Nascita dello Stato d’Israele e leggi razziste, il difficile confronto con la storia

Bisognerebbe riflettere su com’è stato affrontato il sessantesimo anniversario della nascita dello Stato d’Israele e, parallelamente, per noi, in Italia, su come abbiamo iniziato a riflettere sulle leggi razziali a settant’anni dalla loro emanazione.
Questo almeno per due ragioni.
La prima riguarda il senso di una ricorrenza nella quale la riflessione è pensata in termini di bilancio. La seconda riguarda che cosa “porteremo a casa” dopo questo “doppio appuntamento con la storia”.
In entrambi i casi, che cosa sta dietro a questo strano intervallo temporale che non è né la misura del mezzo secolo né quello dei tre quarti di secolo? Forse l’idea di un ciclo generazionale che si chiude. Forse la conseguente volontà di consolidare un’immagine? O, ancora, il desiderio di trattenere un ricordo e di consegnare il “testimone” alla generazione che “eredita” un evento, senza averne vissuto la genesi? Se questi interrogativi hanno una risposta, in parte o totalmente, positiva, la questione che si pone è la lenta scomparsa di coloro che all’inizio di entrambi gli eventi c’erano; il fatto che solo loro fossero in grado di riflettere e di viverlo coscientemente, come fatto proprio; la possibilità, progressivamente persa di persone che potessero parlare, con cognizione di causa, sulla differenza tra un “prima” e un “dopo”.
In entrambi i casi, la questione non è, per questo, la memoria, ma come ci misuriamo con la storia, con le sue pieghe, con le domande che questa pone. Il dilagare di un “uso politico del passato”, che caratterizza il presente, non consente di rispondere a nessun quesito: viene proposto sostenendo un rapporto ricco con la storia, mentre invece non ne ha affatto. L’ “uso politico del passato” tende a dare una giustificazione del presente e a rafforzare l’identità, ma il confronto con la storia è altro: non dà risposte né consolatorie né assolutorie, pone domande problematiche, evidenzia come le nostre risposte non possano essere né ultime né definitive, ma siano parziali, incerte, incomplete.
Il problema è complicato da un’ulteriore difficoltà che non aiuta la comprensione del passato. Siamo ormai affogati e circondati da una massa di “mai più”, da un’esorbitanza della biografia (e più spesso dell’autobiografia), da una visione degli eventi che scambia la cronaca per la riflessione storiografica. Tutto ciò rafforzando sempre una visione ideologica del passato.
Non è un problema solo nazionale, anche se in Italia è più evidente che in altri Paesi. Ed è un problema che ha una sua peculiarità nel mondo ebraico quando riflette sul suo passato, in Italia più che altrove.
E’ passato più di un quarto di secolo dall’invito di Yosef Hayim Yerushalmi con il suo volume Zakhor (edito originariamente nel 1982, tradotto in Italia nel 1983 e poi mai più riedito) a confrontarsi con la storia e ad assumere categorie storiche quando si riflette sul passato, e in specie sulla propria idea di passato e sulla propria storia. La questione del rapporto intellettuale e culturale con la storia da parte del mondo ebraico, almeno in Italia, è ancora irrisolta.
Non si tratta solo di una questione di produzione storiografica alta (anche se questo aspetto ha un peso non indifferente), ma di coscienza storica propria e di sensibilità alla storia, anche da pare di coloro che storici non sono. Quella coscienza e quella sensibilità presuppongono che non si confonda la storia né con la memoria, né con l’identità e si assuma tanto un’ottica di ricerca che costantemente si rinnova, tanto la consapevolezza dell’idea di cambiamento, e dunque anche del passato, man mano che gli eventi sono meglio compresi e spiegati.

David Bidussa, storico sociale delle idee