Ebraismo e modernità, molte voci a confronto

Arriva in libreria in questi giorni un’opera complessa e ambiziosa dedicata alla cultura ebraica nel mondo moderno.
Ventiquattro saggi prendono in esame diversi percorsi che hanno scandito la storia dei rapporti tra ebraismo e modernità, fino alle questioni piú attuali, nella Diaspora e in Israele.
Questo dedicato alla realtà ebraica è il secondo volume delle Grandi Opere Enaudi “Le religioni e il mondo moderno” (pp. XL-624, 98 euro) indaga la «via alla modernità» che ha conosciuto l’ebraismo. L’analisi prende in esame la minoranza religiosa diasporica, ghettizzata e perseguitata, in un’Europa in via di modernizzazione che solo lentamente e drammaticamente doveva creare le condizioni perché gli ebrei europei potessero, a partire dall’emancipazione, reagire anch’essi a questa sfida, dando un loro contributo alla costruzione di una modernità aperta al pluralismo religioso; ma anche il tragico effetto della Shoah e della nuova situazione che si è venuta a creare a partire dalla nascita dello Stato di Israele nel 1948.
Il volume, curato da Giovanni Filoramo e David Bidussa, comprende contributi di Paolo Bernardini, Silvia Berti, David Bidussa, Gianfranco Di Segni, Cristiana Facchini, Roberto Festa, Giovanni Filoramo, Massimo Giuliani, Alessandro Guetta, Michael Löwy, Amos Luzzatto, Gadi Luzzatto Voghera, David Meghnagi, Saul Meghnagi, Laura Quercioli Mincer, Alfredo Mordechai Rabello, Asher Salah, Christoph Schmidt, Francesca Sofia, Piero Stefani, Mario Toscano.
Per cortese concessione di David Bidussa e dell’editore pubblichiamo uno stralcio della vasta e complessa introduzione del curatore, che illustra la struttura del volume.

Abbiamo diviso l’asse del volume in cinque parti, di cui due dedicate a contesti geografici specifici (Israele e Stati Uniti), una storica (la sezione intitolata «Convivere, confliggere, trasformarsi nella modernità»), che presenta un quadro geografico essenzialmente europeo all’indomani della Rivoluzione francese (all’avvio del processo emancipativo) fino alla riflessione culturale successiva alla Shoà; una riferita a temi e problemi di varia natura culturale, disciplinare, socioculturale (sono i saggi radunati nella sezione che chiude il volume) e una tipologica che è invece la sezione di apertura. Vorrei iniziare da questa sezione e dalla sua articolazione.
«Scenari del confronto prima del compimento della modernità» ha il compito di individuare le tipologie di confronto, di scontro e di conflitto radicale che l’ingresso o la coabitazione con il processo di transizione tra Cinquecento e Settecento determina e segna nei diversi mondi ebraici europei.
I quattro differenti percorsi che Alessandro Guetta, Silvia Berti, Paolo Bernardini e Laura Quercioli Mincer ricostruiscono e sintetizzano non dicono solo di realtà geografiche diverse, ma indicano percorsi culturali, tipologie di confronto e di scontro verso il mondo non ebraico, nonché di conflitti interni in conseguenza del confronto esterno. Da nessuno di questi quattro scenari emerge una unica ricetta e un unico percorso degli ebrei nel mondo moderno. Affiorano e si consegnano a noi esperienze significative e distinte in relazione alle diverse chiavi di ingresso e di accesso – o di rifiuto al confronto – che maturano in quel frangente.
Ma significativamente anche coloro che rifiutano o guardano con estremo sospetto all’incontro con il mondo moderno usciranno comunque contaminati da quel confronto. Si modificano molte cose, ma ciò
che cambia è comunque il sistema sociale interno, il passaggio generazionale e culturale genitori-figli, la coscienza di ciò che significa continuità dell’identità.
Questi diversi percorsi si ritrovano nella seconda parte, quella dedicata alle varie società europee tra xix e xx secolo. Forse il lettore potrà stupirsi che non vi sia un saggio specifico dedicato all’Emancipazione e alla discussione relativa che ebbe luogo durante la Rivoluzione francese.
