscita, per il momento solo in America. Il primo, in libreria tra qualche ora, è la sua biografia ufficiale Philip Roth: The Biography (W.W. Norton & Company) scritta dal 57enne Blake Bailey. Il secondo, in circolazione da maggio, Philip Roth A Counterlife (Oxford University Press), il cui autore è il 77enne Ira Nadel. Entrambi sono biografi di successo, anche se dal background molto diverso.  
La stampa internazionale, e di riflesso quella italiana, anche per via della prossima traduzione del libro di Bailey con Einaudi, se ne sta occupando da qualche giorno. Mettendo un carico particolare sugli aspetti più “piccanti” relativi alla vita del grande scrittore, per molti addetti ai lavori ingiustamente privato della soddisfazione di un Nobel. A partire dal suo complesso rapporto con l’universo femminile. 
Ne abbiamo parlato con Elèna Mortara, docente universitaria e curatrice per Mondadori del primo Meridiano dedicato alle opere giovanili e della prima maturità di Roth. Fu proprio Mortara, nel dicembre del 2017, a fare allo scrittore l’ultima intervista. Un colloquio di grande respiro, pubblicato sulla rivista della Philip Roth Society e poi ripreso, nei suoi tratti salienti, da numerose testate (anche in Italia, dove è stato evocato nel corso di un incontro con il Centro Studi Americani di Roma da poco trasmesso anche dalla Rai). Racconterà Mortara: “Al dodicesimo piano, vicino alla soglia, appena fuori dalla sua porta aperta, c’è Philip Roth, che mi dà il benvenuto. Quando entro, sono inondata dalla luce del soggiorno luminoso e spazioso, con grandi porte-finestre che si aprono sulla parete opposta da cui si scorge la città. Roth indossa una camicia blu ardesia e pantaloni di lana marrone. Ci sediamo in questo spazio inondato di luce, con un tavolino pieno di libri accanto a noi, e iniziamo a parlare. È una conversazione amichevole, che passa dai ricordi della sua esperienza a Roma a memorie di famiglia, dai suoi incontri con altri scrittori alle riflessioni sui suoi libri. Ci sono momenti di grandi risate e talvolta sorprendenti scoperte”. 
Pochi mesi dopo quell’incontro Roth morirà. Dal 2012 Bailey ne sta scrivendo la biografia. Non potrebbero essere più diversi: Roth, la cui scrittura è permeata, spesso conflittualmente, ma comunque imprescindibilmente, di ebraismo; Bailey, che di quel mondo non sa niente.  
Una fiducia ben riposta? 
Parto da una premessa: non ho ancora letto il libro. A differenza del testo di Nadel, cui ho dato una rapida scorsa. L’impressione che ne ricavo, dalle recensioni già uscite in anteprima, è comunque di un lavoro molto approfondito, senz’altro ben fatto, ma focalizzato non su quello che è stato il centro della sua vita: la scrittura. Roth ha scritto un libro ogni anno e mezzo. Alla scrittura, con risultati eccelsi, ha dedicato ogni sua energia. Bisognerebbe rileggere la sua vita partendo da questo fatto incontestabile. ‘La mia vita come scrittura’: questo dovrebbe essere il titolo di una biografia all’altezza della sfida.    
Lei conosce personalmente uno degli autori, Nadel, ed è ben informata sull’altro. Può raccontarci qualche retroscena sulla stesura dei libri? 
Roth, come noto, era gelosissimo della sua storia personale. Gran parte della sua scrittura si basa infatti su dati di conoscenza diretta che vengono poi trasformati e rimodulati con la fantasia. Era un qualcosa di cui voleva il controllo assoluto. Ricordo che anche nei Meridiani pretese una biografia non ampia, ma ristretta al massimo. La sua intera produzione letteraria è costellata di “maschere”: Nathan Zuckerman ne è la più celebre, ma non l’unica. Se ne serviva anche per difendersi dalle accuse di misoginia di cui fu spesso vittima nel corso della sua vita. Ebbi modo di confrontarmi con Nadel e il noto biografo di Saul Bellow, Zachary Leader, su questi temi. Fu un’occasione davvero importante a farci ritrovare a Newark nel 2013: l’80esimo compleanno di Roth. Bailey, da qualche mese, aveva ottenuto l’incarico. E quindi l’esclusiva sul materiale riservato che gli sarebbe stato messo a disposizione. Con gran danno per Nadel, che Roth minacciò di azioni legali nel caso si fosse addentrato in quel terreno. Nell’introduzione al suo libro colgo un certo risentimento, diversi aspetti di frustrazione e scontentezza che sarebbe stato meglio eliminare.  

