Dal mito di Israele alla nostra realtà
“Tredici lezioni per diventare ebrei. S’intitolava così uno dei libri più venduti lo scorso anno in Cina dove, nello stesso periodo, andava a ruba un manuale di galateo per comportarsi a dovere con nuove conoscenze di religione ebraica. Le ragioni di tanto interesse con ogni probabilità affondano le loro radici in questioni d’affari più che di cultura. Ma il boom degli ebrei nel paese del Sol levante è un’ulteriore conferma di una costante sovraesposizione mediatica dell’ebraismo a livello internazionale. “Una pubblicità ottima”, chiosa con un sorriso Vittorio Dan Segre che proprio con il caso cinese ha concluso il suo intervento al Moked di Parma.
Classe 1923, Segre ha contribuito alla nascita dello Stato d’Israele. Ex-diplomatico, ex-militare, docente di Relazioni internazionali in università prestigiose – da Oxford alla Bocconi al Mit di Boston – fondatore a Lugano dell’l’Istituto di studi mediterranei, giornalista e scrittore (sua l’autobiografica «Storia di un Ebreo fortunato»), collaboratore apprezzatissimo di www.moked.it e del notiziario quotidiano l’Unione informa, Vittorio Dan Segre rifugge da ogni previsione apocalittica sia sull’ebraismo sia su Israele. E professa invece un convinto ottimismo che di questi tempi sembra diventato merce rara.
Professor Segre, perché gli ebrei sono oggi così di moda?
Perché siamo al tempo stesso il simbolo dell’altro e la speranza della sua soluzione. Israele ha infatti realizzato un sistema d’integrazione, non solo nei confronti degli ebrei, che gli ha consentito di assorbire nel paese immigrati dal terzo e dal quarto mondo facendo dell’immigrazione una forza e non un peso. Da questo punto di vista siamo un modello.
Eppure l’immagine di Israele all’estero non è così positiva.
Invece di proporre gli aspetti post moderni dell’esperienza israeliana, quale ad esempio la questione dell’integrazione o lo sviluppo tecnologico e scientifico, la rappresentazione mediatica preferisce soffermarsi sull’elemento dell’ortodossia ebraica e dunque su quell’aspetto dell’ebraismo che è stato oggetto di distruzione con la Shoah e che oggi rappresenta un anacronismo.
I motivi di questa focalizzazione?
E’ molto più comodo mettere in secondo piano i successi e la modernità che fanno d’Israele un modello e puntare invece su una tradizione immobile. Diciamo poi che nel caso del mondo arabo o palestinese entra in gioco anche l’invidia per i risultati che siamo riusciti a raggiungere partendo dal nulla.
Anche da parte ebraica c’è però una sorta di ritrosia a lodare troppo Israele.
E’ un atteggiamento di falsa umiltà per cui si cerca di sminuire il dato positivo e si mettono in luce gli errori. La realtà è che l’evoluzione d’Israele è portentosa al punto che noi che l’abbiamo visto nascere non riusciamo davvero a rendercene conto. Accade per Israele come per la Shoah: è una storia troppo grande per essere compresa da una sola generazione. Si deve lasciar decantare con il tempo l’epopea dello Stato e la tragedia dell’Olocausto. Solo allora si potrà cercare di capire.
Quanti hanno assistito alla nascita dello Stato d’Israele oggi spesso stigmatizzano il suo essere divenuto uno stato come tutti gli altri.
Non riescono più a riconoscersi in Israele perché il loro Israele era il paese di un’epopea messianica che non poteva però essere realizzata nel giro di poche generazioni.
Uno dei motivi di critica sta nella presunta caduta di valori della società israeliana.
E’ un tema di cui si dibatte molto anche in Israele. Va però sottolineato che quella israeliana è una società di straordinaria forza che oggi non è affatto rappresentata dalla sua dirigenza.
Che funzione ha l’ebraismo diasporico nei confronti d’Israele?
Ha uno straordinario senso storico, ideale, religioso e morale perché porta un messaggio di grande rilievo di cui Israele è uno degli elementi importanti. In questo senso la Diaspora ha una responsabilità notevole nei confronti di se stessa e dell’umanità.
Come vede il futuro dell’area mediorientale?
Non dobbiamo mai dimenticare cosa comporta l’emergere di una nuova sovranità in una zona politico strategico così compatta come il Medio oriente. Fatti di questo tipo creano sconvolgimenti di portata molto profonda nell’ecologia politica di qualsiasi zona. Basti pensare alle ripercussioni della nascita dello Stato italiano. L’epopea israeliana non poteva risolversi in tempi ridotti.
E la pace?
La pace già esiste con un numero notevole di vicini. La pace però si conclude con un altro stato. Ora il problema è lo scontro in atto tra un popolo e uno stato. Si tratta di una situazione che contiene in sé elementi rivoluzionari e distruttivi. L’esistenza di uno Stato palestinese è dunque una necessità: non un pericolo.
Daniela Gross