I veleni dell’Archivio antiebraico
L’archivio antiebraico di Simon Levis Sullam (Laterza) uscito in questi giorni in libreria non è un libro facile, ma è un testo indispensabile se non vogliamo considerare l’antisemitismo solo come la storia della violenza, ma come un fenomeno storico caratterizzato da scelte, decisioni, entusiasmi. Un atto violento, pieno di sangue in cui la morte è un prodotto tanto dei sentimenti, delle convinzioni, delle teorie, ma, soprattutto delle pratiche, ovvero parole, modi di denominare e classificare, pensieri, cui si collegano atteggiamenti e azioni fisiche. Ovvero cose che si fanno e convinzioni che si hanno.
Quelle pratiche, tuttavia si spiegano e si comprendono non tanto raccontandole, ma scavando nelle parole che si usano che accompagnano e spesso precedono, e poi dopo raccontano o giustificano quelle pratiche. Anche nei modi con cui talora si torna a riflettere criticamente e autocriticamente su quelle pratiche. In concreto: in ciò che in quel caso si dice e, soprattutto, su ciò che si tace; sulle culture con cui si fa i conti riversando su di esse la responsabilità di quel fenomeno e di quelle che si sottraggono (una di queste e su cui Levis Sullam insiste coinvolge una parte rilevante del cattolicesimo italiano, soprattutto quello riferito alla rivista “Civiltà cattolica”, in particolare tra anni ’60 e anni ’90 dell’Ottocento).
L’antisemitismo, così, non è solo atti pratici, o atti fisici. Spesso è un insieme di cose, di immagini, di parole, di frasi che si accumulano nel tempo si sommano tra di loro e in una data circostanza storica, politica, sociale si organizzano e si propongono in un sistema coerente che in quel momento diventa una pratica politica, e un fenomeno evidente.
In altre parole l’antisemitismo diviene nel tempo, ma non è né eternamente uguale a se stesso né una costante nella storia. Per comprenderlo si tratta, perciò, descrivendo le pratiche, di scavare nelle forme discorsive comunicative, nelle immagini che si usano, analizzando le paure, le angosce che conducono alle pratiche antisemite.
L’antisemitismo nasce così “in testa”, ma non si genera da solo, non è una proiezione mentale. “In testa” arriva attraverso molti veicoli che non immediatamente sono “antisemitismo”, ma che lo diventano in base a una sommatoria di convinzioni, di idee, di immagini. Questo mosaico è mobile, si scrive e si riscrive nel tempo, ma non tralascia mai niente, anche quando non utilizza tutte le immagini e le parole che ha accumulato, tutto ciò che lentamente si è depositato. Questa cosa dove tutto si accumula, niente si perde, e nel tempo si organizza è ciò che Levis Sullam propone di chiamare archivio.
“L’archivio antiebraico – scrive Levis Sullam nelle prime pagine del suo libro – è per noi quel repertorio di immagini, di luoghi, ragionamenti, meccanismi concettuali, quella biblioteca di testi, – anonimi, collettivi, di singoli autori – che hanno costituito l’antiebraismo come pratica discorsiva, offrendovi costante alimento, ma trasformandosi anche nel tempo: cioè sedimentandosi, riattivandosi e soprattutto ricontestualizzandosi in congiunture storiche nuove e diverse”.
L’archivio antiebraico, dunque, non racconta la storia dell’antisemitismo, ma aiuta a comprendere per quali vie si diventa antisemiti, quali sono le parole, le immagini che popolano la mente, il livello conscio e soprattutto l’inconscio , anche di coloro che si dichiarano “filosemiti” e “amici sfegatati d’ Israele e degli ebrei” e che in forza di questo schieramento non fanno i conti con le idee e i contenuti culturali, emozionali, mentali del passato.
Tutto questo non cessa di essere attivo perché gli ebrei sono ora divenuti “amici”, bensì si trasla e si trasferisce su qualcun altro nei cui confronti si attivano gli stessi meccanismi: la funzione di capro espiatorio, le pratiche persecutorie, le stesse costruzioni mitologiche. In breve l’archivio non è un blocco mentale e concettuale rivolto a un solo “avversario”, ma colpendo quello nel tempo, diviene un bagaglio generale, pronto per l’uso anche quando non sono gli ebrei il suo obiettivo. Qualcosa, dunque, che ci riguarda tutti proprio nel nostro tempo.
David Bidussa