Proprio perché l’asse di analisi principale è il mondo ebraico, si è scelto invece di concentrare l’attenzione sul Sinedrio napoleonico del 1806-807, un momento trascurato nella discussione storiografica, soprattutto in Italia, ma che ha un alto valore simbolico: per la prima volta il mondo ebraico si trova a doversi confrontare con il processo della modernità e a «prendere la parola». Quell’evento e quella scena segnano in qualche modo un percorso di tutto il confronto con la Seconda Emancipazione, nell’Europa continentale, nel corso dell’Ottocento.
Da una parte vi sono i processi di modernizzazione sociale, di emancipazione e di integrazione, dall’altra quelli di costruzione di nuove sensibilità.
Nel primo caso sono i temi dell’ingresso nelle società borghesi europee e della costruzione di una cultura che trasforma la pratica e la cultura ebraica in sistema religioso. Nel secondo caso, sono i temi della formazione culturale e dei valori lungo l’esperienza della pratica del mondo moderno. In questo secondo aspetto rientrano i processi di modernizzazione disciplinare e di professionalizzazione che pongono in essere una sensibilità valoriale e sociale rinnovata, la costruzione del sapere culturale degli ebraismi ottocenteschi, la sensibilità verso i movimenti di rivolta sociale, ma anche la connessione tra vocabolari della redenzione e lessico politico delle utopie, oppure la costruzione della cultura dopo la Shoà.
Il tema che costituisce il nodo di questa sezione è dunque la questione del confronto con il mondo moderno in tutti i suoi ambiti: nei processi educativi, in quelli riferiti al comportamento pubblico, in relazione alla costruzione delle identità nazionali – all’interno di quel percorso che George L. Mosse ha individuato come uno degli aspetti essenziali dei percorsi di inclusione –, di confronto e di scontro tra i singoli gruppi ebraici nazionali e tra le rispettive società di appartenenza. Un tema che non si attenua con la Shoà e il rientro e la reintegrazione sociale nel secondo dopoguerra. Come sappiamo, il processo di reintegrazione sarà da una parte veloce, o comunque apparentemente privo di conflitti, ma nel contempo conserverà la memoria di quello strappo, se è vero che a distanza di una generazione, intorno alla seconda metà degli anni Settanta, quello che a lungo è rimasto come un non detto nella società europea ha ripreso a costituire un punto di conflitto, di frizione, comunque un nervo scoperto della cultura europea con cui tutte le società nazionali, ancora con difficoltà, riescono a fare i conti. Soprattutto quelle emerse con un processo di liberazione, ma raramente secondo un processo di libertà. È un aspetto che non è circoscritto solo al quadro tedesco – certo l’esperienza nazionale più radicale di riflessione pubblica sulla Shoà – ma che rinvia prevalentemente al quadro francese o italiano (ma anche belga e olandese), e soprattutto riguarda il modo di fare i conti e i confronti con il proprio passato da parte delle realtà nazionali emerse dal crollo del sistema sovietico.
Diversi sono i due contesti di insediamento moderno-contemporaneo degli ebrei. Il riferimento è agli Stati Uniti da una parte e a Israele dall’altra. Abbiamo concentrato la nostra attenzione su alcune analisi di queste due realtà, seguendo le indicazioni, per quanto riguarda analogie di cogliere due aspetti essenziali di questo processo: da una parte ciò che si può definire come il tratto distintivo di ciascuna delle due esperienze identitarie; dall’altra il percorso specifico di una transizione, proprio
per indicare che il confronto con il mondo moderno impone dei continui cambi di registro e la riflessione costante intorno alla propria identità culturale.
Per quanto riguarda il primo aspetto, nel caso degli Stati Uniti il tema scelto è stato quello di analizzare la formazione e la storia dell’ebraismo conservativo, un fenomeno specificamente statunitense, che coinvolge la parte significativa del mondo ebraico americano e che, soprattutto, è l’effetto del confronto con l’esperienza di insediamento negli Stati Uniti. Il movimento conservative, come ricostruisce attentamente Massimo Giuliani nel suo saggio, ha una storia culturale e sociale che
sta dentro l’esperienza americana ed è incomprensibile senza l’analisi di quella esperienza e del suo evolversi nel tempo.
Nel contesto israeliano il problema del confronto con la modernità dal punto di vista della costruzione della nazione è stato analizzato rispetto a due percorsi distinti: quello del diritto e quello della definizione di una religione civica.
Il problema del diritto apre alla questione di un sistema legislativo che abbia al centro il problema del rapporto fra diritto ebraico consolidato in una consuetudine storica di «inesistenza dello stato» e diritto
israeliano, che non solo presume l’esistenza e il funzionamento di uno stato, ma ha al suo interno la presenza di gruppi non ebraici, per cui risulta non eludibile il tema e la connessione tra appartenenza e cittadinanza.
