Ebrei nella sfida del tempo. Intervista a David Bidussa
Un poderoso corpo a corpo con la storia e con la società. L’identità ebraica si forma nel tempo dei secoli in un’inarrestabile processo di mescolanze, incontri e scontri che di volta in volta la riscrivono e la rilanciano. Nasce da questa visione, diametralmente opposta all’idea di un ebraismo rigido e sempre identico a se stesso, consolidata in tanto immaginario collettivo, l’Ebraismo, secondo volume della serie Le religioni e il mondo moderno di Einaudi (624 pagine, 98 euro). Curata da David Bidussa e Giovanni Filoramo, l’opera racconta l’identità ebraica attraverso 24 saggi che indagano scenari storici e culturali, rapporti con la società circostante, pratiche e trasformazioni spaziando dall’Europa moderna fino agli Stati Uniti e a Israele.
Il risultato è uno studio che ben poco ha a che fare con i tradizionali libri di storia e appare destinato a suscitare nuovi dubbi e interrogativi più che a fornire facili risposte. I saggi, frutto del lavoro di studiosi e specialisti di discipline diverse, procedono infatti sul doppio binario cronologico e tematico componendo un mosaico sfaccettato che rispecchia molteplici e aspetti dell’identità ebraica. E proprio questa era l’ambizione dei curatori, spiega David Bidussa. “Non credo – dice – che esista l’ebraismo come corpo organico che si costruisce coerentemente e si origina da un solo nucleo. Vi sono invece gli ebrei nel tempo, che producono un complesso culturale che leggiamo come un corpo coerente”.
David Bidussa, quale ebraismo avete voluto raccontare in questo libro?
L’idea di partenza è che gli ebrei di oggi non sono la trasposizione di un’identità antica che non è mai cambiata. Ma rappresentano un insieme di modelli, di stili di vita e di vite che non possono essere ricondotti a un codice unico. Si è dunque cercato di capire quali sono le circostanze e le sfide che nel tempo li hanno fatti cambiare. Ogni soggetto vive nella storia solo se riesce a dare risposte alle domande che il suo tempo gli pone. E ciò include la capacità di subire sconfitte, di prenderne atto e riflettervi per mettere in campo delle nuove alternative. I popoli che non riescono a farlo scompaiono. Ma la storia degli ebrei è fatta proprio di questa materia.
In che modo quest’approccio si riflette nelle tematiche dei saggi?
Abbiamo cercato d’indagare l’incontro del mondo ebraico con la modernità attraverso quattro scenari: quello italiano in tutta la specificità; quello olandese in cui si è esaminato attraverso la vicenda di Spinoza la rottura del vincolo d’appartenenza; il Settecento tedesco con la sua dialettica tra inclusione e assimilazione e il mondo chassidico dove si esprime invece un netto rifiuto di quanto rappresentato dal moderno. Ne è emerso che nessuno di questi ambiti è rimasto indifferente alla modernità ma ne ha assimilato linguaggi e modelli, filtrandoli attraverso la propria sensibilità e i propri valori.
Un elemento che può lasciare perplessi è l’assenza di approfondimenti sull’antisemitismo e l’antigiudaismo. Perché questa scelta?
Nel volume vi sono alcune assenze tematiche. In tema d’integrazione non parliamo ad esempio della rivoluzione francese ma del Sinedrio e del suo significato per il mondo ebraico che lì per la prima volta è chiamare a prendere la parola e ad assumersi la sua responsabilità. Quanto all’antisemitismo non lo ritengo un elemento costitutivo dell’identità ebraica che però si è modellata e ha dato una produzione culturale anche in relazione all’ostilità del mondo esterno. Ed è su quest’aspetto che ci siamo soffermati. Non trattiamo neppure dei ghetti, considerati una condizione e non un modello organizzativo né dell’ideologia sionista. Per quest’ultimo aspetto si è preferito invece soffermarsi sui meccanismi educativi che lo diffondono e sulla rilettura della storia ebraica che lo accompagna.
Un esempio di questi meccanismi?
Un aspetto può essere il tema della sicurezza fisica, così presente in tante comunità ebraiche. Non è un fatto soltanto tecnico ma un contenuto culturale che rimanda al significato dell’essere ebrei e conferisce identità, soprattutto ai giovani.
E un caso d’incontro tra ebrei e la modernità?
Potremmo citare il diritto ebraico cui nel volume è dedicato un saggio. A parlarne un secolo fa il discorso sarebbe stato molto diverso. E non solo per la nascita, nel 1948, dello stato d’Israele. Ma perché quel sistema giurisprudenziale non si è limitato a ricostruire l’antico diritto degli ebrei recependo invece con creatività i linguaggi, i modelli e tanti contenuti delle dottrine contemporanee. Come tanti altri prodotti della cultura del mondo ebraico è un’ibridazione con concetti e categorie che provengono da altri mondi.
Parlando di modernità non si può fare a meno di citare gli Stati Uniti.
Qui la tradizione ebraica è stata ripensata e ricostruita in un prodotto autonomo. L’incontro dei mondi ebraici con una società aperta come quella americana ha avuto infatti come risultati l’ebraismo conservative e lo sviluppo di una produzione culturale notevole, anche in ebraico, con biblioteche, scuole, istituti d’alta formazione rivolti a tutti i mondi ebraici. Nell’ultimo secolo gli ebrei si trovano così, per la prima volta nella loro storia, a dover fare i conti con più poli culturali anziché con la successione di centri diversi che ne aveva contraddistinto il passato.
Tra le questioni ancora aperte che figurano a conclusione del libro vi sono tematiche di stretta attualità quali la nuova sociologia delle comunità ebraiche o il ruolo dei rabbini oggi. Anche qui possiamo rintracciare uno scenario evolutivo?
Senz’altro. I rabbini del Settecento erano funzionari interni alla comunità ebraica. Oggi sono invece divenuti dei capi carismatici, così com’è accaduto nel mondo cristiano, protestante e islamico. Quanto alle comunità credo attraversino un momento di profonda crisi. La gestione dei servizi agli iscritti non basta più a tenere insieme un mondo che si va segmentando su aggregazioni e appartenenze ebraiche diverse dal passato, più ampie, meno territoriali e spesso internazionali.
Daniela Gross