LA DECISIONE DEL PRESIDENTE RIVLIN 

Governo d'Israele, l'incarico a Netanyahu:
"È il leader con più possibilità di farcela" 
  

Il Presidente d’Israele Reuven Rivlin ha annunciato che affiderà a Benjamin Netanyahu, leader del Likud, l’incarico di formare il prossimo governo del paese. Netanyahu, che ha ricevuto il sostegno di 52 parlamentari, sarà dunque il primo ad avere l’impegnativo compito di cercare una maggioranza all’interno della Knesset. Nell’esporre la sua decisione, Rivlin ha dichiarato di essere profondamente preoccupato per lo stato generale della politica israeliana. Una preoccupazione, ha evidenziato Rivlin, che tocca anche la situazione di Netanyahu, sotto processo per corruzione, abuso d’ufficio e frode. “Conosco la posizione di molti, secondo i quali il presidente non dovrebbe dare l’incarico (di formare un governo) a un candidato che sta affrontando accuse penali, ma secondo la legge e la decisione dei tribunali un primo ministro può continuare nel suo ruolo anche quando è sotto accusa. Inoltre, la questione di dare l'incarico a un candidato accusato di reati penali è stata oggetto di un intenso disaccordo politico e pubblico durante le recenti campagne elettorali. Per questo motivo – ha concluso Rivlin – ho ritenuto che il presidente dovesse evitare di decidere in base a questa considerazione, per un senso di responsabilità nei confronti dell’istituzione della presidenza e della fiducia che vi ripone, in tutte le sue componenti, la popolazione”.
Rivlin ha parlato di decisione non facile su una base morale ed etica: "Lo Stato di Israele non è da dare per scontato. E temo per il mio paese. Ma sto facendo ciò che mi è richiesto come presidente dello Stato d’Israele, secondo la legge e la sentenza del tribunale, e realizzando la volontà del popolo sovrano”.

IL COVID E IL MONDO CHE CAMBIA, TRA SFIDE E OPPORTUNITÀ  

Un tempo per studiare Torah
  

I nostri Maestri lo insegnano chiaramente, occorre fissarsi dei momenti precisi per studiare, altrimenti si rischia di non trovare mai tempo (“non dire quando sarò libero da impegni studierò, poiché forse non ti libererai”, così leggiamo nei Pirqè Avòt). Ora diversi di noi hanno un’occasione in più per farlo. Molte aziende nel mondo stanno considerando di non tornare al 100% al sistema lavorativo precedente al Coronavirus, neanche a pandemia conclusa. Alcune fra le maggiori lo hanno già dichiarato ufficialmente, altre lo stanno valutando. Prendiamo un esempio eclatante ma niente affatto isolato: Google ha affidato al suo Chief Innovation Evangelist (si chiama proprio così…) la co-direzione del progetto “re-imagine”, che si prepone di ripensare il modo di lavorare dell’azienda in modo che risulti il più efficace possibile. I nostri Maestri si riconoscerebbero facilmente in questo approccio, per il quale a fronte di una calamità non si può e non si deve solo sperare che passi e che tutto torni come prima. Occorre invece riesaminare le cose e cercare possibili correzioni da apportare alle proprie abitudini, possibili miglioramenti. Vale per ogni singola persona e vale per la collettività. Il rabbino capo del Regno Unito, rav Ephraim Mirvis, lo ha dichiarato in modo netto: “La vita ebraica deve cambiare per sempre” (qui l’articolo del The Jewish Chronicle per l’insieme delle cose alle quali si riferisce).
Tornando alle aziende, uno dei principali punti di cambiamento è quello del lavoro da remoto. Sembra che l’indirizzo prevalente sia quello della soluzione ibrida: alcuni giorni si lavora in ufficio, altri giorni si lavora da casa. Una conseguenza immediata è che in quei giorni in cui si lavora da casa, si risparmia il tempo di andare al lavoro e quello del ritorno. Mezz’ora, un’ora, spesso pure due. È tempo prezioso che può svanire facilmente, ognuno di noi ha sicuramente incombenze che spontaneamente lo riempiranno, senza neanche rendersene conto. Risultato praticamente certo se si tiene al riguardo un atteggiamento passivo. È proprio qui che occorre essere proattivi e decisi: imporsi che esattamente quel tempo vada dedicato allo studio.