In questo caso si tratta prevalentemente di affrontare il processo storico della formazione del diritto israeliano, del rapporto fra diritto comunitario, diritti individuali e diritto pubblico, di comprendere il
funzionamento e la costruzione delle istituzioni, del confronto e del rapporto fra autorità normative o espressione e amministrazione di norme con statuti distinti.
Lo stesso vale per la questione della religione civile, un aspetto che non riguarda solo la costruzione di un sistema di valori, di luoghi pubblici, gesti, simboli comuni, ma anche la loro metamorfosi, la costruzione di un passaggio che anche da questo punto di vista consente di affrontare con maggior cognizione di causa quel rapporto fra Israele e Stati Uniti che implicitamente costituisce il filo sotterraneo di queste due parti. Ovvero il fatto, come sottolinea Eisenstadt, che le due comunità
(quella israeliana e quella statunitense) hanno tra di loro caratteristiche costitutive simili. Eisenstadt indica cinque aspetti:
1) essere società ideologiche rivoluzionarie;
2) essere società coloniali di pionieri;
3) essere società democratiche costituzionali con regimi costituzionali
alquanto particolari e dotati di un tratto comune;
4) essere società che dall’impulso originario della colonizzazione hanno
creato economie industriali moderne;
5) essere società in cui lo sviluppo di quelle economie è stato agevolato da ondate di migrazione molto differenti rispetto a quelle dei primi coloni o pionieri.
Di tutti questi aspetti è soprattutto l’ultimo che occorre valutare, perché costituisce uno degli elementi essenziali su cui oggi si definisce il riassetto e il rapporto tra società civile, scelte individuali, sistemi di valori e nuove forme di affermazione identitaria. Una dinamica che è particolarmente significativa per il mondo ebraico e specie all’interno del mondo ebraico-israeliano. Nell’ultimo ventennio, quando lentamente in quella società entra i crisi l’assetto del gruppo politico e culturale
fondatore e si riscrivono le regole di appartenenza civile, entrano sulla scena politica e culturale nuovi attori che non chiedono semplicemente maggiori spazi, ma ambiscono a loro volta a riscrivere le regole generali attraverso il riconoscimento delle proprie appartenenze comunitarie di provenienza.
Nel caso del sistema politico nel corso degli anni Novanta e poi dell’attuale decennio è stato il partito Shas, ovvero un partito etnico (l’area degli ebrei sefarditi, ossia degli ebrei provenienti dal bacino di madrelingua araba) a rappresentare una novità e a modificare il modello politico. Il successo elettorale di Shas, tuttavia, non è un fatto automatico. Shas polarizza il voto sefardita in una congiuntura specifica e in seguito a due assi di politiche di intervento:
a) l’organizzazione di una rete societaria attenta ai servizi, a un socialstate informale e di territorio, sostitutivo di quello indifferenziato secondo il modello laburista. Un social-state attento ai servizi
alla famiglia, ma in particolare rivolto alla sfera dell’educazione e dell’assistenza culturale e ricreativa all’infanzia;
b) al tempo stesso Shas si propone come la struttura di collegamento tra i bisogni della società civile e uno stato che si auspica sempre più impersonale e non «regolatore». In questo senso, Shas rientra
nella fisionomia cultural-politica di tutti i radicalismi religiosi, indifferentemente dal sistema di fede di riferimento.
Il concetto chiave in questo caso è quello di comunità (in ebraico edah, quello che nel linguaggio europeo d’Ancien régime si chiama «la nazione»), fatto che ha dato luogo per molto tempo a una protesta di tipo etnico. Perché divenisse o acquistasse un carattere nazionale era necessario che il principio stesso dell’identità nazionale subisse una metamorfosi e dunque fosse rilanciato un aspetto distintivo della nazione israeliana. Esso non consisteva più nell’ideale pionieristico, ma nella rivalutazione di un tratto che era in rotta di collisione con il modello culturale dei padri fondatori, capace di discuterne la legittimità, senza creare una spaccatura di tipo etnico. Anzi trovando un codice che al tempo stesso fosse distintivo del gruppo ebraico e non negoziabile.
È un processo non esclusivo del mondo ebraico e che corrisponde al diagramma del ciclo della mobilitazione sociale descritto e teorizzato da Gino Germani: dapprima integrazione, poi disintegrazione e, infine, reintegrazione.
Un processo che avviene attraverso fenomeni di contromobilitazione, cioè – seguendo ancora lo schema di Germani – come momento in cui il fenomeno di disintegrazione non è solo la critica del modello culturale di cittadinanza valevole in precedenza, ma anche la proposizione di un nuovo modello di cittadinanza culturale proposta non per integrarlo, bensì per sostituirlo.
Il secondo profilo della questione si inserisce sulla scia di questo spaccato.
Sono stati considerati due processi diversi, ma anche analoghi. Nel primo caso la costruzione di una coscienza pubblica ebraica all’interno della scelta di presenza civile e politica nella società americana include non tanto un’analisi dei comportamenti, ma soprattutto dei sistemi di valore con cui si interpreta l’identità del proprio gruppo: come la si legge, che cosa si valorizza del proprio patrimonio culturale. Il tema è la connessione tra la propria identità e il proprio tempo storico. Le forme della propria autorappresentazione cambiano e si relazionano non solo al mutamento della condizione politica, ma anche alla presenza di un fenomeno nuovo: quello dei processi di ritorno, alle forme in cui una generazione ebraica americana affronta diversamente la propria storia e le scelte fatte nel ciclo politico precedente, tra anni Cinquanta e anni Sessanta.
Un passaggio che inizia a delinearsi già a metà degli anni Sessanta e che si consolida nel decennio successivo fino a strutturarsi definitivamente.
Un processo che discende, in particolare, dal modo di leggersi, di riconoscersi e di ricostruirsi in quella porzione temporale.
Lo stesso processo con percorsi distinti, con risorse proprie, avviene anche nella realtà israeliana. In questo caso la scelta è stata verso le forme della narrazione dell’autoriflessione pubblica. Più che nella forma dei movimenti politico-culturali, che in gran parte si sarebbero ridotti a una storia della mobilitazione pubblica sul tema dei «territori», si è scelto così di privilegiare il territorio della rappresentazione «mediata». Più che la letteratura è stato scelto il cinema, sia in quanto forma della comunicazione, sia come strumento che funziona contemporaneamente da registratore, da riproduttore e da creatore in termini di stili, di mentalità, linguaggi, parole. L’analisi della produzione cinematografica, dei topoi geografici poetici e narrativi, costituisce un indicatore saliente per comprendere che cosa significa oggi la modernizzazione di una società, la sua crisi, la rilettura o il confronto con i suoi valori, le sue scelte e i suoi apparati educativi.
Il problema della sfida della modernità non è solo nelle nuove condizioni della globalizzazione, ma anche in ciò che una storia sociale e culturale si trascina dietro nel tempo, nel momento in cui viene rotto il
sistema del ghetto. Eisenstadt ha ricordato come le premesse fondamentali della modernità occidentale (secolarizzazione, laicizzazione) abbiano lentamente ridisegnato negli ultimi tre secoli il complesso delle diverse realtà ebraiche. Ma ha ricordato anche come a questa trasformazione abbiano contribuito la nascita dello Stato di Israele e i sistemi culturali di interscambio successivi a quella nascita in termini di relazione con le diaspore, di affidamento da parte delle diaspore alla realtà culturale israeliana di produrre o riorganizzare una nuova idea di civiltà ebraica.
È intorno a questa categoria che è stata pensata l’ultima sezione del libro.
Nel linguaggio corrente è pacifico ritenere che gli ebrei siano un gruppo religioso, oppure etnico, una nazione o un popolo. Eisenstadt propone di considerare queste diverse denominazioni come parti costituenti dell’esperienza ebraica nella storia, ma ritiene che nessuna di esse sintetizzi gli ebrei come attore storico. A tutte egli contrappone il termine di civiltà, usato in un’accezione specifica, che accentua in particolar modo la sua differenza dalla «religione», ove questa venga definita come un insieme di credenze riguardante in particolare problemi oltremondani, modelli di culto e di osservanza rituale.
[…] Il termine «civiltà» abbraccia [invece] tutti i tentativi di costruire o ricostruire la vita sociale secondo una visione ontologica in cui concezioni della natura del cosmo e della realtà oltremondana si coniughino con le regole delle principali sfere della vita sociale e dell’interazione tra sfera politica, autorità, economia, vita familiare, ecc.