Rav Michael Ascoli

NEL POMERIGGIO I FUNERALI   

Rav Richetti: umanità, ironia, saggezza
  

Si svolgeranno quest'oggi alle 15, a Milano, i funerali del rav Elia Richetti. 
Numerose le testimonianze che continuano a pervenire in redazione sull'azione di un rabbino e Maestro che è stato, lungo tutto l'arco del suo impegno, un costante punto di riferimento per l'ebraismo italiano. Ne pubblichiamo di seguito alcune. 
A rendergli omaggio è anche il Meis, il Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara, che appena poche settimane fa aveva proposto al rav, nell'ambito di un progetto di respiro nazionale, di esporre e presentare i modi di dire tipici del giudeo-triestino (clicca qui per il video). 

"Le tradizioni e i canti delle comunità ebraiche gli stavano a cuore ed era desideroso condividerle e divulgarle. Forse questo - sottolinea il suo direttore, il rav Amedeo Spagnoletto, nell'anticiparne la messa in onda - è stato il suo ultimo video pubblico". 

RAV ELIA RICHETTI (1950-2021)

La gioia del ricordo, la gioia del canto

“Mi risulta che il primo Fink ad arrivare in quella che poi sarebbe diventata Italia, Gorizia, sia stato mio nonno Benzion…” Così comincia una lunga intervista che registrai quasi trent’anni or sono con mio padre. Una registrazione in cui cercammo di raccogliere tutte le memorie che gli rimanevano o che aveva potuto raccogliere, intorno a questi Fink arrivati dalla Russia e spariti, quasi tutti, nei campi nazisti dopo quarant’anni di vita italiana. Erano memorie frammentarie, quelle di mio padre bambino piccolo negli anni prima della guerra. A riempire alcuni dei buchi rimasti nel racconto arrivano ogni tanto le pagine ingiallite del Vessillo Israelitico digitalizzato con opera meritoria dal Cdec; e soprattutto ci pensò lui, rav Elia Richetti, sia il suo ricordo di benedizione, tanti anni dopo. Lui, nipote di rav Ermin Friedenthal che all’epoca era rabbino capo di Gorizia, aveva sentito raccontare tanto di quel gruppo di russi e polacchi che includeva i Fink ma anche i Farber, gli Eckert, i Rotstein. Mi raccontò fra l’altro che quando il mio bisnonno Benzion fu assunto come cantore, posto che resse negli anni terribili della prima guerra mondiale, e fino agli anni ’30 quando si spostò definitivamente a Ferrara, fu assunto con una clausola molto speciale: assunto a tempo pieno e con stipendio, ma a patto che… non cantasse, per un anno intero. Che fosse presente sempre alle funzioni, che imparasse i dettagli del nobile rito goriziano: e quando fosse ben sicuro delle melodie, allora e solo allora salisse finalmente in tevà. Oggi pare un accordo ben strano, ma a spulciare fra gli antichi contratti negli archivi delle nostre Comunità, si scopre che non fu certo un’eccezione, se non forse per il tempo un po’ lungo di questo particolare “apprendistato”. Non c’è da sorprendersi: gli ebrei italiani sono sempre stati fieri e gelosi delle proprie tradizioni locali, rappresentate al meglio dal repertorio musicale, magari un composito di influenze diverse accumulatesi negli anni e di cui oggi si è persa traccia, ma caratteristica identitaria forte, memoria uditiva di un luogo, una città, una sinagoga.

Enrico Fink 

RAV ELIA RICHETTI (1950-2021)

Un rabbino accogliente e sorridente

Il rav Elia Richetti è stato figura chiave del rabbinato italiano degli ultimi decenni. Di origini goriziane, di tradizione “ashkenazita-italiana”, ha servito per anni le Comunità ebraiche del Nord-Est, Trieste e Venezia, e ha poi operato come segretario e dayan del Bet Din di Milano e successivamente del Ben Din del Centro-Nord Italia sotto la guida di rav Laras, che era un punto di riferimento per la maggior parte delle piccole Comunità di quest’area.
Accogliente, umano, amatissimo dai suoi studenti giovani e adulti, mostrava doti rabbiniche e capacità comunicative, di ascolto e sensibilità del suo interlocutore bisognoso di una guida e di attenzione. Conoscitore e coltivatore della musica liturgica ebraica italiana, di quella di Gorizia, ma anche di Trieste, Venezia e Milano, con una voce calda che usciva dal di sotto del proprio cuore. Un rabbino popolare, si direbbe. Rav Elia era esperto anche in vari rami specialistici del mestiere. Sofer e moel, mashiach esperto di kasherut, abile come sofer del Bet Din di Milano e poi del Centro-Nord Italia dove faceva il mestiere “tecnico” con gioia e simchà, e con spirito di kedushà, attenzione e conoscenza halachika dei minimi dettagli.

Rav Joseph Levi 

RAV ELIA RICHETTI (1950-2021) 

La sua grandezza anche negli aneddoti

Il caro Elia ci ha lasciati nell’ultimo giorno di Pesach, solennità che ricorda la liberazione dalla schiavitù d’Egitto. Ha chiuso con la vita nella chiosa della festività. Lascia dietro di sé un vuoto di saggezza e di ironia. Ci mancherà tanto.
Io sono laico, ma ciò non toglie che fra noi ci fosse una amicizia sincera e, quando noi si aveva bisogno, lui ci sia sempre stato. Fin da ragazzo Elia sapeva esattamente cosa avrebbe fatto da grande: avrebbe seguito le orme del nonno Friedenthal, quel rabbino dalla folta barba bianca che era a capo della Comunità di Milano nel dopoguerra. Me lo ricordo bene da bambino quando mamma mi portava su nel matroneo della Sinagoga di via Guastalla e lui era laggiù in basso, inconfondibile, alla Tevah. Lì incontravamo Elia con il papà Giorgio, e lui aveva sempre un aneddoto spesso spassoso da raccontare; quell’ironia sorniona che rav Richetti si è portato sempre nella vita. Da ragazzo veniva tutti i sabati a piedi da casa sua (dall’altro capo di Milano) a trovare mia sorella quando si ruppe malamente una gamba e dovette stare mesi allettata. Disegnava rabbini, raccontava spigolature sulla vita di sinagoga e di yeshivah. La sua strada era tracciata.