Ne consegue che, per esempio, Eisenstadt presta solo attenzione relativa al costituirsi del popolo ebraico nel momento della sua fuoriuscita dall’Egitto, e dunque trascura complessivamente la figura del «deserto» come mito politico. Se quella figura assomma in sé la natura dell’oppressione, i dilemmi dell’affrancamento come apprendimento della libertà, il ruolo delle scelte individuali per il contratto sociale che definisce diritti, doveri e regole per la vita collettiva e, da ultimo, la natura della Terra Promessa, è anche vero che essa non permette di individuare i processi identitari di un particolare gruppo umano. Perché questo sia possibile occorre che si dia non tanto la storia della propria «avventura», quanto la definizione di un rapporto tra presente e futuro, tra regole e «progetto». Questo momento è storicamente determinato, secondo Eisenstadt, e corrisponde alla fase che si apre con il ritorno in Palestina degli ebrei dopo l’esilio babilonese. In quel momento l’evento strutturale non
è determinato dall’esperienza dell’esilio, bensì dalla riscrittura delle regole e dalla percezione che occorre «reinventare la propria enciclopedia culturale». Ovvero si riconosce nel fatto che dà luogo a una seconda nascita del popolo ebraico. Lungo questo asse il problema che sorge non è tanto il rispetto e l’assunzione della tradizione nella sua interezza, quanto la sua rilettura orientata, vale a dire la scelta di un suo segmento più funzionale alla riscrittura delle regole.
Sotto questa chiave non è sorprendente che Eisenstadt rifiuti tanto il paradigma di Max Weber nella sua Sociologia delle religioni quanto quello di Arnold Toynbee nella sua Storia comparata delle civiltà e costruisca la sua argomentazione intorno al modello analitico proposto da Karl Jaspers in Origine e senso della storia, ovvero l’individuazione di un periodo che Jaspers propone di chiamare assiale, che si riconosce in civiltà il cui tratto distintivo è costituito dallo sviluppo e dalla istituzionalizzazione di concezioni che postulano una tensione e una frattura fra l’ordine trascendente e quello mondano. Un tratto che per Jaspers significa l’introduzione di una novità, ossia il fatto che l’uomo prende coscienza dell’essere nella sua interezza, di se stesso e dei suoi limiti.
Egli viene a conoscere la terribilità del mondo e la propria impotenza. Pone domande radicali. Di fronte all’abisso anela alla liberazione e alla redenzione.
È l’idea del ritorno verso l’ortodossia, delle nuove forme di aggregazione e di identità culturale, della ricomposizione in diversa forma della sociologia interna al gruppo, delle diverse forme culturali, ideologiche, familiari, comunitarie, attraverso le quali prende forma il rapporto inquieto con la modernità.
La sezione con cui si chiude il libro («Questioni») affronta alcuni di questi temi riprendendo le riflessioni di Eisenstadt, ma secondo due presupposti che solo parzialmente coincidono con le categorie da lui proposte: da una parte la convinzione che non si possa affrontare il discorso della ricostruzione dei processi di modernizzazione sociale e culturale senza tenere ferma una dimensione comparata; all’altra il fatto che la definizione delle sensibilità culturali, della riorganizzazione sociale del gruppo, delle forme attraverso le quali si produce acculturazione sono sempre il risultato di continuità e rotture con il proprio passato. E inoltre, alcune questioni cruciali (come quelle legate alla bioetica) propongono la necessità di mettere in atto procedure di lettura e di interpretazione.
In questo caso ci domanderemo: quante similitudini si danno con altre forme delle identità e delle pratiche religiose coeve? Come si costruisce il percorso riflessivo, quali fonti usa, quali scarta, come le
riordina? Il problema in questo caso specifico come in altri non è l’elemento affermativo, in breve i responsa che si propongono, ma la costruzione culturale cui alludono. Ovvero che cosa presentano di specifico, ma contemporaneamente che cosa hanno in comune con il proprio tempo. Questo doppio passaggio costituisce il paradigma che sta alla base della scelta dei temi e dei saggi che compongono questa sezione.
Il tema è: come avviene il processo di modernizzazione, cosa chiama in causa, come costruisce gli strumenti, le discipline, le sensibilità culturali, il linguaggio, i simboli. Il confronto con la modernità non è solo lo studio della Torà, ma la struttura logica e le modalità con cui si legge un testo; non è solo il messianesimo, ma come questo determini e costruisca la teologia politica come disciplina; non è cosa sia Gerusalemme, ma come si costruisce in quanto immaginario e che cosa esso rappresenti.