Fabio Lopez Nunes

L'INTERVENTO DELLA FEDERAZIONE DELLE AMICIZIE EBRAICO-CRISTIANE 

Antigiudaismo e luoghi comuni,
la Pasqua secondo Recalcati

Sabato scorso il quotidiano La Repubblica ha pubblicato a tutta pagina un articolo di Massimo Recalcati intitolato “Pasqua, la vita oltre la Legge” nel quale, in salsa lacaniana, è possibile trovare quasi l’intero repertorio dell’antigiudaismo religioso classico, ossia i più triti luoghi comuni che contrappongono il messaggio di Gesù alla Torà e ai valori della legge mosaica, riprendendo l’accusa di formalismo rivolta ai farisei e ai dottori, quasi fossero portatori di una cultura della paura e della morte, mentre solo il messaggio cristiano sarebbe foriero di una cultura della libertà e della vita. Una visione del cristianesimo tipica della chiesa e della teologia pre-conciliari e di una ermeneutica dei testi sacri sia cristiani sia ebraici che ignora la storia, i contesti sociali e politici, l’evoluzione dei concetti teologici. Il risultato è quello di una psico-banalizzazione, in nome di un trionfo della ‘legge del desiderio’ a spese del ‘desiderio della Legge’ come rivelazione, luogo di incontro tra l’umano e il divino, strumento di conoscenza dei propri limiti e di educazione etica ai nostri doveri verso il prossimo. Ridurre e disprezzare per meglio rimuovere e sostituire: è l’atteggiamento del più grossalano sostituzionismo, che in teoria la Chiesa ha cassato ma che a livello di linguaggio popolare e di comunicazione di massa fa ancora molta presa. Recalcati lo cavalca alla grande, mischiando ovvietà a slogan libertari buoni per ogni festa religiosa.

Marco Cassuto Morselli, Presidente della Federazione delle Amicizie Ebraico-Cristiane
Massimo Giuliani, Università di Trento

La definizione Ihra di antisemitismo
La definizione di antisemitismo dell’Ihra non nasce nel vuoto. È il frutto di un processo complesso e sfaccettato che ha richiesto anni e che ad un certo momento ha reso ineludibile la questione delle nuove forma di antisemitismo, non quelle di tipo tradizionale legate alla persistenza dei pregiudizi religiosi di matrice cristiana, o di tipo razzista a cui la tragedia della Seconda guerra mondiale ha tolto la rispettabilità di un tempo. Ma di un antisemitismo di tipo nuovo declinato come antisionismo e che ha come sfondo la demonizzazione di Israele, la sua delegittimazione come nazione, la sua trasformazione in uno Stato paria perennemente messo in discussione e giudicato secondo standard che non si applicherebbero a nessuno altro Stato.
 
David Meghnagi
Una voce che scuoteva
Rav Elia Richetti, la sua memoria sia benedizione, davanti all'Aron haKodesh intona l'Attà Oreta. La sua voce, alta e forte, risuona nella sinagoga e ti scuote dentro. Tehì Nafshò Tzerurà Bitzror HaChaim, "Possa la sua anima essere legata nel vincolo della vita". 
 
Dario Calimani
Privatizzazione
La privatizzazione è una gran bella cosa, tant’è che ne scrissi tantissimo tempo fa (Le privatizzazioni in Francia, Relazione all’XI Colloquio Biennale dell’Associazione Italiana di Diritto Comparato, tenutosi in Siena dal 30 maggio al 1 giugno 1991 – in Rivista di Diritto dell’Impresa, 1992, 71 ss.). Tuttavia, non tutto può o deve essere privatizzato, e poi procedere per dogmi non va bene. 
Emanuele Calò
Cancellare Mozart e Beethoven
Se con un colpo di spugna potessimo cancellare la cosiddetta “cancel culture”, molte visioni distorte del nostro tempo sarebbero superate. Cosa è la cancel culture? Quella fanciullesca ma implicitamente spietata visione del mondo secondo la quale deve rimanere in vita solo ciò che “il modo di vedere democratico di oggi” (ma ne esiste uno solo?) giudica giusto e buono, mentre il resto è opportuno che finisca nell’immondezzaio dell’umanità.
David Sorani
Il fico
Il fico è la prima pianta citata nella Torah (in occasione della cacciata di Adamo ed Eva dal Giardino dell’ Eden) ed è anche ricordata in molte altre occasioni. Il fico è una specie che appartiene ad un genere amplissimo: oltre mille specie fanno parte di questo genere, ma il Fico comune è l’unico commestibile.
Roberto Jona
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