Oppure come cambia la sociologia della comunità, la funzione del rabbino come figura pubblica, il catechismo come testo di formazione nell’epoca della secolarizzazione e della assimilazione.
Il che, di nuovo, significa linguaggi, simboli, selezione di ciò che si ritiene irrinunciabile e ciò che si valuta come secondario o marginale. E infine è la storia di esperienze traumatiche, della memoria che esse stabiliscono, ma anche delle nostalgie, dei ricordi, di una condizione in cui la salvezza è anche infelicità per aver perduto una parte di sé. In questa sezione la scelta degli ebrei di Libia è significativa perché non riguarda solo l’espulsione, ma richiama temi e sensibilità che intorno a quell’evento traumatico ridisegnano un vissuto, lo trasformano in memoria, con le sue ferite, ma anche carico delle sue nostalgie.
Il sociologo Eviatar Zerubavel ha osservato come il significato storico degli eventi «stia fondamentalmente nel modo in cui essi sono situati nella nostra mente rispetto ad altri eventi». E conclude: e infatti è la loro posizione strutturale in seno a tali scenari storici (in qualità di «spartiacque», «catalizzatori», «gocce che fanno traboccare il vaso») che ci fa ricordare gli eventi del passato proprio come facciamo.
La questione non è rilevante solo in merito alla costruzione sociale della memoria, ma anche alla definizione di una sensibilità storiografica.
È acquisito il fatto che una tale sensibilità abbia stentato a lungo a costruirsi in ambito ebraico e che solo con il processo di emancipazione si sia iniziato a proporre una riflessione di carattere storico interna all’ebraismo.
Tuttavia, anche così molte questioni rimangono sospese e ancora poco chiare.
Una prima questione riguarda la funzione che ha la narrazione storica.
Da una parte essa è utilizzata soprattutto nell’area del movimento chassidico attuale come struttura retorica, come costruzione di uno «sfondo di plausibilità» a un modello narrativo e apologetico, in cui il
contorno della storia serve ad avvalorare un contenuto che prescinde dalla dimostrazione della verità del racconto. Dall’altra, e con intenti simili ai processi di definizione dell’identità nazionale negli stati nazione del xix secolo, la storia ebraica si trasforma in costrutto nazionale. Il luogo deputato è l’Università ebraica di Gerusalemme tra gli anni Venti e gli anni Quaranta. La questione non è solo limitata alla definizione di una sensibilità pubblica, ma anche alla costruzione, attraverso il gruppo di lavoro che fa capo all’università, a strumenti collettivi, come per esempio l’Encyclopedia Judaica. Un «monumento culturale» intorno al quale Scholem, significativamente, propone una riflessione critica nel momento stesso della sua redazione. La critica è rivolta alla fisionomia della Judaica come disciplina inclusiva anche di storiografia, ma soprattutto come macchina da una parte generativa di autocoscienza storica e dall’altra ordinatrice di un passato, non solo scoperto, ma anche «costruito». Un tema che riguarda la costruzione della Judaica come aggiornamento e costruzione del sapere ebraico contemporaneo, nelle sue strutture e nei suoi temi, ma anche dei legami complessi che si collocano tra Israele e i centri produttivi culturali odierni e le varie realtà diasporiche in una fase – quella degli ultimi cinquant’anni – che ha visto come momento centrale la ricostruzione del passato e la definizione delle identità storiche delle diaspore ebraiche. Una procedura che ha significato soprattutto ristabilire una continuità a fronte della discontinuità prodotta sia dalla nascita dello Stato di Israele, sia dagli effetti della Shoà.
In questo senso il problema della maturazione di una coscienza storica è anche quello della percezione del rapporto e del confronto con gli eventi del mondo, di come si costruisca una visione della storia in cui la catastrofe o (se questo termine sembra troppo forte) le grandi commozioni storiche non solo producono uno sconvolgimento della quotidianità, ma generano anche una «nuova storia» sulla base di nuove idee o nuove convinzioni che iniziano a circolare.
Dentro al rapporto talora inquieto, dentro al «corpo a corpo» serrato con il mondo moderno, sta il senso di un confronto iniziato con figure alterne alle soglie dell’Età moderna e di fatto ancora non concluso.

David Bidussa